Cesare Pavese lo amiamo. E non come lo amerebbe l’Accio Benassi – il personaggio picaresco e autobiografico di Antonio Pennacchi – che per la voglia matta di stringere Francesca la bella milanesina di sinistra e per qualche disavventura avuta col Msi degli anni Sessanta, si ritrovò quasi d’improvviso da fascio ad anarchico, e a quei tempi faceva una bella differenza. No, noi Cesare Pavese lo amiamo da tempo perché sapevamo del suo destino e leggevamo le sue poesie (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi) e i suoi romanzi (La casa in collina). Magari facevamo tutto in “silenzio” (quello sì) raccontandolo a pochi, perché la sera o Tizio o Caio venivano a raccontaci altre “storie” e a cantarci certe canzoni del Ventennio, che con le Langhe e le suggestioni pavesiane non c’entravano proprio un bel nulla… Eppure le sue pagine, la sua sensibilità, i suoi interessi non avevano molto a che fare con la cultura marxista, con quella azionista o con tutta la vulgata realista e neo-illuminista…
Se Cesare Pavese fosse ancora vivo se, chissà, nell’estate del 1950 due mesi dopo aver vinto il premio Strega, non avesse deciso di troncare la sua ancor giovane vita rinchiuso nella stanza 313 dell’albergo “Roma” di Torino, ieri avrebbe compiuto cent’anni (Cesare era nato in un cascinale di Santo Stefano Belbo il 9 settembre del 1908 – un paese posto fra Cuneo e Asti ove tutt’ora si trova l’attivissima fondazione a lui dedicata – ma aveva vissuto sempre a Torino). La motivazione del gesto è segnata forse nella sua biografia, colma di pagine tristi, oppure nel rapporto tormentato con l’attrice americana Costance Bowling, l’ultimo di una serie di amori falliti e su promessa sposa, oppure, ancora nell’invincibile insoddisfazione del suo animo (nell’incapacità insomma di scoprire quale fosse il ruolo giusto).
Pavese è stato certamente uno degli scrittori e intellettuali italiani più noti del dopoguerra. Poeta del racconto (poeta anche quando non-verseggiava), uomo malinconico ma privo di grossolane nostalgie e sensibilissimo cantore di “ordinarie” passioni. Pur essendosi iscritto prima al Pnf (decisione che prese tuttavia malvolentieri) e poi, nel ’46 al Partito comunista (altra decisione presa senza vero entusiasmo), Cesare era un democraticonaturale, si direbbe con un linguaggio forse un po’ scientifico, ma soprattutto era un uomo pacifico, un uomo molto tormentato, introverso, solo nonostante gli amici, e in non facile rapporto con gli altri.
Aveva avuto però la fortuna di crescere in un periodo di cambiamenti epocali e in una terra, il Piemonte, che per vivacità culturale e ritmi del vissuto non era seconda a nessuno. Allievo al “D’Azeglio” di Torino del rigido Augusto Monti, crociano e gobettiano attorno al quale orbiteranno fra gli altri Massimo Mila e Leone Ginzburg, agli albori degli anni Trenta inizierà come poeta, poi come traduttore (fra gli altri tradurrà Dickens, Steinbeck e Joyce). Forse con un facile o ingenuo psicologismo si potrebbe dire che Cesare Pavese troverà nella letteratura lo strumento per comunicare con la restante parte del mondo (e forse avrà con le donne più un rapporto letterario che carnale). Ammesso però che la sua passione per la mitologia e gli archetipi prevedesse un facile rapporto con tutti gli altri esseri umani.
Era legato come pochi all’idioma e alla cultura di stampo anglosassone (nuovo e vecchio mondo). Per questo scriverà saggi su Sinclair Lewis, Mark Twain, Lee Masters, Dos Passos, Melville (del quale peraltro tradurrà Moby Dick). Si laureerà con una tesi su Walt Whitman. Lui arà anche l’insegnante di inglese nelle scuole e avrà una celebre allieva e amica che continuerà il suo impegno nel diffondere “una certa idea dell’America”: Fernanda Pivano.
