Apocalisse catodica

“Per ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì.

Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo.

Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa…”

All’inizio degli Anni Cinquanta Ray Bradbury era già un autore noto ed apprezzato, benché appena trentenne (essendo nato nel 1920). Aveva infatti esordito nel 1941 su una rivista popolare di fantascienza, Super Science Stories, e l’anno dopo era apparso per la prima volta sulle pagine di Weird Tales, il mensile di storie bizzarre, fantastiche e macabre, che aveva avuto fra le sue colonne negli Anni Trenta nomi come H.P.Lovecraft e Robert Howard, per quale il ventiduenne Bradbury iniziò a scrivere alcune delle sue storie migliori. Era l’epoca di quelli che comunemente si definiscono i pulp magazines, le riviste “di genere” stampate su carta povera, il cui contenuto era però spesso originale. E su quelle testate Bradbury iniziò a pubblicare la serie di racconti che poi nel 1950 collegò e coordinò con il titolo complessivo di Martian Chronicles, un’opera che ottenne uno straordinario successo in quanto faceva vedere la colonizzazione del pianeta Marte da un punto di vista insolito per la fantascienza dell’epoca, più umano, romantico e favolistico, non esente da critiche nei confronti della iper-tecnologizzazione e della discriminazione culturale.

Ma l’inizio degli Anni Cinquanta vide per gli Stati Uniti il prodursi di due avvenimenti laceranti in politica internazionale e in politica interna: la guerra di Corea, con l’invasione nel maggio 1950 del sud della penisola inizialmente da parte dei nordcoreani e poi dei soldati cinesi che superarono il confine del 38° parallelo, e quindi l’intervento militare dell’ONU ed americano in difesa del governo di Seul (nel dicembre 1950, inoltre, la Cina invaderà il Tibet, un paese libero e indipendente, ma definito da Mao “una regione da riunire alla madrepatria”); la designazione nel febbraio 1950 a capo di una speciale Commissione, creata già nel 1938 da Roosevelt per indagare e reprimere le “attività antiamericane”, del senatore repubblicano Joseph McCarthy: in sostanza un’indagine, e relativa repressione, nei confronti di tutti coloro i quali venivano ritenuti comunisti e filo-URSS, soprattutto nel mondo della cultura, del cinema e della pubblica amministrazione, così come alla vigilia della seconda guerra mondiale e durante il suo svolgimento aveva indagato sui filo-nazisti ed i filo-fascisti portando in tribunale, che li condannò a vari anni di carcere, diversi cittadini americani di origine tedesca o italiana ritenuti spie e sabotatori.

Gli USA, che pur avevano vinto quell’immane conflitto alleati con l’Unione Sovietica, avevano però poi anche, tra il 1946 e il 1949, visto cadere una ad una in mano a regimi marxisti tutte le repubbliche dell’Europa dell’Est: era iniziata la cosiddetta “guerra fredda”, il cui culmine di tensione si era verificato con il blocco sovietico di Berlino nel giugno 1948: sconfitto il nazismo, il nuovo nemico era adesso l’ex alleato comunista. All’orizzonte, forse, una terza guerra mondiale per l’egemonia planetaria, di certo ancor più devastante della precedente dopo che l’URSS aveva dimostrato di essere in possesso della bomba atomica (1949), talché il presidente Truman nel gennaio 1950 disponeva che venisse studiata la bomba all’idrogeno, la cui prima esplosione avverrà nel novembre 1952. Su queste basi non ci si deve meravigliare che tra i politici americani, ma anche in parecchi strati della popolazione, sorgesse in quel periodo la paura che all’interno degli Stati Uniti prendesse vita una “quinta colonna” comunista, soprattutto in alcuni ambienti intellettuali teoricamente più sensibili ad un allettamento politico-ideologico pseudosociale e pseudopacifista, cosa che già negli Anni Trenta, all’epoca della guerra di Spagna, si era verificato.

Lo scoppio della guerra di Corea, provocata dai comunisti del Nord, a pochi mesi dall’insediamento di McCarthy a presidente della Commissione senatoriale di indagine sulle attività antiamericane, costituì l’elemento di congiunzione fra i due avvenimenti internazionali e interni esattamente negli anni in cui Bradbury scrisse e pubblicò, in due momenti, il romanzo di cui qui ci occupiamo. Entrambi gli eventi si protrassero lungo tre anni, sino al 1953 (a luglio venne firmato l’armistizio in Corea) e al 1954 (quando McCarthy fu rimosso dalla presidenza della Commissione con una mozione di sfiducia).

