Sulla Disciplina dell’Uomo Tradizionale nell’Età del Declino

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Immortalis Ero, Si Modo Pergat Ita
(immortale sarò,solchè si continui così)
Chymica Vannus

Eraclito disse: “L’uomo è un dio mortale, il Dio è un uomo immortale”. Il compito dell’uomo della tradizione è quello di farsi dio. Sebbene il fine ultimo resti questo, per un tipo umano differenziato, dritto fra le rovine, la via da seguire nell’Età di Kali (età del declino) assume dei caratteri più specifici: infatti quando un ciclo di civiltà volge verso la fine, un’azione diretta contro le forze in moto non porterebbe a nulla, “la corrente è troppo forte, si sarebbe travolti”; così il principio da seguire è quello di non lasciarsi impressionare dall’apparente trionfo delle forze dell’epoca e di ritirarsi su di una linea più interna di posizione, pronti ad intervenire quando “la tigre, che non può avventarsi contro chi la cavalca, sarà stanca di correre”.

Pertanto l’uomo della tradizione che si trova a vivere nell’età del declino non cela in sé il deserto che avanza e fa propria una ben delineata disciplina che appartiene alla Tradizione. Il fine che ci prefiggiamo è proprio l’esposizione di tale disciplina.

Julius Evola Prenderemo in considerazione primo fra tutti Sulla visione magica della vita (Introduzione alla Magia, vol.II), scritto da Julius Evola, firmato con lo pseudonimo “EA”, in ossequio al principio secondo cui nelle scienze tradizionali è l’insegnamento che conta, non la persona di chi l’espone.

Nel prosieguo del farsi dio il Maestro espone la necessità di una purificazione dell’azione, che può avvenire solo se nella vita comune si segua un determinato rigore. L’uomo, centro di forza, avrà una grande libertà, con l’azione per unica legge. L’azione va liberata, va realizzata in sé, monda dalla febbre mentale, detersa da odio e brama. Essa non si determina più per questo o quell’oggetto, bensì per se stessa. L’uomo distaccato, si muoverà; gli oggetti intorno a sè cesseranno di essere oggetti di desiderio, diverranno oggetti di azione.

Nella Bhagavad-gita leggiamo “dedicando a te tutta l’azione con la mente fissa nello stato supremo dell’Io, lontano dall’idea di possesso, liberato dalla febbre mentale, combatto”. Così cadrà la grande malattia, il senso umano della vita. Solo con il subentrare di una calma superiore potrà scaturire il tipo di azione pura e purificante: un’azione superiore al vincere ed al perdere, al successo ed all’insuccesso, all’egoismo e all’altruismo…

Ed ancora la Bhagavad-gita: “mettendo al pari piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e sconfitta, mi armo per la battaglia”. Nella vita comune è d’uopo seguire una disciplina che faccia realizzare l’inutilità di ogni sentimentalismo e di ogni complicazione affettiva, le quali verranno sostituite dallo sguardo lucido e dall’atto adeguato. Compassione e pietà cesseranno di esistere, al loro posto l’intervento che risolve. E’ necessaria la pronta determinazione di tutto quel che è in proprio potere fare, per poter dire di aver fatto ciò che poteva esser fatto.

Paura, ansia, impazienza,speranza devono essere annientate: la compassione non rimuove nulla del male altrui, ma fa che esso conturbi il tuo animo… Odiare degrada e chi odia decade ed impedisce di controllare l’influenza dell’avversario.

Tre sono gli atteggiamenti con i quali attendiamo alla liberazione della visione della vita e del mondo: il Distacco, il Silenzio, la Solitudine. Non bisogna riconoscersi negli esseri: è imperativo distanziarsi da essi! Inoltre bisogna lasciare tutto ciò che l’uomo con i suoi sentimenti, i suoi pensieri, le sue paure, le sue speranze ha proiettato nella natura per rendersela intima, per farle parlare la sua stessa lingua. Laddove vi sia tensione, si risolva con immobilità e lentezze vertiginose.

Questa disciplina tradizionale ci viene tramandata attraverso gli “Aurei Detti” di Pitagora. Addirittura essi possono intendersi un agevole rito iniziale, Galeno ad esempio soleva recitarli alla fine ed al principio del giorno. Solo se tali precetti verranno osservati essai athanatos theos (sarai un immortale dio), ambrotos (senza bisogno di sangue e di cibo), ouk eti thvetos (non più uccidibile).

Il primo dei precetti è l’adorazione degli immortali dei, delle divinità locali e degli eroi. In secondo luogo è necessario eseguire le offerte di rito ed onorare i genitori. La disciplina ci impone quindi di frenare stomaco, sonno, sesso, brama e di eliminare la turpezza e fare proprio il pudore. L’uomo nuovo cerca l’equità, non è avventato; non si lascia indurre a compiere cose che per lui non sono il meglio. Egli riflette prima di agire; ha cura per l’igiene del corpo, per il fisico, a patto che non gli rechino noia. Inoltre è d’uopo l’astenersi da ogni atto che susciti invidia: nobiltà è misura in tutto. Ed ancora: “Non fare il tuo male e pondera prima di agire”. Infine prima di accettare che il sonno abbia la meglio su di noi chiediamoci “Dove son stato? Che ho fatto? Qual obbligo non ho adempiuto?”.

