«Scartare l’inessenziale»: fu una delle prime regole che mi insegnarono i padri gesuiti dell’Istituto Sociale di Torino. Ma pareva inapplicabile a un adolescente onnivoro e curioso come me, che era spinto a percorrere tutte le strade che gli si aprivano davanti, a leggere libri alla rinfusa, a seguire ogni pifferaio capace di suonargli una melodia ammaliante. Certo, nell’adolescenza il gusto di un moderato vagabondaggio intellettuale è doveroso per non precludersi scoperte importanti. Ma dopo avere percorso pur approssimativamente i tanti territori della cultura, assaggiando alla rinfusa frutti saporiti con altri insignificanti, se non nocivi, occorreva riprendere le briglie in mano, fare ordine nella memoria. Fu allora che, entrando all’università, riuscii a capire l’importanza della regola dei padri gesuiti.
Tuttavia vi era una domanda alla quale non riuscivo a rispondere: che cos’è l’essenziale? Là si giocava la mia vita non soltanto intellettuale, ma spirituale. Ci volle qualche anno perché riuscissi a capire qual era l’essenziale per me, ovvero qual era la mia vocazione, quella più profonda, sebbene promettesse sacrifici. Da quel momento l’angoscia per i troppi libri da leggere, spettacoli da vedere, città da visitare e persone da incontrare si dissolse. Un libro doveva rispondere a quella esigenza, così come uno spettacolo o una città. Bisognava evitare il libertinismo turistico, il viaggiare senza uno scopo e senza un’adeguata preparazione, perché significava passare accanto all’essenziale senza riconoscerlo. E sapere soprattutto cancellare ogni sera dalla memoria il superfluo insignificante.
Moltissimi anni dopo, per documentarmi su un libro, Santi d’Italia, che richiedeva non soltanto letture ma soprattutto visite nei luoghi il cui un santo era vissuto o morto, oppure dove si trovava il suo santuario, percorsi con mia moglie in lungo e in largo il nostro Paese. Il filo conduttore era quell’argomento, che si rivelò prezioso perché mi permise viaggiando di scoprire chiese insospettate, nuovi amici che sembravano attendermi in paesini sperduti, tradizioni locali; e anche cose serie come il buon vino, il buon olio e il buon pane casereccio. Dunque l’essenziale mi conduceva a territori contigui che lo accompagnavano discretamente ma non si mostravano facilmente al viaggiatore distratto. Troppa era la concentrazione per soffermarsi su altro.
Se si riesce a non deviare troppo da questo cammino, sarà facile da vecchi scartare e dimenticare l’inessenziale, anche se c’è il rischio opposto di non mantenere desta la curiosità, rifiutando la novità senza esaminarla. Ma chi ha raggiunto una certa età ed è capace di discernere l’essenziale dall’inessenziale saprà riconoscere quel che merita attenzione e sgusciare abilmente dagli incontri vacui, dalla stretta delle chiacchiere inconcludenti e dai progetti di viaggi insensati, soffermandosi soltanto su quel che merita, per le nostre esigenze, di essere visto, letto, percorso, ed evitando soprattutto il circo dei guitti dell’opinione pubblica, che occupano non soltanto gli schermi della teleottunditrice ma persino le prime pagine dei quotidiani e il cui unico titolo di legittimità è la loro impermanente “immagine”.
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Tratto da Il Tempo del 13 dicembre 2003.
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