Per quasi cinquant’anni il “maccarthismo” è stato sinonimo di oscurantismo culturale, di “caccia alle streghe”, di ossessiva e patologica paura del comunismo e, in senso lato, del “diverso” completamente immotivata, di clima di delazione, di condanna d’innocenti e così via. Come ogni “inquisizione” che si rispetti senza dubbio la Commissione presieduta dal senatore repubblicano commise eccessi e abusi e forse perseguitò degli innocenti, ma oggi conclusa la “guerra fredda”, apertisi gli archivi di Mosca e quelli del KGB in particolare, emersi, pubblicati e studiati documenti sinora segretissimi, si delinea un panorama della politica occulta delle grandi potenze, della guerra sotterranea internazionale, dagli Anni Cinquanta agli Anni Ottanta, ben diverso da quello che la vulgata dei giornaliisti e degli intellettuali ci aveva voluto dare per definitivamente stabilito ed immutabile. Infatti, è stato pubblicato alla fine del 1999 negli Stati Uniti un libro, McCarthy: Re-examing the Life and Legacy of America’s Most Hated Senator, in cui Arthur Herman, uno storico della George Mason University, in fondo riabilita “il senatore più odiato d’America”: l’opera “revisionista” cade peraltro in una situazione in cui sono ormai dati accertati, anche se poco divulgati, il fatto che la rete spionistica sovietica in USA era assai più capillare di quanto si potesse pensare in passato, che il Partito Comunista degli Stati Uniti (CPUSA) era uno strumento reale del KGB, che Julius Rosemberg (finito con la moglie sulla sedia elettrica il 19 giugno 1953 fra le proteste generali) era senza alcun dubbio una spia sovietica, e che tale era anche il fisico nucleare Robert Oppenheimer, capo del Progetto Manhattan, considerato sino ad oggi sempre ingiustamente perseguitato. La pubblicazione in USA del cosiddetto Rapporto Venona (lo studio che raccoglie i messaggi cifrati fra l’Unione Sovietica e i suoi agenti negli Stati Uniti durante e dopo la seconda guerra mondiale) e dei documenti usciti dalla Lubjanka, la sede del KGB, dopo il 1989, ha convinto di queste realtà sinora ignorate o nascoste anche storici americani di sinistra, sia la Old Left, sia la New Left, come recapitola Augusto Minzolini in una corrispondenza da New York (Maccartismo: il diavolo aveva ragione, in La Stampa, 15 dicembre 1999, p.23).

È dunque in questo particolare clima di sospetti e di paure, protrattosi per tutti gli Anni Cinquanta, che escono libri e film che lo rispecchiano da diversi ed opposti punti di vista, di allarme e di denuncia, pro e contro, quindi non soltanto contro come spesso si tende a far credere. La paura e la messa in guardia nei confronti dell’infiltrazione inavvertita di una cultura aliena e nemica che potrebbe portare al condizionamento della popolazione, è ad esempio evidente in un famoso romanzo di fantascienza come The Puppet Masters (“I burattinai”, noto in Italia come Il terrore dalla sesta luna) di Robert Heinlein, pubblicato a puntate sul mensile Galaxy nel settembre-novembre 1951 e in volume subito dopo in quello stesso anno, e nell’altrettanto famoso The Body Snatchers (“I ladri di corpi”, in italiano Gli invasati) di Jack Finney, apparso anch’esso a puntate, ma su un settimanale non di fantascienza, il Collier’s, nel dicembre 1954, ed in volume l’anno dopo: il tema dello spossessamento della mente (come nell’opera di Heinlein) e addirittura del proprio corpo, con quelli che poi si sarebbero chiamati cloni, come nel romanzo di Finney, ad opera di un potere straniero e invisibile, era così sentito che all’epoca anche riviste non fantascientifiche gli concedevano spazio, ed un regista già famoso come Don Siegel realizzava nel 1956 un film dallo stesso titolo da quest’ultimo romanzo, appunto The Body Snatchers, entrato nei “classici” del genere e che in Italia prese il titolo ancor oggi popolare de L’invasione degli ultracorpi. Libri e film che la critica fantascientifica “impegnata” aveva posto all’ndicee e che ogggi invece proprio per questo bisogna rivalutare con una più giusta e contestuale “lettura”.

