Nausea dell’esistenza e bassezza morale nell’opera di un falso “grande” della letteratura: Carlo Emilio Gadda

Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973)

Tra i palloni gonfiati del Parnaso nazionale – peraltro in buona compagnia di scrittori già troppo celebrati, come Alberto Moravia – ce n’è uno, la cui bassezza morale nello sputare veleno contro chi non può più difendersi e il cui morboso compiacimento nel presentare la realtà come sozza, oscena, ripugnante, gli assicurano un posto di prim’ordine: Carlo Emilio Gadda.

E benché quella nausea verso tutto ciò che esiste sia il filo conduttore dell’intera sua opera, a cominciare dai pretesi “capolavori” come La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, tuttavia vogliamo qui soffermare la nostra attenzione su un libello vergognosamente vile, come Eros e Priapo, in cui, a tale nota di fondo, si aggiunge la bassezza morale di fare gli sberleffi più atroci alla memoria di un morto – Mussolini – il quale, se pure ebbe delle colpe, le aveva già pagate abbondantemente con la morte e con l’oltraggio indecente delle proprie spoglie mortali.

Il tutto in una sarabanda di invenzioni linguistiche che mandano in visibilio i critici letterari di bocca buona, quelli sempre pronti a battere le mani e gridare al genio ogni qual volta si trovano davanti a qualcosa di cervellotico e incomprensibile, evidentemente ignari della morale sottesa alla novella di Andersen Il vestito nuovo dell’imperatore, in cui solo un bambino (beata innocenza!) osa gridare ad alta voce quello che tutti vedono, ma nessuno ha il coraggio di dire: che il bellissimo vestito nuovo dell’imperatore, cioè, esiste solo nella servile adulazione dei suoi sarti e che l’augusto personaggio, pertanto, si pavoneggia tra la folla dei sudditi… in mutande.

La scrittura di Gadda è tutta pervasa, dal principio alla fine, da un acre sentimento di disgusto nei confronti dell’esistente, di schifo nei confronti della vita; da una aggressiva, delirante volontà di parodia, di mostruosa deformazione, di stravolgimento patologico degli altri («l’inferno sono gli altri», insegnava il cattivo maestro Sartre): in breve, da una indignazione moralistica e paranoica nei confronti del fenomeno “vita” in quanto tale, senza nulla risparmiare, neppure l’esibizione del proprio desiderio di uccidere la madre, come ne La cognizione del dolore, estremo, farneticante omaggio alla psicanalisi freudiana.

Per questo suo atteggiamento censorio e violentemente denigratorio nei confronti di tutto e di tutti, si sarebbe quasi, per un momento, tentati di accostarlo a Lucrezio, che, nel De Rerum Natura, si abbandona ad acri invettive nei confronti di quanti, pur ridotti a condurre un’esistenza miserabile, non hanno il coraggio di uccidersi, e tuttavia continuano a lamentarsi in maniera disgustosa, incapaci sia di vivere, sia di morire con dignità. Ma si tratta di una tentazione brevissima; perché basta leggere pochi versi di Lucrezio e confrontarli con qualche pagina di Gadda, per misurare tutta la distanza abissale che separa i due scrittori.

Lucrezio è un gigante: la potenza drammatica delle immagini che sa evocare non teme confronti con alcuno e può essere paragonata soltanto alle terzine più intense e drammatiche della Divina Commedia di Dante. Gadda, al contrario, è un botolo ringhioso, che si scaglia con feroce ma istrionica e repulsiva violenza contro l’umanità intera, solo perché non ha il coraggio di guardarsi dentro e riconoscere che tutta quella bruttura, di cui quasi – orribilmente – si compiace, non è all’esterno, ma dentro di lui.

Un altro accostamento che sorge spontaneo è quello fra Gadda ed Henry de Montherlant, specialmente il Montherlant di opere ferocemente nichiliste (e, direbbe Eco, fiammeggianti), come Il caos e la notte. Ma anche in questo caso, il paragone è tutto a sfavore del Nostro: perché il lettore percepisce chiaramente che la scrittura di Montherlant – così come, del resto, quella di Lucrezio – cela un segreto: ossia che dietro il conclamato disprezzo per gli uomini arde un amore nascosto e disperato; che l’odio per gli uomini non è altro che il rovescio di una passione delusa, di un amore impossibile.

