Chi è italiano, e chi no

Si parla molto di cittadinanza e si tende a identificare la cittadinanza con la nazionalità: se una persona ha la cittadinanza della Repubblica italiana, allora quella persona è senz’altro italiana; in fondo è molto semplice, no? Appunto: è troppo semplice. Eppure è evidente che le cose sono un po’ più complesse, basta riflettervi un attimo. Gli italiani che non hanno potuto, o non hanno voluto, lasciare la Venezia Giulia, nel 1947, al momento della firma del trattato di Parigi e della definitiva cessione di quelle terre alla Jugoslavia, non meritavano più il nome d’italiani, pur avendo perso, evidentemente, la cittadinanza italiana e avendo acquisito quella jugoslava? Chiaro che no: tanto è vero che, almeno sulla carta, in Jugoslavia esse godevano del riconoscimento d’una certa autonomia culturale e linguistica, peraltro ben presto rimasta lettera morta. E i cittadini svizzeri dei Canton Ticino, che non sono mai stati cittadini italiani, né del Regno, né della Repubblica, non meritano di essere chiamati e considerati italiani? Ma certo che sì: tanto è vero che l’italiano viene riconosciuto come una delle quattro lingue ufficiali della Confederazione Elvetica. Evidentemente, si può essere italiani, incontestabilmente e veracemente italiani, pur essendo sprovvisti della cittadinanza italiana: questo punto ci pare sia chiarito a sufficienza.

Ma è vero anche il contrario, cioè che si può avere la cittadinanza italiana senza essere, perciò, veramente e incontestabilmente italiani? Questa sì che è una domanda ad altissimo tasso di scorrettezza politica: perché nel Paese dei diritti inviolabili e insindacabili, nel Paese dove le dispute ideologiche si vincono a suon di querele e di sentenze di tribunale, come la sinistra alla Boldrini insegna; nel Paese dove a settant’anni dalla fine del fascismo si continua a esorcizzare il risorgere della “barbarie” fascista, e vi sono amministrazioni comunali le quali non hanno miglior passatempo che revocare la cittadinanza onoraria concessa a suo tempo al cavaliere Benito Mussolini, e organi di stampa che hanno altro soggetto di cui occuparsi che un bagnino devoto alla memoria del Duce, già il solo fatto di porre un simile interrogativo sa terribilmente di razzismo e quindi, per contiguità logica e ideologica, di fascismo, e manca poco che non faccia venire in mente, a qualcuno, le leggi razziali e l’orrore di Auschwitz. Perché, inutile girarci attorno, porre quella tal domanda, di questi tempi, significa porre sul tavolo la questione incandescente della concessione della cittadinanza agli immigrati: concessione troppo facile, a giudizio di alcuni, oppure, al contrario, troppo lenta e laboriosa, a parere di altri, i quali la vorrebbero come un automatismo legislativo, si nasce in Italia e zac!, la cittadinanza italiana è assicurata. Nessuno può essere così insensibile da negare la cittadinanza a un povero, piccolo bambino che nasce nel nostro Paese e che a tanti preti di sinistra e teologi progressisti fa venire in mente, chi sa perché, il Bambino Gesù nella stalla di Betlemme, che era un migrante pure lui, anzi, addirittura un profugo: o almeno così ha affermato il falso papa Bergoglio nella omelia della santa Messa di Natale; peraltro facendosi immediatamente smentire dai teologi seri, anche se ha strappato gl’immancabili applausi dai suoi soliti tifosi e aficionados della curva sud.