Ed è proprio su Galaxy, la testata di science fiction uscita appena da un anno e già affermatasi per il modo nuovo di affrontare l’argomento, che Ray Bradbury pubblica, nel febbraio 1951, un romanzo breve intitolato The Fireman, “Il pompiere”; sei mesi dopo apparirà il citato romanzo di Heinlein: una testata che ha fama di essere “progressista” non ha alcuna remora a dare spazio ad autori tanto diversi fra loro che affrontano entrambi, secondo le loro idee, una problematica che all’epoca era dunque assai sentita. Una bella lezionzina di democrazia per i nostri curatori fantascientifici “militanti”. Bradbury amplierà due anni dopo il suo romanzo breve in volume con il titolo, poi divenuto famosissimo, soprattutto dopo il pur non eccezionale film del 1966 di François Truffaut, di Fahrenheit 451, e che poi è la temperatura alla quale si produce l’autocombustione della carta secondo la scala ancor oggi in uso nei Paesi anglosassoni al posto della gradazione Celsius, e che corrisponde a 221,5 °C. Clima che si respira ad ogni riga della sua opera: è la società che potrà svilupparsi da certi presupposti quella condannata da Bradbury, presupposti che lo scrittore vedeva nascere ormai dappertutto. Disse infatti in una intervista del 1966, tradotta in italiano sul mensile Gamma del mese di maggio, che la sua denuncia era rivolta “a qualsiasi forma di tirannia nel mondo, fosse essa di destra, di sinistra o di centro, in qualsiasi epoca”. Se, dunque, il romanzo aveva tratto lo spunto dalla cosiddetta “caccia alle streghe” nei confronti degli intellettuali progressisti americani (filocomunisti o meno che fossero) da parte della Commissione McCarthy, l’obiettivo della critica di Bradbury è più ampio, come ha di nuovo ricordato, cinquant’anni dopo, lo stesso scrittore: “Fahrenheit 451 raccontava esattamente questo, lo straordinario potere della letteratura. Quando fu pubblicato in Unione Sovietica non capirono che parlava anche di loro e nel mio piccolo credo di aver dato un piccolo contributo a far cambiare idea ai russi” (Bradbury: sono diventato un mostro di attivismo, in La Repubblica, 20 agosto 2001, p. 29).

Fahrenheit 451Fahrenheit 451 è un romanzo che descrive non il migliore dei mondi possibili, come è una utopia, ma il peggiore dei mondi possibili, naturalmente dal punto di vista del suo autore: un romanzo di accorata denuncia, di (possiamo dire oggi, a 50 anni di distanza) terribile anticipazione e purtroppo inutile messa in guardia. Si tratta, allora, di una antiutopia o distopia (il termine di “utopia negativa” spesso usato, è improprio e inesatto) il cui nucleo critico è non la scienza, non la politica, non il controllo sociale, non la repressione sessuale come in altri grandi classici (Il mondo nuovo, 1984, Noi, ecc.), bensì la cultura: Ray Bradbury, da inguaribile umanista e romantico, da uomo della provincia, lancia l’allarme nei confronti di una società prossima ventura in cui la cultura non viene del tutto abolita, ma si trasforma, si livella verso il basso, si massifica abnormemente e viene accettata soltanto se diffusa attraverso i media visivi, in pratica la TV. Pericolo i cui germi erano presenti già nella società americana all’inizio degli Anni Cinquanta e che oggi, all’inizio del nuovo secolo/millennio, essendo questi giunti a completa fioritura, incombe sempre più, grazie anche ai progressi proprio di quei mass media visivi che stanno avendo il sopravvento sui classici strumenti di comunicazione cartacea, come purtroppo dimostrano recentissime statistiche (maggio 1999): basti ricordare che durante il 1998 il 65 per cento degli italiani non ha preso in mano nemmeno un libro, mentre circa il 50 per cento della popolazione adulta (dai 14 anni in su) non ne legge mai uno, sicché il nostro Paese è l’ultimo in Europa come spesa pro-capite per l’acquisto di libri; inoltre negli Stati Uniti, benché questa spesa sia di 96 dollari a persona rispetto ai nostri 39, sempre nel 1998 si è verificato un calo del 20 per cento nel consumo dei libri fra i giovani al di sotto dei venticinque anni, giovani che frequentano sempre meno le librerie. Tutto ciò a vantaggio del commercio elettronico? Purtroppo no: nonostante un incremento della vendita telematica dei libri, un’indagine della Book Industry Study Group rivela che le loro vendite nel complesso sono calate del 3 per cento. Diminuisce dunque la predisposizione attiva di scegliere, comprare e leggere i volumi cartacei; aumenta la predisposizione passiva di assistere ai programmi televisivi 24 ore su 24, oppure si viene travolti dalla cosiddetta “sindrome di Internet”, in cui la capacità di scelta del singolo si ottunde e diviene quasi una monomania a causa delle caratteristiche stesse del medium telematico/visivo.