Niente del genere nella scrittura di Gadda, che, al di là del continuo, fastidioso, narcisistico autocompiacimento per il proprio lussureggiante, incontenibile plurilinguismo, non ha nulla da nascondere se non l’odio e il disprezzo di sé, che tuttavia l’autore non osa riconoscere, preferendo la via più facile di rovesciare sugli altri, sul mondo intero, animali e oggetti compresi (il famoso “barocco” gaddiano) ogni sorta di bruttura e di immondizia, ogni possibile e immaginabile forma di denigrazione e di stravolgimento.

Solo così si può spiegare la folle, vilissima foga demolitrice con la quale si scaglia, in Eros e Priapo, contro la memoria di un morto: uno in cui milioni di Italiani avevano creduto, compreso lo stesso Gadda, che aveva aderito al fascismo fin dal 1922, salvo poi pentirsene ma tenere celato per tutto il Ventennio, con il cuore colmo di rabbia, il proprio odio nei confronti di Mussolini e del regime, per lasciarlo poi esplodere solo molto dopo la fine della seconda guerra mondiale (il libello sarà pubblicato, infatti, nel 1967).

Evidentemente, Gadda non aveva saputo ben meditare quei versi de Il cinque maggio di Manzoni (13-20), in cui si ricorda come tanto l’adulare i potenti, quanto l’inveire contro di essi, allorché sono caduti nella polvere, non sono cose che si addicano ad una Musa cosciente di sé e del rispetto dovuto a se stessa:

«Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio…»

Appunto: di codardo oltraggio.

Per dare al lettore un’idea di quali bassezze raggiunga questo libello, il quale vorrebbe abbagliare con la pirotecnica messinscena linguistica, che sfiora il funambolismo più istrionico ma che è solo il roboante contenitore di una acredine e di un astio velenosamente trattenuti per vent’anni e poi, malignamente, spruzzati sulla memoria di un estinto, ne riportiamo alcune righe sufficientemente rappresentative (da: Eros e Priapo, Milano, Garzanti, 1967):

«Questo qui, Madonna bona!, non aveva neanche finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze che son qua mè, son qua mè, a fò tutt mè, a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti, e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale, e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano da Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga, di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino.
Pervenne, pervenne.
Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi de commendatore e del’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma vividamente invidiato borghese. On que’ du’ trappoloni di banane delle du’ mani, che gli dependevano a’ fianchi, rattenute da du’ braccini corti corti: le quali non ebbono mai conosciuto lavoro e gli stavano attaccate a’ bracci come le fussono morte e di pezza, e senza aver che fare davanti ‘l fotografo: i ditoni dieci d’un sudanese inguantato. Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiero di quadrate legioni in precipitosa ritirata…»

Potremmo continuare a lungo, ma crediamo che basti: proviamo vergogna a proseguire, quella vergogna che non ha provato Gadda a scrivere.

I suoi giochi di parole, come quel “pervenne” che vuol fare confusione fonetica con il vocabolo francese “parvenu”, mostra solo la puzza sotto il naso che Gadda, figlio di ricchi borghesi bruscamente impoveritisi (e quindi divenuto piccolo borghese frustrato, come era toccato a Pirandello e tanti altri, specie nel primo dopoguerra) nutre nei confronti del popolano Mussolini; e non è un sentimento che gli faccia onore.

La stessa cosa vale per la parodia della parlata romagnola del Duce, che rivela solo la schifiltosità di un intellettuale che, evidentemente, si ritiene in diritto di prendere in giro i “provinciali” di modesta estrazione sociale, un po’ nella tradizione di Lorenzo de’ Medici che, nella Nencia da Barberino, fa una spietata parodia del contadino Vallera: pessimo esempio di quella eterna arroganza del cittadino colto nei confronti del “villano” privo d’istruzione (ma non di cultura, e sia pure da autodidatta, nel caso di Mussolini).

Quando, poi, si entra nel merito del giudizio storico, la faziosità di Gadda assume proporzioni addirittura grottesche, come quando definisce Mussolini un parolaio da raduno che sa esprimersi solo per frasi fatte, traendole da un bagaglio culturale misero e scipito.

Al contrario, non vi è studioso serio, di qualsiasi tendenza e convinzione, che non abbia riconosciuto la grandezza di Mussolini come giornalista e come oratore; il che, naturalmente, non significa in alcun modo – ci mancherebbe altro! – che si debbano condividere i concetti da lui espressi nei suoi articoli e nei suoi discorsi.