A suo tempo, ci eravamo già posti quella domanda (cfr. il nostro articolo di oltre due anni fa: Che cosa significa acquisire la cittadinanza?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/12/2015), sostenendo che la concessione della cittadinanza non può ridursi ad un fatto meramente opportunistico, cioè fondato sulla convenienza e sull’interesse di colui che la richiede (e magari di colui che la concede, ossia lo Stato, come si deduce dalla dichiarazione dell’ineffabile Tito Boeri, secondo il quale l’Italia ha bisogno dei migranti per pagare le pensioni ai propri cittadini; scordandosi però che anche i migranti, dopo un certo numero di anni, diventeranno cittadini e che anche a loro si dovranno pur pagare le pensioni). Ad ogni modo, quella domanda ci è tornata insistentemente negli orecchi dopo aver assistito al solito servizio del telegiornale di regime, non ricordiamo se della tv pubblica o privata, tanto ormai non c’è più alcuna differenza, che riferiva della manifestazione svoltasi a Macerata domenica scorsa, 18 febbraio. Tale manifestazione è stata pensata dal sindaco di quella città, Romano Carancini, con un vero e proprio colpo di genio: in una Italia che si sta spaccando, sempre di più, fra quelli che piangono la tremenda sorte della giovane Pamela Mastropietro, assassinata e tagliata a pezzi, che poi sono stati occultati dentro due valigie, dagli spacciatori della mafia nigeriana, e quanti vogliono esprimere tutta la loro solidarietà alle vittime del pistolero solitario Luca Traini, il quale ha percorso le strade in lungo e in largo, sparando su tutti gl’immigrati dalla pelle scura che ha visto a portata della sua pistola (e le autorità dello Stato si sono mosse soprattutto per questi ultimi, come se solo quelle persone fossero state vittime di una violenza ben precisa, e la povera Pamela invece fosse morta per una specie di tragica fatalità, insomma per mano di qualche entità evanescente), il primo cittadino di Macerata ha chiamato all’appello i suoi concittadini nel nome di una città libera e antifascista. Geniale: la libertà è un bene preziosi per tutti, e l’antifascismo è un bene prezioso per quelli che contano, cioè gli apparati dello Stato e tutto il carrozzone della cultura e dell’informazione politically correct. Due piccioni con una fava: quanto basta per scongiurare eventuali accuse di faziosità, da sinistra o da destra, in un clima che si sta facendo ormai quasi insostenibile, basti citare i ragazzi dei centri sociali i quali proprio lì, a Macerata, hanno sfilato cantando gioiosamente, il 27 gennaio, giorno della memoria, quant’è bello far le foibe da Trieste in giù, evidentemente per onorare, sputando sul ricordo delle vittime delle foibe, le vittime della sparatoria di Luca Traini, e rassicurare tutti gl’immigrati che gli italiani, nella loro componente sana, sono talmente antirazzisti da non avere alcuna esitazione a diventare razzisti verso i loro stessi connazionali i quali, sulla bontà dell’immigrazione illimitata, hanno delle idee un po’ diverse dalle loro, piene di ottimismo e di fiducia.

Domenica 18 febbraio pioveva a dirotto e faceva freddo, eppure, come hanno riportato tutti i mezzi d’informazione, i partecipanti alla manifestazione voluta dal sindaco non hanno esitato a sfidare eroicamente le proibitive condizioni atmosferiche per far sapere al mondo quanto si sentano antifascisti e amanti della libertà. Erano “parecchie centinaia”, hanno detto televisioni e giornali, per magnificare il loro sprezzo delle crudeli intemperie: il che, per un comune di circa 42.000 abitanti, capoluogo di provincia, senza contare la presenza dei “compagni” i quali, immancabilmente, in simili occasioni vengono mobilitati un po’ dovunque e fatti affluire dall’esterno, a noi pare un po’ pochino: ma guai a dirlo o ad insinuarlo, sarebbe un attentato alla libertà e all’antifascismo. I solerti giornalisti politicamente corretti hanno registrato, e fatto mandare in onda, due interviste (oh, due fra le tante, scelte assolutamente a caso, ben s’intende), colte al volo dai partecipanti al corteo: un signore italiano di mezza età, barba e baffi, ben vestito, che parlava in maniera appropriatissima, come un professore di liceo, e una donna piuttosto giovane, di colore (sì, è vero: di colore non vuol dir niente, non si capisce se giapponese o marocchina, ma insomma è per non dire “negra”, che potrebbe sembrare offensivo, e neppure “nera”, che fa venire in mente una pittura di vernice fresca, mannaggia non salta fuori un aggettivo adatto alla bisogna, di questi tempi nei quali la psicopolizia sorveglia più che mai l’uso del linguaggio, pronta a querelare il malcapitato razzista di turno). Una giovane vestita con proprietà, addirittura elegante, dai tratti molto fini, trucco e rossetto perfetti, che parlava un italiano impeccabile, insomma il vero prototipo dell’immigrato d.o.c., più educato e civile di tanti italiani, ineccepibile, rispettoso della legge, nessuna differenza tranne il colore della pelle: niente veli, niente burqa, nessuna goffaggine, o improprietà, o diffidenza, e una prontezza e una padronanza di sé invidiabili, anche davanti alle telecamere. Insomma, l’equivalente femminile del Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena?, dove Spencer Tracy e Katharine Hepburn scoprono che la loro bionda figlioletta si è fidanzata con un negro, sì, ma più bello di un Apollo e più elegante di un figurino di Hollywood, per non parlare della professione (è un medico molto stimato), del livello sociale, della forbitezza linguistica, cento volte superiori a quelle di un operaio bianco del profondo Sud.

E che cosa hanno detto, a beneficio dei telespettatori, queste due persone scelte certamente a caso nella folla dei manifestanti, sotto la pioggia di domenica scorsa, per le vie di Macerata? Neanche a farlo apposta (quando si dice le combinazioni!), esattamente ciò che il potere vuole che i cittadini si sentano dire, dalla mattina alla sera, ogni santo giorno, possibilmente senza contraddittorio: che va tutto bene così; che viviamo nel migliore dei mondi possibili; che non c’è alcuna invasione, alcuna islamizzazione dell’Italia; che bisogna essere aperti e accoglienti verso gli stranieri, angeli mandati a noi dal Signore Iddio; che chi la pensa diversamente non può essere che un fascista e un razzista, e sarebbe giusto e doveroso mettere fuori legge tutti i gruppi e i movimenti nei quali sia ravvisabile una certa qual reticenza a bersi tutte queste balle colossali. Il signore compito e dall’aria professorale ha detto, indicando le persone con gli ombrelli aperti, che quella era la vera Macerata; che la vera Macerata è così, aperta, accogliente e tollerante; che è un vero delitto che il gesto isolato di uno squilibrato abbia portato la sua città ai disonori delle cronache (ha adoperato proprio questa forbita espressione). E la signora africana, in elegante tailleur rosso, da parte sua, ha deplorato l’intolleranza di certa gente, ha rivendicato i diritti degli immigrati e ha concluso perentoriamente, con aria trionfante: Che piaccia o no, io sono italiana!