Il passaggio dalla cultura scritta a quella visiva è riassunto da Bradbury nel 1953 con intuizione profetica, considerando anche che vien posta intorno alla fine del XX secolo (lo si deduce da questa frase:“Il nonno mi mostrò alcuni film ripresi dai razzi V-2 una volta, saranno cinquant’anni almeno”): i libri sono sempre più sbrigativi, i classici vengono riassunti, le grandi opere iper-condensate, la stampa popolare contribuisce con la sua titolazione sintetica e onomatopeica, e poi “la durata degli studi si fa sempre più breve, la disciplina si allenta, filosofia, storia, filologia abbandonate, lingua e ortografia sempre più neglette, fino ad essere quasi del tutto ignorate”. Scompaiono le opere di spessore e difficili, resta solo tutto quel che è facile, semplice, divertente.

Fahrenheit 451-Diario di Fahrenheit 451Inoltre, con la spiegazione che della evoluzione della società (americana) dà a Montag, il protagonista di Fahrenheit 451, Beatty, il suo superiore nel corpo dei vigili del fuoco, Bradbury annunciava già mezzo secolo fa l’ipocrisia della politically correctness: lui, difensore di tutte le minoranze, trova il germe dell’errore culturale nel dar sempre e comunque ragione a tutte queste minoranze, dato che lo scopo dello Stato è quello di procurare la maggiore felicità possibile e di eliminare tutto quel che provoca dispiacere e dolore: “Più numerosa la popolazione, maggiori le minoranze. Non pestate i piedi ai cinofili, ai maniaci dei gatti, ai medici, agli avvocati, ai mercanti, ai pezzi grossi, mormoni, battisti, unitarii, cinesi della seconda generazione, oriundi svedesi, italiani, tedeschi, nativi del Texas, brooklyniani, irlandesi, oriundi dell’Oregon, o del Messico (…) Tutte le minoranze, fino alle infime, vanno tenute bene, col loro bagnetto ogni mattina”. E poi: “La gente di colore non ama Little Black Sambo. Diamolo alle fiamme. Qualcuno ha scritto un libro sul tabacco e il cancro dei polmoni? I fabbricanti e fumatori di sigarette piangono? Alle fiamme il libro! Serenità, Montag, Pace. Montag (…) I funerali sono dolorosi e pagani? Annulliamo anche i riti funebri”. E ancora: “Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno vien fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro; dopo di che tutti sono felici”. Conclusione: come si è giunti alla situazione che Montag vive sulla sua pelle? “Non è stato il Governo a decidere; non ci sono stati in origine editti, manifesti, censure, no! ma la tecnologia, lo sfruttamento delle masse e la pressione delle minoranze hanno raggiunto lo scopo, grazie a Dio! Oggi, grazie a loro, tu puoi vivere sereno e contento per ventiquattr’ore al giorno”.