Nel Capo di Cuib scritto dal romeno Corneliu Zelea Codreanu proviene un insegnamento tradizionale che difficilmente potè essere trasmesso con tanta interezza in Europa. Anche se per economia di testo non possiamo soffermarci approfonditamente sulle motivazioni che portano a valutare insegnamento tradizionale quello contenuto in tale scritto ritengo che basti considerare il modo analogo in cui Codreanu e Agrippa intendono la preghiera: nel punto 54 della VII parte del Capo di Cuib “La preghiera come elemento decisivo della vittoria. L’appello agli antenati” leggiamo: “le guerre sono vinte da coloro che hanno saputo attrarre dai cieli le forze misteriose del mondo invisibile e assicurarsi il concorso di queste forze”.

Enrico Cornelio Agrippa nel De Occulta Philosophia, Libro III,32 “Quomodo alliciantur a nobis boni daemones et quomodo mali daemones a nobis convincantur” (In qual modo si possano attrarre i demoni benigni e confondere quelli maligni) dichiara: “Sebbene v’abbiano più mezzi di attrarre a noi i demoni benigni e di renderceli favorevoli, tuttavia non ci è possibile avvincerli a noi e ci è solo dato invocarli e scongiurarli per certe cose… mercè le orazioni e i cantici, che sono emblemi delle virtù divine, i demoni talora si pongono ai servigi degli uomini, pur senza esservi obbligati, ma come vinti dalle preci dell’invocatore… Vinte dalle preghiere degli umani, le divinità celesti sono obbligate a scendere in terra…”.

Ma come deve essere e come deve comportarsi quindi un capo? Un capo deve essere compreso, la decisione deve essere presa rapidamente ed attuata sino in fondo. Deve essere benevolo e deve essere giusto con i legionari e con tutti. Egli non commetterà ingiustizia neppure nei confronti dell’avversario: lo sconfiggerà sempre con i mezzi consentiti dalla giustizia e dalla morale, non con la viltà e con la menzogna. Nelle ore del pericolo deve essere coraggioso e deciso, dovrà affrontare con onore il pericolo. Deve essere abile, deve cioè condurre a buon esito ogni suo ordine, usando i mezzi più intelligenti. Deve essere moderato in tutto, ciò non significa che non possa bere, ma deve evitare di ubriacarsi. Sia egli un uomo di parola e abbia un onore che susciti di tutti la stima. Un capo riesce vittorioso in ogni situazione, per quanto difficile sia, qualora cadesse, rialzandosi di nuovo, vincerà!

Ogni uomo della Tradizione deve far sue queste qualità nell’interesse del fine ultimo! Riportiamo anche le idee che un legionario non poteva esimersi dal rispettare formulate in un articolo intitolato “la legione Arcangelo Michele”: la purezza spirituale; il disinteresse nella lotta, ovvero la rinunzia all’interesse personale (desiderio d’arricchire, lusso, dissolutezza, arroganza); slancio; fede, lavoro, ordine, gerarchia, disciplina; energia e forza morale sono conditiones sine quibus non della vittoria; Giustizia; Fatti, non parole! – Fa! Non parlare! Bisogna “conformare la propria vita alle norme della vita legionaria, perché la Legione non è soltanto un sistema di logica, una connessione d’argomenti, ma uno stile di vita”.

Nel Ta eis eauton (A se stesso) Marco Aurelio presenta la condizione dell’uomo perfetto, sacerdote e ministro degli Dei: un uomo che non può essere toccato dal piacere, vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza; egli sarà insensibile a ogni malvagità, atleta nella gara più sublime, invulnerabile da passione, sommerso interamente in lavacro di giustizia, pronto ad accogliere la sua sorte; quest’uomo raramente e per comune bisogno del prossimo si preoccuperà dei fatti altrui.

Ma quale rigore dovrà seguire un uomo per divenire perfetto? Egli deve innanzitutto evitare ogni cosa che devia la cura dovuta alla sua parte sovrana: non deve interessarsi ai fatti altrui, tranne che non sia per qualche comune vantaggio; deve evitare tutto ciò che è ozioso e vano, prime fra tutte eviti la curiosità e la malignità; deve essere pronto a rispondere con sincerità alle domande degli altri, poiché così trasparirà all’istante la semplicità e la benignità che è in sé; non deve in alcun modo preoccuparsi dei piaceri, della rivalità, dell’invidia, del sospetto e simili… L’uomo perfetto si preoccuperà di rendere bella la propria interiorità e nutrirà fede che il suo destino sia buono.

Egli deve tener conto solo dell’opinione di quelli vivono secondo natura. Non deve in alcun modo credere alle parole provenienti da chi non vive secondo natura: questa è gente, tuona l’autore, che nemmeno a se stessa è capace di esser gradita! Infine è sempre bene tenere a mente che l’uomo trascendentale concepisce l’Albero della Genesi, non come una tentazione, ma come l’oggetto di una conquista che trasforma l’audace in un Dio e concepisce Adamo, non come uno che ha peccato compiendo un atto sacrilego, bensì come un essere nel quale fortuna e forza non sono state pari all’audacia.

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