Ecco: quest’ultima frase ci ha fatto particolarmente riflettere. Che piaccia o no, io sono italiana! Ma già nel fatto di affermarlo così, come qualcosa che può anche dispiacere a una parte degli italiani, e tuttavia sbatterglielo sul muso, dovete accettare questa cosa, che vi piaccia o no, significa tradire il vero spirito della cittadinanza: perché l’acquisizione della cittadinanza non può e non deve essere brandita come una clava sulla testa degli italiani che sono nati tali, per tradizione millenaria e per piena appartenenza etnica, linguistica, culturale. Non si diventa italiani con un atto d’imperio o con l’esibizione di un pezzo di carta: perché una cosa è essere cittadini italiani, e un’altra cosa è essere italiani per davvero, cioè nel profondo dell’anima. E il primo requisito per essere dei veri italiani non è di tipo giuridico e formale, ma morale e sostanziale: significa amare l’Italia e ciò che essa rappresenta: la sua civiltà, la sua cultura, il suo popolo, la sua lingua, la sua arte, la sua storia, la sua bellezza, tutto il suo immenso patrimonio spirituale. Del quale fa parte inscindibile il cristianesimo, che ciò piaccia o non piaccia – vien da dire, facendo il verso a quella gentile signora – ai burocrati massoni di Bruxelles, tutti intenti a raschiar via quel poco che resta di cristiano nelle società le quali, per loro sventura, hanno aderito al progetto economico e politico dell’Unione europea. Ora, noi non sappiamo se la signora in questione abbia o non abbia la cittadinanza italiana; quel che sappiamo è che il suo modo di esprimersi è già di per sé una maniera scorretta di porsi come parte del popolo italiano. Chi è arrivato ieri in una casa antica di molti secoli, non può dire agli altri inquilini: Che vi piaccia o no, io adesso sono qui, perché questo è un parlare arrogante, un atteggiamento di sfida e di provocazione. Se l’ultimo arrivato ama davvero quella casa, se pensa di essere degno di divenire un suo nuovo inquilino, la prima cosa che deve fare è armarsi, non della cultura dei diritti, ma del senso di umiltà e del rispetto: umiltà perché è l’ultimo arrivato, e si trova a raccogliere ciò che altri hanno seminato; rispetto perché è arrivato in qualità di ospite, cioè è stato accolto per pura benevolenza e per pura generosità, quindi deve riconoscenza agli altri inquilini, come un figlio verso i suoi genitori: altro che dire loro: che vi piaccia o no, eccomi qui!

Nell’antica Atene, culla della democrazia, gli stranieri, i meteci, non avevano alcun diritto politico, neanche dopo dieci generazioni; erano stranieri e restavano tali, tollerati, non pienamente accettati, se non sul piano della loro attività economica e della relativa tutela legale. Ma la cittadinanza è un’altra cosa: è esercitare i pieni diritti e, quindi, partecipare alle decisioni sul futuro della patria. I democratici ateniesi, questo non lo concedevano se non a pochissimi meteci, sulla base di speciali meriti acquisti verso la polis. Nessuno spartano, o tebano, o corinzio, si sarebbe mai permesso di dire: Che vi piaccia o no, io sono ateniese!, sia che avesse, sia che non avesse la cittadinanza: lo avrebbero rispedito nella sua patria d’origine in quattro e quattr’otto. Si può ottenere la cittadinanza, ma non si può imporre il possesso della nazionalità, cioè la vera appartenenza ad un popolo, che è soprattutto un fatto interiore. Non è una cosa che ci si può dare da soli, sono gli altri che la danno, proprio come in una famiglia. Se uno straniero mostra di amare e rispettare l’Italia come la sua nuova e vera patria, allora gli italiani se ne accorgeranno, e, un poco alla volta, lo accetteranno come uno dei loro. Ma questo non può avvenire se si tratta di masse di milioni di persone, assolutamente refrattarie a integrarsi e, anzi, fermamente decise a colonizzare l’Italia, servendosi del numero dei propri figli per attuare una conquista incruenta. È come con l’amicizia: devono essere gli altri a riconoscere che tu sei un vero amico; non conta nulla che sia tu a proclamarti tale…

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

  1. Rogerusarthurus
    | Rispondi

    Bravo, bravissimo! Gli articoli del prof. Lamendola sono sempre illuminanti e nitidissimi. Grazie!

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