Sembra di vivere ai nostri giorni quando, soprattutto nei Paesi di lingua inglese, l’ossessivo timore di “offendere” una qualsivoglia minoranza condiziona il vivere civile e addirittura i vocabolari e i dizionari. Ray Bradbury aveva dunque ragione a temere i pericoli di una società che vedeva nella cultura umanistica e nelle opere di narrativa, poesia, filosofia, teatro, storia e scienze umane in genere dei nemici. Singolare, ma significativa la spiegazione di questa ostilità: i libri (e quindi gli autori che li hanno scritti, la cultura che li ha prodotti) sono in contraddizione l’uno con l’altro, quindi non dicono la verità e provocano nel lettore angoscia e frustrazione: i libri rendono infelici. Essi, spiega Beatty, “parlano di persone che non esistono, frutto dell’immaginazione, quando si tratti di narrativa. E quando non si tratti di narrativa, sono cose ancora peggiori, diatribe tra professori che si danno reciprocamente dell’idiota, urla di filosofi alla gola l’uno dell’altro”.

L’esatto contrario della televisione, che nel mondo immaginato da Bradbury è diventata onnicomprensiva ed invadente, proprio come oggi: è quella che ora si definirebbe una TV interattiva, che cioè interagisce con lo spettatore il quale può essere chiamato in causa addirittura per nome dai personaggi di quelle che noi chiameremmo soap opera infinite, sit-com (situation comedies) interminabili: divenire dunque attore fra gli attori, partecipare direttamente pur se dall’esterno ad una vita fasulla (oggi la chiameremmo virtuale), ma che è considerata vera rispetto a quella ritenuta falsa descritta nei libri, vera perché felice e senza problemi. Infatti, “il televisore è ‘reale’, è immediato, ha dimensioni”, “la ‘famiglia’ è gente in carne ed ossa”, “l’ambiente in cui vi chiude è reale come il mondo”, spiega il vecchio Faber a Montag. Bradbury immagina così un salotto-tv le cui quattro pareti sono megaschermi (identici a quelli che fanno da sfondo agli odierni varietà o talk-show, o riempiono le piazze durante i comizi o i concerti o i campionati del mondo) dove si muove una vita artificiale spacciata per reale, con assiso al centro lo spettatore o più spesso la spettatrice, divenuto/a in tal modo membro di una “famiglia” che è ora la sua.

Le conseguenze sono devastanti, per chi se ne rende conto prendendo man mano coscienza di sé, come il pompiere Guy Montag, figura centrale del romanzo: non esistono più rapporti interpersonali diretti, ma solo mediati dagli avvenimenti televisivi, mescolando così i fatti della vita vera con quelli della vita fittizia, al punto da non saperli più riconoscere; attraverso il piccolo schermo è possibile coinvolgere gli spettatori e comandarli a distanza (nel romanzo avviene durante la fuga di Montag inseguito dal Segugio Meccanico); sicché alla fine la realtà artificiale creata dal salotto-tv scaccia e allontana la realtà vera, quella esterna, quella naturale, cui nessuno fa più caso e nessuno riconosce (è questa una polemica antitecnologica tipica di Bradbury).

Sembra allora possibile rintracciare in Fahrenheit 451, particolare che mi pare nessuno abbia rilevato finora, un’indubbia influenza di Nineteen Eigthy-Four, l’opera di George Orwell pubblicata nel 1950 e che sicuramente Bradbury conobbe e lesse: il mondo di una dittatura che controlla i cittadini attraverso la televisione, la mistificazione della storia, la manipolazione delle parole, sullo sfondo una guerra invisibile, l’inutile rivolta del protagonista, la presenza di un capo inquisitore. Tutti temi comuni alle due antiutopie. Mentre però lo scrittore inglese diede un tono cupo e pessimista alla sua opera sino alla fine, lo scrittore americano non si abbandona alla disperazione totale e lascia acceso un barlume di speranza, anche se in una visione (curiosamente per il suo modo di pensare) “apocalittica”.

