Dire l’indicibile secondo Ingeborg Bachmann

Nel suo celeberrimo saggio sulla simbologia delle icone da poco tornato in libreria, Pavel Florenskij osserva che nell’atto della creazione Dio non ha separato solo la luce dalle tenebre come recita il libro della Genesi ma anche il mondo delle cose visibili da quello, ben più vasto e in larga parte inesplorato, in cui si dibattono entità e forze spirituali che, seppur vere, sfuggono ai nostri sensi. Secondo il matematico e mistico russo questi due regni si sfiorano e sono costantemente in relazione l’uno con l’altro lungo una linea di demarcazione che attraversa la terra del sogno. Nella sfera onirica si realizza secondo Florenskij una sospensione della coscienza tale per cui avviene un rovesciamento speculare delle categorie kantiane di spazio e tempo le quali modellano le nostre percezioni secondo una dinamica opposta rispetto a quella che scandisce la vita diurna. Questo fa sì che il sogno diventi, mercé una chiave di lettura che potremmo senza timore definire sciamanica, lo strumento privilegiato per aver accesso a quella realtà separata di cui parla Carlos Castaneda. Prima di addentrarsi nel dettaglio nella descrizione dell’iconostasi e delle sue specifiche prerogative, il pensatore russo ci avverte tuttavia che le porte regali attraverso le quali si accede a questa dimensione altra sono costantemente sorvegliate da quelli che lui chiama i guardiani: gerarchie celesti e potenze infere che letteralmente presidiano gli accessi. A seconda della predisposizione interiore di ciascuno, il sogno può essere quindi viatico all’estatica contemplazione del Creatore o strumento di diabolica soggezione a Lucifero, il secondo non essendo altro che il lato in ombra del primo, secondo la lezione aurea di Dmitrij Merezkovskij.

Quando la sera del 17 ottobre 1973 il medico legale entra in un appartamento situato in via Giulia a Roma per constatare la morte della scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, uccisa dalle fiamme che hanno avviluppato il suo corpo nel sonno a causa di una sigaretta rimasta inavvertitamente accesa, tra gli effetti personali rinvenuti dalle autorità inquirenti arrivate sul luogo della tragedia spicca, squadernato in bella mostra a poca distanza dal corpo, proprio il saggio sulle icone al quale si è accennato. Un particolare apparentemente insignificante, trascurato dalla copiosa bibliografia a lei dedicata in questi anni e tuttavia indicativo di una geografia interiore molto diversa da quella che le è stata cucita addosso. Stupisce che una scrittrice caustica, polemica e battagliera, nota per le sue prese di posizione antigerarchiche e antidogmatche, vicina alla scuola di Francoforte e non estranea ad una certa vocazione per un uso militante della cultura che la porta a dedicare la sua tesi di laurea all’amato e odiato Martin Heidegger, nel tentativo di sciogliere il cordone ombelicale con il Nazionalsocialismo, che le ripugna e tuttavia la attrae, secondo un percorso esegetico parallelo a quello di Hannah Arendt, si balocchi poi, nel segreto della propria intimità domestica, con testi pervasi da fervore teologico come quelli di Florenskij.

Se tuttavia compiamo lo sforzo ermeneutico di discostarci dalle sue prose maggiormente vincolate alla crudele immanenza della contemporaneità, come quelle giornalistiche, ed esploriamo la sua produzione letteraria e poetica, approfittando del fatto che Adelphi ha da poco ripubblicato la sua maggiore raccolta di versi nella sontuosa edizione a cura di Luigi Reitani, scopriremo un’anima affamata di Assoluto, orfana del Cielo forse ma, proprio per questo, protesa ad esplorare senza infingimenti le abissali, inconfessabili profondità dell’Io, come accade nel suo unico romanzo, Malina, dove una Vienna ancora segnata dalle distruzioni del conflitto fa da sfondo al triangolo amoroso tra la protagonista, che è la stessa Bachmann, e due uomini uno dei quali tuttavia non esiste, essendo solo – ecco l’elemento kafkiano, perturbante –  una proiezione della mente dell’Autrice. Inizia tra lei e il suo Doppio un dialogo allucinante a cavallo tra sogno e realtà, che culminerà nell’uccisione indotta del “rivale”, volto a far riaffiorare i traumi inespressi dell’infanzia, un rapporto freudiano costantemente giocato sul filo di lama che corre tra soggezione psicologica e autosuggestione. Un’Opera al Nero se vogliamo, una discesa agli Inferi al centro della quale si staglia, inamovibile ed ineludibile, l’immagine del Padre, ritratto come l’orco delle fiabe nel gesto iconoclasta di distruggere la propria biblioteca, atto simbolicamente non dissimile da quelli posti in essere ad esempio dal pittore Strauch, alter ego di un altro grande scrittore austriaco, Thomas Bernhard, che nel romanzo Gelo dà alle fiamme i propri quadri o da Mizoguchi, l’antieroe balbuziente di Mishima che incendia il Padiglione d’Oro. Se la Modernità ha determinato una scissione tra l’Uomo e l’Origine nel segno dell’incomunicabilità, spetta alla letteratura il compito di colmare questo solco e impedire che diventi una voragine che ci inghiotta tutti perché, sostiene la Bachmann, ogni scrittore, nella misura in cui agisce in interiore homine, è per definizione apokrifos nell’accezione greca del termine, cioè segreto, ermetico e si avvale di una lingua iniziatica codificata attraverso i secoli da quanti lo hanno preceduto, che è poi la stessa di cui sono intessuti gli archetipi. Se Dio è morto e l’uomo è diventato estraneo a se stesso, solo il Poeta può ritrovare la strada che conduce alle porte regali evocate da Florenskij.

Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, Adelphi, Milano 2023; pag. 362 € 24,00.

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