Brevissime note sulla memoria dell’origine

La questione su come si possa dare memoria dell’origine sarà qui appena delineata. Non farò pertanto riferimento, sulla scorta di Heidegger, alla crisi irreparabile dell’origine, alla radicalità del suo oblio, ossia al suo velamento, che però proprio in quanto tale permette uno s-velamento, cioè una sempre possibile nuova rammemorazione dell’origine stessa. Né tanto meno prenderò in considerazione l’eventualità che dell’origine non si dia più memoria alcuna, possibilità comunque inscritta nella ‘natura’ dell’origine, non essendo quest’ultima mai saldissimamente fondata. Possibilità, a sua volta, da intendere, in maniera assai schematica, almeno in un duplice senso: che si realizza passando in atto, e quindi divenendo impossibile perché appunto attuatasi[1], o che resta tale, confermando come il possibile sia un di più rispetto alla realtà, contro Kant che pretendeva essere il possibile nient’altro che la realtà meno il fatto di esistere concretamente[2].

Parto invece da due riflessioni, solo apparentemente eccentriche, rispettivamente di Elias Canetti e Furio Jesi. Scrive il primo: “troppo poco si è riflettuto su ciò che, dei morti, resta davvero vivo […]. Gli amici di un uomo che è morto parlano di lui. Ne incrementano la morte, se del morto non dicono altro che bene […]. Finché su di lui c’è ancora qualcosa di sorprendente da dire, il morto si trasforma e non è morto. La pietà, che cerca di conservarlo dentro l’ambra, non è affatto segno di amicizia. […] Vuole soltanto mantenerlo inoffensivo da qualche parte, come dentro la bara e sottoterra”[3].

Vale a dire: l’origine non è salvata da una memoria che la cristallizza, trasformandola in una sorta di reperto museale. Anzi, così l’origine è perduta, finendo con l’essere nient’altro che una stanca, nostalgica, sterile ripetizione di una vuota uniformità. E men che meno salva l’origine una memoria che la idealizza, che ne parla solo bene. Tutt’al contrario, l’origine non è affatto una ‘età dell’oro’, circonfusa di luce, quasi come se la si piegasse a una specie di narrazione teologica (catafatica o apofatica), non avendo in realtà nulla a che fare né con il fiat lux, né con una qualsiasi versione della ‘caligine divina’. L’origine è, molto più modestamente, un che di torbido e di oscuro, nel senso di un mondo che si è appena aperto, le cui sorti sono ‘appese’ allo ‘spacco’ della libertà da cui proviene. Per cui, di una simile origine, più autentica sarebbe una memoria che sorprende, metamorfica, non rassegnata all’univocità, all’asfittica reiterazione del già-detto. È così che l’origine non è davvero obliterata, restando in attesa di un suo possibile nuovo inizio.

Scrive il secondo: “del passato ciò che veramente importa è ciò che non si ricorda. Il resto, ciò che la memoria conserva o ritrova, è sedimento soltanto. Una parte del tempo trascorso è entrata veramente a far parte, come un alimento digerito, dell’organismo vivente; continua ad essere passato, ma è l’unico vero passato vivo e vive nel cervello e nel sangue, ignorato dalla memoria […]. Se in un tempo trascorso un volto ha suscitato autentico amore o autentico odio, o rispetto, o disprezzo, il ricordo dei lineamenti di quel volto potrà restare o ritornare nitido e preciso nella memoria, ma sarà passato – nel senso di passato morto e imprigionante -; mentre la genuina esperienza dell’amore o dell’odio non sarà ricordabile […] e durerà viva”[4].

Con radicalità estrema, Jesi indica una strada ancor più impervia e difficile. In sintesi: è proprio la memoria a imprigionare, a tradire ciò che pure vorrebbe preservare. È invece l’assenza di memoria, il venir meno di quest’ultima, a mantenere viva l’origine. Di cui non serve ricordare il ‘volto’, quanto piuttosto l’esperienza, tanto più confusa e indeterminata, di un qualcosa che è accaduto ‘alle nostre spalle’, di una provenienza che mai sarà ripetibile così come si è manifestata, ma che resta vivente proprio quando pare sfuggirci, perché ci siamo sottratti alla malia ‘medusea’ del passato, alla sua gabbia asfissiante. Come chi non resta attaccato all’amore scomparso, e proprio per questo conserva la possibilità di amare ancora, e soprattutto conserva l’esperienza, essenziale, purissima e immemoriale, dell’aver comunque amato, senza rimanere schiavo di ciò che è irrimediabilmente passato, alla stessa stregua l’origine vive, o potrà tornare a vivere, solo nel non-attaccamento alla sua memoria.

Note

[1] L’atto infatti realizza la possibilità proprio nel momento in cui la revoca, sancendone in tal modo l’impossibilità.

[2] Si veda R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1982, p. 12.

[3] E. Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, Milano 2017, pp. 19-20.

[4] F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 69.

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