La trama di Fahrenheit 451 è notissima, basandosi su un paradosso: i vigili del fuoco non spengono gli incendi, ma li appiccano, sono chiamati cioè a distruggere con getti di cherosene i singoli libri o le biblioteche che alcuni ancora nascondano, benché siano trascorse alcune decine d’anni dalla loro proibizione. È esattamente quanto era avvenuto negli Stati Uniti fra il 1919 e il 1934 con il “proibizionismo”, il divieto di produrre, vendere e consumare alcolici. Le insegne di questi pompieri così particolari sono, oltre il numero 451 sull’elmetto nero, la salamandra sul braccio e la fenice sul petto, due animali che secondo la tradizione passerebbero indenni nel fuoco (il primo) o risorgerebbero dalle proprie ceneri autocombuste (il secondo). Uno di questi “uomini degli incendi”, “addetti agli incendi”, “uomini del fuoco”, “militi del fuoco”, come vengono di volta in volta definiti, e addirittura “incendiari” o “pirofili” (secondo la traduzione italiana di mezzo secolo fa ancora in circolazione) – Guy Montag, appunto – non resiste alla tentazione di appropriarsi ad ogni missione di un libro che nasconde in casa all’insaputa della moglie, accanita spettatrice delle vicende infinite della sua “famiglia” al centro del salotto-tv della loro casa. Ma due episodi lo fanno precipitare in una crisi, che potremmo definire esistenziale, crisi che mette in discussione i valori in cui crede da sempre: l’incontro notturno con Clarisse, una ragazzina sedicenne, che gli rivela un modo di essere e di vita totalmente opposto a quello da lui praticato, e l’ennesimo tentativo di suicidio della moglie, quasi un fatto normale per quella società. La crisi porta Montag, nel corso di un’ennesima operazione d’incendio, a rivolgere il lanciafiamme contro il proprio superiore, il comandante Beatty, teorico della combustione dei libri quali apportatori di male dopo esserne stato in gioventù un estimatore, e quindi alla sua fuga.

Come in una dittatura di tipo stalinista secondo il principio della rieducazione e dello spionaggio, è la propria casa che Montag è costretto a bruciare dopo essere stato denunciato di possedere libri dalle persone a lui più care e vicine, la moglie e gli amici: una perfetta pedagogia del terrore, che vede l’ideologia prevalere sul sentimento di parentela o familiarità, e lo stesso accusato partecipare alla propria punizione diretta o indiretta.

Peraltro, da sempre tutte le dittature hanno cercato di esercitare un controllo sul pensiero e sul suo modo di esternarsi concretamente, sicché l’arma della distruzione dei media con cui il pensiero di volta in volta si estrinseca non è certo una novità, sia essa il fuoco o altro, aggiungendosi magari anche la condanna, l’imprigionamento e la messa a morte degli autori delle opere incriminate. Di certo il fuoco è il metodo più eclatante, quello che di più colpisce l’immaginazione: la fiamma che arde il papiro, la pergamena, la carta e oggi il floppy disk e insieme – almeno in apparenza, di certo simbolicamente – anche il pensiero lì sopra fissato.

La storia è piena di roghi di libri, a cominciare da quello delle opere di Cremuzio Cordo, nostalgico delle virtù repubblicane e che considerava Cassio l’ultimo dei veri romani, decretato – come ci racconta Tacito – dal Senato all’epoca dall’imperatore Tiberio, per continuare con quello famosissimo ed emblematico che distrusse la Biblioteca di Alessandria ed i suoi settecentomila volumi, insieme ai quali è andato perduto un immenso patrimonio di cultura ellenistica: lo fece appiccare il califfo Omar, dopo che nel 642 d.C. i suoi generali avevano conquistato la città, in base all’argomentazione secondo cui quei libri se dicevano le stesse cose del Corano erano inutili e se dicevano cose diverse erano pericolosi; e quindi con i roghi della Inquisizione in Europa e dei missionari cattolici in America Latina che condannarono in tal modo praticamente tutta la cultura precolombiana, facendo divorare dalle fiamme i codici maya e aztechi. In epoca a noi contemporanea non è esistito soltanto il rogo dei libri democratici e liberali bruciati dai nazisti di fronte all’Università di Berlino nel maggio 1933, come di regola si ricorda, ma ci sono stati, addirittura più numerosi pur se meno propagandati, anche quelli accesi dalle Guardie Rosse durante la “rivoluzione culturale” maoista degli Anni Settanta in cui vennero bruciate le opere dei filosofi cinesi classici, come Confucio e Lao-tze, o quelli recentissimi, del 1998, cui sono stati condannati da un tribunale di Barcellona circa ventimila fra volumi, videocassette, audiocassette e poster perché ritenuti “revisionisti”, sequestrati nella locale Libreria “Europa” al cui proprietario sono stati inflitti cinque anni di prigione; e del luglio 1999, allorché il governo cinese ha messo al bando per sovversione la setta millenarista dei Falun Gong (che conta due milioni di adepti, o 70 milioni come loro stessi vantano, ed il cui capo, Li Hongzhi, si è rifugiato negli Stati Uniti) ed ha arso pubblicamente decine di migliaia di loro libri, manuali, opuscoli…