Alla passione per l’America, che tuttavia come un vero “salgariano” conosceva davvero da lungi faceva da contrappunto l’amore per l’“antico”; è certamente noto il sentimento puro, profondissimo, quasi carnale, a tratti perfino simbolico, che legava Pavese alla propria terra (le Langhe). Lo scontro fra due miti verrebbe da dire, l’uno “moderno” nato negli anni Trenta e che – Pavese o non Pavese – attraverserà tutto il Novecento (un “secolo americano”), l’altro appunto “antico”, “classico”, quello del ritorno alle radici qualunque esse siano, il mito dell’eterno ragazzo che desidera tornare sui luoghi d’infanzia. In realtà mai dimenticati.
Pavese descriveva campagna, natura e sentimenti come stretti in un abbraccio indissolubile. I ricordi ma anche le ansie, le paure, le tristezze avevano per lui un colore ed un suono inconfondibili: erano natura anch’essi, come parte di uno smisurato se stesso. Ecco quel che aveva scritto nel suo ultimo romanzo, il più celebre, La luna e i falò, che peraltro aveva anticipato di quattro mesi il suo suicidio: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». La biografia pavesiana incrocia a più riprese la politica, anche se in realtà lo scrittore non nutriva per essa alcun interesse (non era un fascista, quello sì, ma le ideologie moderne non lo interessavano più di tanto). In anni di italici furori il rischio era quello di trovarsi coinvolti in vicende e intrighi d’ogni genere e tipo ma con un denominatore unico: ancora lei la politica. Una tappa importante della “carriera” pavesiana è rappresentata dunque dall’anno di terribile noia (1935) trascorso a Brancaleone Calabro ove era stato inviato per essersi trovato invischiato (in verità più sentimentalmente che politicamente), con quelli di Giustizia e libertà. Ma nel vissuto pavesiano maggior importanza assume certamente la collaborazione con la casa editrice Einaudi fin dagli anni Trenta. Nel dopoguerra proprio per la casa torinese, a dimostrazione della vastità dei suoi interessi fonderà una collana di religione, etnologia, psicologia e antropologia, che fra gli altri pubblicherà opere di Car Gustav Jung e Mircea Eliade.
Pur non avendo fatto la Resistenza (in realtà non fece la guerra tout court), nel dopoguerra in coincidenza con l’esplosione della sua attività di narratore e dei successi letterari, si iscriverà al Pci e diverrà collaboratore del quotidiano l’Unità. Una decisione difficile da interpretare, questa. Certamente non politica. Presa forse più per tacitare il proprio animo sensibile e “difendersi” dai sensi di colpa nati per aver visto morire molti amici-partigiani fra le mura delle case e nelle montagne del Piemonte. Presa forse perché la “chiesa comunista” era la prosecuzione (con altri mezzi e parole) di quella fascista alla quale, pur senza crederci Pavese si era avvicinato negli anni Trenta su consiglio della sua famiglia. Chissà… D’altronde, ne La casa in collina, eravamo nel 1947, annotava: «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placare, dare voce a questo sangue…». E forse non fu un caso che in quello stesso anno Cesare dovette battersi solitario – e invano – per la pubblicazione presso Einaudi del libro di Giose Rimanelli Tiro al piccione, uno dei primi romanzi autobiografici sui “ragazzi di Salò”.
Ed è difficile da interpretare, anche quello che Lorenzo Mondo per sottolineare una delle sue crisi, quella degli anni Quaranta, ha chiamato il suo «brivido religioso». Ma più di tutto è complicato spiegare a sé e agli altri certe pagine pavesiane non proprio tenere verso l’antifascismo e al contrario tutt’altro che dure verso la Germania durante la guerra. Peraltro al tempo Nietzsche ed Ernst Jünger (in particolare il suo trattato sull’“operaio”), non lo dispiacevano mica. Chissà dunque qual è il “vero” Cesare Pavese cent’anni dopo. Se di verità per un grande scrittore innamorato del mito e dell’irrazionale è giusto parlare.
* * *
Tratto dal Secolo d’Italia di mercoledì 10 settembre 2008.
Lascia un commento