Per quanto, poi, attiene al giudizio politico, l’accusa di spergiuro è veramente la più squallida e insulsa che si possa rivolgere a Mussolini, se si possiede un minimo di onestà intellettuale: perché, senza voler negare che il fascismo abbia finito per caratterizzarsi come un movimento di estrema destra (al cui interno, peraltro, sopravvissero anche elementi tipicamente di sinistra e, comunque, rivoluzionari e antiborghesi), non si può negare che il distacco di Mussolini dal Partito Socialista sia avvenuto in modo coerente e lineare, in quel periodo di tempo – il 1914 e lo scoppio della prima guerra mondiale – che vide perfino anarchici come Piotr Kropotkin e non pochi socialisti, come Leandro Arpinati, per non parlare di sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, divenire accesi interventisti.

Ma tant’è: la moda di buttare fango sulla memoria di Mussolini, presentandolo come un voltagabbana e un traditore dei compagni socialisti, è ampiamente radicata nella cultura politica italiana della Vulgata democratica; dimenticando, oltretutto, che fu il Partito Socialista ad espellere il brillante direttore de L’Avanti! (che, sia detto per inciso, aveva fatto quadruplicare le vendite del giornale in pochi anni) e non quest’ultimo a volersene andare…

Forse la sinistra “ortodossa” italiana, socialista e comunista, aveva la coda di paglia troppo lunga per riuscire ad ammettere che Mussolini era sempre stato un uomo di sinistra che, a un certo punto, entrò in conflitto con il proprio partito non già per meschino calcolo personale o per farsi strumento repressivo degli agrari e dei conservatori, ma perché aveva misurato tutta l’abissale inconcludenza e tutto il pietoso velleitarismo dei suoi compagni, che nulla avevano imparato né dall’esperienza della guerra 1915-18, né dal “biennio rosso” e dal clamoroso fallimento dell’occupazione delle fabbriche…

Infine, insinuare che le braccia di Mussolini non abbiano mai conosciuto la fatica del lavoro è un falso storico. Mussolini, figlio di un fabbro e di una maestra elementare, non solo conobbe l’umile fatica del lavoro manuale, ma anche la povertà e le mortificazioni della vita da emigrante. E, come è noto, fece il servizio militare in fanteria e si guadagnò sul campo i gradi di caporale dei bersaglieri; mentre Gadda, il ricco borghese, aveva fatto l’ufficiale in un esercito – quello italiano – che era uno dei più classisti al mondo: dove tutto, dalla mensa alle comodità personali, sottolineava il divario immenso esistente tra gli ufficiali di estrazione borghese e i soldati semplici, figli di contadini e di operai.

Che cosa ci sarà, dunque, dietro tanta acredine, dietro tanto odio, dietro una così irrefrenabile fiumana di veleno?

Difficile sottrarsi alla netta impressione che ci siano molto odio e molto disprezzo verso se stesso, ma senza l’onestà intellettuale di riconoscerlo e cercando, invece, un bersaglio esterno – un uomo amato in gioventù, e ormai morto e sepolto da oltre vent’anni – sul quale rovesciare tutta la propria frustrazione e tutta la propria rabbia di ricco borghese socialmente declassato, di scrittore presuntuoso e misantropo; tutta la deformità della propria anima brutta, come ben sapevano i suoi ammiratori i quali, ingenuamente, lo avvicinavano, per venire subito raggelati dalla inverosimile maleducazione di quel borioso e falso “grande” della letteratura italiana.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

5 Responses

  1. gianfranco
    | Rispondi

    sostanzialmente d'accordo sul giudizio astioso, invidioso, e ingiusto contro Mussolini-

    gianfranco mortoni

  2. giorgio vicentini
    | Rispondi

    Non conosco Gadda e le sue opere. Concordo sulla codardia di prendersela con un morto ma anche Gadda è morto. La vostra "recensione" mi sembra dello stesso stampo di quella di Gadda. Giorgio Vicentini

  3. enrico
    | Rispondi

    l'estensore di questa "recensione" ha letto poco di Gadda e quel poco non l'ha capito per nulla.

  4. Francesco
    | Rispondi

    Quest'articolo è ridicolo, anzi assolutamente divertente. Con piacere vedo che Gadda riesce nella mirabile impresa di turbare i palloni gonfiati anche a distanza di decenni

  5. Giuseppe
    | Rispondi

    Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. E si permette di giudicare Carlo Emilio Gadda.

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