Come ha scritto Mario Infelise, nella conclusione del suo I libri proibiti (Laterza, 1999), “non esiste potere che possa permettersi di rimanere indifferente alle opinioni dei governati al punto di astenersi del tutto dal proposito di influire su di esse. E in compiti del genere, non è detto che roghi e divieti siano sempre gli strumenti più efficaci”. Nel senso che oggi il Potere, sia esso democratico che dittatoriale, dell’Occidente come dell’Oriente, continua a tener d’occhio l’opinione delle élites e delle masse, cercando sempre di controllarla, indirizzarla e spesso anche reprimerla ricorrendo a metodi sottili e non più eclatanti come i roghi pubblici di libri (o videocassette o dischetti per computer). Il caso Echelon, mai del tutto risolto, insegna.

Di tutto ciò Ray Bradbury era perfettamente consapevole. La sua indignazione di fronte al pericolo di un rimbambimento di massa era tale da fargli auspicare la distruzione violenta di una società ormai insopportabilmente becera e schiava della tecnica, per poi ricostruire qualcosa di migliore sulla sua fumante tabula rasa, allineandosi così con i molti “letterati della crisi”, categoria “apocalittici”. Uomo e scrittore mite e nemico della violenza, Bradbury, di fronte al lento assassinio della cultura umanistica che vedeva nell’immediato futuro, esprime in Fahrenheit 451 il desiderio di una purificazione planetaria, la discesa del fuoco celeste (finalmente la guerra guerreggiata) e quindi la ricostruzione sulle rovine di quella rasa al suolo di una più degna civiltà ad opera di una élite di uomini colti, gli uomini-libro, gli uomini che avendo imparato a memoria un’opera famosa sono diventati essa stessa. Una concezione che si potrebbe definire rivoluzionario-conservatrice, tipica di un conservatore che non sopporta più la società in cui vive e ne auspica da rivoluzionario la distruzione, ma non fine a se stessa: piuttosto allo scopo di far rivivere una civiltà basata su valori diversi, quelli in cui lui crede e che sono stati dimenticati. “Vagabondi all’esterno, biblioteche all’interno”, ognuno di essi, grazie al proprio ricordo, alla propria memoria è diventato un libro: Platone e Marc’Aurelio, Shakespeare e Thoreau, Swift e Schopenhauer, i Vangeli e la bibbia, Buddha e Confucio. Machiavelli e Darwin. “Non siamo che sovraccoperte di volumi” dice uno di essi. Come i monaci del medioevo salvano lo scibile dell’epoca e come i trovadori lo vanno a raccontare in giro.

Una concezione anche che potrebbe far riferimento (direttamente o indirettamente non sappiamo) alle “religioni del Libro”, le tre religioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo, islamismo – ognuna delle quali si fonda su un testo sacro: quindi, una visione palingenetica, dove è proprio il fuoco che questa volta distrugge ma per purificare il mondo da una umanità indegna, perché ridotta dall’incultura ad uno stato ebete e semi-bestiale. Una specie di ekpyrosis gnostica.

Sintomatica l’immagine che si evoca nelle pagine conclusive del romanzo: ancora una volta la fenice che risorge dalle sue ceneri; altrettanto significative le parole dello stesso Montag di fronte alle rovine di Chicago distrutta dai bombardamenti: “Per ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa…” Anche Ezra Pound, quasi in quello stesso periodo, condannato da un tribunale americano al manicomio criminale per alto tradimento, affermava che c’era un tempo per parlare e un tempo per tacere: tempus loquendi, tempus tacendi.

“La nostra civiltà sta disperdendo se stessa. L’importante è sapersi tenere lontani dalla forza centrifuga che la distrugge”, afferma Bradbury per bocca di Faber. Un monito valido nel 1953 e tanto di più nel 2003.

