Eros e mito pagano, radici occulte della modernità

In corso fino al 15 maggio 2006 presso il prestigioso Museo degli Argenti – situato all’interno di Palazzo Pitti a Firenze -, la mostra Mythologica et Erotica. Arte e Cultura dall’antichità al XVIII secolo costituisce un eccezionale repertorio circa l’acquisizione dei miti di Eros lungo epoche che vanno dalla ceramica apula del IV secolo a.C. al marmo itifallico di epoca romana imperiale, da bassorilievi e pannelli greci di soggetto dionisiaco ad affreschi pompeiani, dalla plastica romana con i temi tradizionali di Amore e Psiche o di Leda e il Cigno, fino alle stampe cinquecentesche di soggetto erotico-mitologico, alle maioliche, alla statuaria neo-classica, alle porcellane settecentesche, ai piatti, ai vasi, alle lucerne, alle gemme, ai cammei, agli intagli. Un posto di rilievo è occupato dalla numerosa serie di quadri, da Luca Giordano al Tiepolo, da Annibale Carracci al Tintoretto, da Guido Reni al Pontormo: ed è tutta una folla di Veneri, di Cupidi, di Danae, di Satiri.

Provenienti da numerose e importanti collezioni pubbliche e private italiane ed europee, i pezzi in mostra si accompagnano all’inedita serie di Cristiano Dehn, un vero unicum consistente in otto cassette ricolme di preziosi cammei e intagli in gesso e ceralacca, di soggetto erotico, conservate presso lo stesso Museo degli Argenti. Tutto questo ricco patrimonio, qui appena accennato, riesce nell’ambizioso proponimento di mostrare come il mito legato alle figurazioni erotiche sia stato in ogni epoca uno snodo culturale centrale, inteso a veicolare col simbolismo d’Amore tematiche allusive alla sacralità e alla gloria del potere. Volgendo così il Mito da soggetto estetico a canone etico.

Nel bel catalogo (Edizioni Sillabe), curato da Ornella Casazza e Riccardo Gennaioli, si legge infatti che “la mitologia come pretesto culturale non fu utilizzata però solo per abbellire gli arredi di residenze regali, aristocratiche o dell’alta borghesia a celebrare importanti eventi privati, ma anche per raffigurare imprese militari e politiche di personaggi, esaltandone così anche le virtù”.

Secondo i più recenti accertamenti scientifici, la rinascita dell’interesse per la cultura classica antica, dopo la frattura dovuta al crollo dell’Impero romano, è da collocarsi non più nell’opera del Petrarca, come si era sempre usato fare da parte di una consolidata tradizione storiografica, ma un buon secolo prima, ben addentro quindi a quel Duecento gotico ancora saldamente ancorato alle identità tradizionali e ignaro delle imminenti aggressioni mercantili. È infatti di mano di Ronald G. Witt, col suo erudito studio Sulle tracce degli antichi, lo scavo tra le opere di quei grammatici, rètori, logici e poeti del secolo XIII che anticiparono la fragorosa impennata neopagana avvenuta nel Rinascimento europeo, che si espresse con i conosciuti nomi dei vari Ficino, Pico, Poliziano, Melantone, fino alle simbologie apologetiche di un Botticelli, di un Giulio Romano. Tutti artefici di un’epocale e clamorosa irruzione della paganitas nell’epoca che gettò le basi della modernità, attraverso la trionfante rappresentazione del mito pagano nel bel mezzo dell’egemonia del potere cristiano.

Fenomeno così ben descritto, tra gli altri, dal classico del Warburg sulla Rinascita del paganesimo antico. Si trattò di una vera e nuova epifania del sacro pagano, compiutasi paradossalmente non tra l’ostilità, ma non di rado col concorso attivo di eminenti vescovi e pontefici di Santa Romana Chiesa. In questo clima di rinascenza pagana, il protagonismo di tempre assai più pagane che cristiane, come quelle di un Bessarione, di un Cusano, di un Pio II o di un Giulio II, impone infatti di domandarsi come il cristianesimo avesse speso i circa quindici secoli sin lì avuti a disposizione, se per lanciare un’ineguagliata fioritura di civiltà si dovette ricorrere all’arsenale greco-romano della paganità, del mito, delle simbologie naturalistiche e vitalistiche (come ad esempio la figura di Eros), in luogo dello spento e inibente devozionalismo. Che, se ristretto tra le maglie del conformismo confessionale, è certo più atto a deprimere il genio individuale e comunitario, che non ad esaltarlo.

Qualcosa di viscerale, di intimo, legava la cultura egemone nel secolo XIII, cioè la provenzale cavalleresca, incardinata sull’onore individuale e di stirpe, alla civiltà di Roma repubblicana, grandiosamente rilanciata una prima volta dalle élites culturali duecentesche. Nel mondo dei significati interni che legavano le due koiné fondanti, quella nordico-germanica della cavalleria cortese e quella della romanità repubblicana riscoperta dagli eruditi italiani, è indubbio che fattori preminenti furono il mito pagano in generale e il mito di Eros in particolare. L’Amore antico, pre-cristiano, sano e finalmente liberato dalle punitive censure bibliche, tornò a popolare gli immaginari ben prima della stagione umanistica. Esso era visto essenzialmente come giovane sangue ribollente di istinto vitale, ritmo di vita eternamente vittorioso.

