Ares, il dio in esilio

“Polemos è di tutte le cose padre,

di tutte re,

e gli uni rivela dei e gli altri uomini,

gli uni fa schiavi e gli altri liberi”.

Eraclito

aresLa guerra sostiene l’intera trama dell’universo, nulla esula dal suo mandato e chi volesse ridurla a una questione meramente umana, è dimentico delle piante, degli insetti, della terra, del cielo.

L’inimicizia tra le parti è giogo perenne, architrave di un’opera votata al conseguimento della quiete; questo ovunque: nel grumo di sangue che raccoglie nel suo fiotto l’armata ostile di un virus o nel convivio della specie che si apre alla salvezza brandendo corni levigati, artigli, zanne, veleni.

Ma i figli di quest’epoca barbara, han fatto dell’egualitarismo e del pacifismo il vessillo di una barca che ormeggia mansueta sul tiepido porto della cecità illuminista, intimoriti forse, da quel dio baldanzoso, collerico, trascinante.

Ares il bellicoso, l’eredità incauta della stirpe guerriera dei Traci, a Lui gli Spartani consacrarono città e gesta ed i Romani, figli di Marte, onorarono il nume con sorgenti d’acqua, festività, offerte. Quel vivido sentire, che riconobbe nell’impeto brutale l’altezza statuaria dell’imperituro, è sepolto ormai sotto la mollezza della stirpe prudente e, svincolato dal suo status primevo di potenza numinosa e salvifica, Ares erra vagabondo sul lido sommerso del subconscio.

Nel paesaggio remoto del mito, sovente gli dèi caduti si vendicano del torto subito. Come nell’inno omerico a Dioniso, rapito sulla riva di un mare fecondo. Egli trasformatosi in leone costrinse i predoni terrorizzati a gettarsi giù dalla nave ma ebbe pietà del timoniere, il solo a riconoscere in lui il crisma d’elevazione. La cacciata di Ares è un non riconoscere, il rimprovero ad un dio che è in verità l’apologeta della concordia, procreatore di Armonia. Se infatti è imprescindibile il conflitto, Ares è colui che lo risolve, l’impeto inamovibile che ci costringe al palesamento della disarmonia; grazie al suo slancio furente, rimescolati gli equilibri, sorge nella quiete magra del crepuscolo Armonia.

L’opposizione tra i contrari è, come sostiene Eraclito, consustanziale all’esistenza, è dunque mostruosamente utopistico ambire ad una pace perpetua, che si rivela come l’acquitrino stagnante su cui si arena la volontà di esistere, di divenire.

Ad aprire lo scenario della guerra di Troia, nel poema omerico, è la contesa tra Agamennone e il pelìde Achille. Un conflitto nel conflitto, a svelare fin da subito, come Ares si coniughi tanto nel macrocosmo di una battaglia, quanto nel microcosmo di un’alleanza, essendo ogni cosa pervasa dal suo zelo.

Persino il concepimento è macchiato dal fuoco della disputa: nell’alta ebbrezza della comunione tra innamorati, si irradia la potenza dell’incontro tra due deità profondamente dissimili eppur simili: Ares ed Afrodite. L’uno figlio della terra, caecus et insanus, l’altra nata dai genitali di Urano stellato, dea dell’amore e della bellezza. Dall’incontro tra la terra ed il cielo, tra la concretezza della carne e l’alito vago dello spirito, prende vita l’aurea trinità di: Δείμος Φόβος ed ρως.

Terrore, spavento e amore, sorreggono l’impalcatura dell’amplesso: la guerra si compie nell’imperativo istinto di sopravvivenza. Afrodite si concede ad Ares, poiché ama gli indomiti istinti: anch’essa travolge, la sua bellezza è brutale quanto un genocidio; eloquenti sono i suoi epiteti: νδροφόνος “sterminatrice di uomini”, ̉Επιτυμβία “colei che sta sulle tombe”.

Non ci si illuda di poter scacciare una potenza la cui esistenza prescinde dall’uomo, essa continua il suo magistero frammentando lo stato nel suo interno, generando invidie e animosità, liberando feroci slanci sugli spalti degli stadi che, pur sublimando con il loro schema di gioco la dimensione di una battaglia, non bastano a paralizzare un impulso che è volontà attiva e non passiva.

L’educazione marziale, per i nostri avi essenza stessa del vivere, sfugge dai nostri fiacchi orizzonti, tramonta con essa la fortezza di uno spirito temprato nella privazione, nel rigore. La battaglia come rappresentazione tangibile della milizia spirituale, coordinatrice di una condotta eroica, austera, disciplinata. Addestrarsi ad una fine consapevole, lucida, oggi che per lo più ci si augura di morire nel sonno è sfida titanica. E’ l’assenza di eroismo a far imbrunire i giorni, le nostre brame si acquetano smagrite sul volto di un miraggio, invero custodiamo piccoli sogni: la notorietà come paradigma di una società astenica, puerile, china nella ricerca compulsiva di un appagamento vilmente egotista, gravida di capitali, carnalità scialbe, ribellioni vane. Trasale il pathos della distanza, genitrice di un’indole aristocratica subordinata all’ordine gerarchico che richiama a sé cielo e terra. Come la cima di altissimi monti, sola nella sua levatura, lo spirito aulico rifugge le regioni miti del volgo, migra sugli altipiani nevosi dell’integrità massima per incoronarsi giudice e vendicatore di sé. Albeggia, nell’itinerario spoglio, il suggello di una bella morte, ad ergersi muta come la polvere delle zolle estive. Lontani da questo vivere coviamo in seno il culto del lamento, sospingendoci inermi all’urto terribile del trapasso.

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2 Responses

  1. sinwan
    | Rispondi

    OTTIMO!!!!! DAVVERO!!!!! INECCEPIBILE!!!!! OLTREMODO METHODO: VIBRANTE !!!!!

    UN ENERGICO VALE!!!!! Q.Decio Arrio- sinwan

  2. Marcel
    | Rispondi

    Mi lasci senza parole…unica.

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