L’eterno ritorno del mito

Luca Leonello Rimbotti, La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme Il riscatto del pensiero mitico non può che incrociarsi con il crollo della società modernista. L’organizzazione della vita su basi meccanicistiche ed esasperatamente utilitariste esclude una possibilità di convivenza tra mito ed egoismo individualista. Il mito, infatti, è essenzialmente comunitario, in esso batte l’energia animatrice di una comunità storicamente fondata e culturalmente differenziata. Poiché il mito, che pure richiama gli assoluti dell’esistenza, si afferma e si rivela per vie relative, proprie ed esclusive di ogni gruppo culturale umano.

I popoli che mantengono vivo il loro mito autoctono, anche se corroso dalla modernità, sono di una specie diversa da quei popoli che invece se ne disfano, rinnegando una parte vitale della loro identità. Fu Vico a definire quasi di due razze diverse coloro che ravvivano e proteggono la capacità mitica comunitaria e coloro che al contrario la sovvertono, abbandonandola alla dimenticanza.

Il sacro fatto fuggire dal mondo quotidiano e relegato nei paradisi o negli inferni ha lasciato un vuoto nelle anime dei popoli e dei singoli uomini. Un vuoto che è stato alla fine riempito con la nevrosi del materialismo e con la condanna produttivistica. Che sono le nuove vincenti divinità infere che dominano sull’indifferenziato. Hegel concepiva il compito della classe intellettuale come una fonte di illuminazione sui valori ultimi, su quel sostrato di saperi, percezioni, istinti sui quali riposa una cultura.

Compito dell’ultimo vero “sapiente” del mondo occidentale – l’opposto degli “intellettuali” del moderno illuminismo, che amano degradare i valori e che si sono fatti un titolo d’onore della loro distruttiva miscredenza – dovrebbe essere quindi la tutela di ciò che rimane dell’anima del popolo. E nell’anima del popolo vive il mito, tra le cui maglie inespresse e occulte riposano l’origine, il carattere, la forma. L’anima del popolo non è un’astrazione, non è neppure l’Anima Mundi vagamente platonica. È il segreto della stirpe, quel potere enigmatico che, ad esempio, spingeva un poeta della profondità e della raffinatezza di un Hölderlin a definirsi “voce del popolo”, terminale nobile di tutto un modo comunitario di percepire la vita, la terra propria, il destino.

Martin Heidegger, Essere e tempo L’era della comunicazione, paradossalmente, si presterebbe in modo magnifico alla ripresa del mito, che è prima di tutto immagine, racconto corredato di simboli e allegorie visivamente rappresentabili. Non è affatto detto che la tecnica uccida il potere mitopoietico. È anzi vero il contrario. La martellante fiumana della comunicazione contemporanea non veicola alcun messaggio, che non sia quello del burattino plastificato che si presta alle strategie del mercato.

Una volontà politica di segno opposto a quella attuale potrebbe facilmente fare della tecnologia il mezzo per rianimare il circuito mitico che langue nell’inconscio del popolo, attivando poteri di solidarismo, di comunitarismo e di reciprocità autentici e davvero legati ai significati primari dello stare insieme. La socialità matura nasce infatti dal padroneggiare i codici che i gruppi umani hanno in comune tra di loro, e che provengono dalle più lontane radici storiche e bio-politiche.

La socialità non artefatta vive di popolo. Fateci caso: oggi si promuovono eventi di aggregazione sociale (dai girotondi ai concerti in piazza) in cui primeggia il concetto di “gente”, anonima, indistinta, che nulla ha a che spartire con l’idea alta di popolo, che rimanda immediatamente al patrimonio della tradizione comune. Sfigurato il significato del mito collettivo – quello junghiano, che nei periodi neri della storia si inabissa nella immemoriale dimensione del rimosso – oggi è rimasta la sua invertita contraffazione, la sua scimmiesca parodia: mito del successo, della vita superficiale, dei soldi.

Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragion mercantile dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell'economia globale Una comunicazione tecnologica fedele al significato profondo del mito accomunante, che rigenerasse i momenti del rito, della simbolica, della sacralizzazione degli spazi e dei tempi, potrebbe agire su quel sostrato di psicologia collettiva che non muore quando muore la coscienza di un popolo, ma gli sopravvive. Rifugiandosi nella psicologia collettiva, o nella “traccia mnestica”, l’orma del ricordo, l’impronta della memoria che giace silenziosa, che attende soltanto che qualcuno o qualcosa la risvegli, dicendo la parola. E il mito, che è parola, sa tornare in superficie, quando evocato secondo le vie della tradizione.

È ciò che Leopardi definiva come “ricordanza”, la capacità di raccordarsi immediatamente alle origini, il luogo radicale dove non c’è menzogna, ma verità e autenticità purissime. Il celebre studioso James Hillman ha visto giusto quando ha individuato nel secolo XVII il primo atto del moderno attacco al mito. Il secolo di Hobbes e di Cartesio, il secolo calvinista del trionfo borghese, che dette via libera in successione al pensiero massonico, utopista, liberale, individualista e agnostico. Il secolo che, come ricordava Pound, vide la nascita della Borsa d’Inghilterra e la formazione dei primi imperi mercantili. Hillman cita anche il luogo esatto in cui si fabbricò la prima, rudimentale macchina per produrre il pensiero criticista e fanaticamente razionalista: la Royal Society di Londra, una di quelle conventicole – come più tardi i giacobini, come oggi le scuole di scienza sociale impastate di progressismo – che lavorano da sempre per estinguere nei popoli la fiamma antica dell’autorappresentazione e della referenzialità identitaria.

Il mito è lo scrigno dell’azione scenico-liturgica, grazie alla quale un popolo rivive la propria realtà mitica. La prossima, sicura rovina dell’imperialismo tecno-globalista passa dalla riconquista del ruolo di funzione sociale dei valori di legame, tra i quali il mito comunitario – fatto di storia, di epica, di patrimonio immaginale, di tradizione – è il più profondo, in grado di trasformare la grigia convivenza sociale in una potente religione dell’appartenenza. Grande molla di emancipazione etica delle masse moderne, oggi ridotte a enormi greggi allo sbando.

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Tratto da Linea del 29 maggio 2003.

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