Più tardi, l’Eros celebrato da Marsilio Ficino, ad esempio, tornerà ad essere rappresentato, alla maniera che già era stata di un Euripide, come potente forza di natura, perpetuo annodarsi dei destini e sovrana copula mundi. La riscoperta dei classici portò a definire questo Eros, similmente a quanto accade in Ovidio, anche come grazia di modi e vibrazione di corpi, certo, ma soprattutto come trama di sottili legami psicologici: e l’esatta corrispondenza, su questi temi, con la cultura provenzale dell’Amor cortese, balza evidente. Come evidente è l’interpretazione di Amore nel senso di energia primordiale, di magnete attrattivo del simile col simile, dialettica degli opposti, stilla divina che segna l’identità, che imprime il tratto di un volto e di un popolo, secondo un modo che, dalla Teogonia di Esiodo che narra la nascita di Eros dal Caos primordiale, giunge sino al Goethe delle Affinità elettive, simbologia di arcani magnetismi biologici attivati dall’occulto potere di Amore.

In Grecia è Pan che riconcilia poli femminile e maschile, che riconduce all’unità di natura, e Pan è satiro, è il dio lascivo della pulsione atavica, come l’Ermete pastorale, Priapo, è potenza generatrice e istinto primario. E c’è chi ha visto nel culto fallocratico greco l’origine stessa della nostra civiltà, che avrebbe costruito proprio sulla guerra dei sessi il predominio del lato apollineo-maschile. Questo soltanto, nel confronto con la sfera dionisiaco-femminile, custode della caotica sfrenatezza istintuale, avrebbe garantito il corretto procedere dell’ordine sociale. Le Amazzonomachie, che così numerose compaiono dipinte sulle ceramiche elleniche, in questo senso, non sarebbero altro che la celebrazione di un suprematismo maschile duramente conquistato. E nelle numerose figurazioni divine relative ai miti teriomorfi dello Zeus violentatore, fecondatore e priapico, si sarebbero voluti ombreggiare ancestrali culti di stupro, leggende di maternità maschile (come quella sulla nascita di Dioniso da Zeus), rimandi al dominio maschile come salvifica egemonia sul Caos primevo: il tentativo storico, cioè, di vincolare il femminile-sensuale nei recinti dell’ombra anìmica, psicologicamente irrinunciabile ma socialmente disintegratoria.

Molte di queste tematiche fondatrici della nostra superiore civiltà le ritroviamo oggi in una originale e importante mostra, in corso in Palazzo Pitti a Firenze: Mythologica et Erotica. Arte e Cultura dall’antichità al XVIII secolo. In questa esposizione noi vediamo messo in evidenza tutto un universo di significati, allegorie, metafore e simboli erotici ripresi dall’arte e dall’artigianato artistico come altrettanti segni del potere e del fasto sovrano.

Anche i secoli della cristianità compresero dunque il prestigio insito nel mito, e ne disposero per darsi nobilitazione. I pagani amavano il bello, in ogni sua forma. E dunque l’Amore, e l’Arte che ne è la rappresentazione più vivida, insieme realizzano l’ideale greco di bellezza: “Nessuno ignora che la passione d’amore sorge nelle anime desiderose di unirsi alle cose belle”, affermava Plotino. La stessa sessualità, in tali contesti pagani, ignorando le avvilenti repressioni del dogma, perveniva ad una ulteriore celebrazione della vita come confronto talora tragico con il destino, ma anche come gioia. Tanto che uno dei più celebri documenti della nostalgia rinascimentale per i simboli pre-cristiani, la Primavera del Botticelli, può a giusto titolo esser visto, come ha scritto Ornella Casazza, ideatrice della mostra fiorentina, come “celebrazione della potenza di Venere che è conoscenza dell’idea prima di gioia terrena”.

Ma l’esposizione di Palazzo Pitti va oltre l’estetica. Essa, nel ricordarci il profondo nesso culturale che la nostra civiltà ha sempre stabilito tra la Bellezza vitalistica, il Potere sacrale e il Sublime ideale, è anche un’occasione per approfondire, con i mezzi impressionistici della simbolica artistica, un aspetto culturale oggi negletto in nome della volgarità e dell’omologazionismo cosmopolita. Se questo impone ovunque e con violenza l’indifferenziato, l’informe, l’ibridato, il mondo pagano tradizionale celebrava la forma identitaria, lo stile differenziante, l’eterna Gestalt che crea i valori dell’appartenenza.

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Tratto da Linea del 7 novembre 2005.

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