* * *

Post Scriptum

Nel 2003 Fahrenheit 451 compie cinquant’anni. Una buona occasione per rendere merito ad una delle più significative antiutopie del Novecento. In che modo? È semplicissimo: presentandone una nuova traduzione, o una accurata revisione di quella esistente. Secondo un vezzo di praticamente tutti gli editori italiani, piccoli e grandi, il romanzo di Bradbury è ripresentato sempre nella stessa versione del 1956, quando venne pubblicato da Martello col titolo Gli anni della fenice, per poi passare dieci anni dopo, nel 1966, negli Oscar Mondadori dove assunse il suo titolo originale. La traduzione era, peraltro, del pur bravo Giorgio Monicelli, colui al quale si deve l’importazione della fantascienza in Italia (tra l’altro fondò Urania nel 1952), ma oggi è irrimediabilmente invecchiata per la terminologia usata e per alcuni giri di frase al punto da essere, in alcuni casi, stridente al nostro orecchio (ad esempio: “sotterranea”, “capitani incendiari”, la velocità in miglia invece che in chilometri con risultati grotteschi ecc.). Senza contare i refusi e le parole travisate (tanto per fare un paio di esempi: tetto/letto, esplorazione/esplosione, ecc.). Gli editori non si preoccupano di far ritradurre anche opere famose e importanti per ignorante superficialità, per pigrizia burocratica, per non sprecare tempo e per non spendere altri soldi. È auspicabile che Mondadori superi tutte queste remore e renda un doveroso omaggio a questo piccolo classico.

Post Scriptum 2

Il Caso certe volte si intrufola nelle nostre attività in modo strano. Avevo concluso la versione originale di questo scritto (una conferenza per la prima edizione di Ferrara Letteratura, organizzata da Roberto Pazzi), allorché il 14 maggio 1999 l’Associazione Italiana Editori ha reso noto con un suo comunicato che, al termine di “una lunga e complessa attività di intelligence della Polizia Postale delle Comunicazioni”, è stato “scoperto in Italia il primo sito con home-page riproducente decine di opere letterarie poste illecitamente a disposizione del pubblico”. Si é trattato, spiega il comunicato della AIE, di una operazione d’indagine complicata, “oltreché in ragione del fatto che il contraffattore ha fatto uso per la propria home-page ‘affittata’ presso un service provider sito negli Stati Uniti (il noto sito Tripod), anche perché lo stesso ‘pirata’ si era celato dietro un falso nome”. Ebbene, qual è il losco fine del “giovane contraffattore che non ha celato l’intento del suo piano”, come si dice testualmente? Ecco lo scopo, ed ecco il collegamento con quanto sinora detto a proposito del romanzo di Bradbury: “Il sito pirata è stato denominato ‘Progetto Fahrenheit 451’, contraddistinto dall’immagine di un falò accompagnata dall’invito agli utenti ad appropriarsi delle opere ivi presenti, nonché a fornire essi stessi altri files contenenti libri, pronti per la ‘distruzione’ in rete della inerente proprietà letteraria”.

Conclusione: mentre nel 1953 Ray Bradbury si opponeva ai falò reali e simbolici nei confronti del libro e proponeva che le opere letterarie venissero mandate a memoria per salvarle di fronte all’incultura avanzante, nel 1999 viceversa si auspica un falò metaforico del diritto d’autore in modo da rendere fruibili a tutti gratuitamente nel ciberspazio testi altrimenti protetti da copyright e che dunque è necessario acquistare nelle librerie. A suo modo una battaglia per la diffusione della cultura in nome di una libertà totale, al limite dell’anarchia, ma una battaglia, se mi è permesso di dire, del tutto sprecata e a sproposito, dato che l’atto di “pirateria” del “giovane contraffattore”, come vien definito, contro chi è stato commesso? Contro quale “inerente proprietà letteraria”, per usare il linguaggio della AIE? Ma per rendere accessibili al pubblico e all’inclita i romanzi, pensate un po’, di Paolo Villaggio e Corrado Guzzanti, Alessandro Baricco e Umberto Eco… A me pare una fatica del tutto inutile… Rimaniamo in attesa, dunque, di “contraffattori” un po’ meno “giovani” e dalle preferenze un po’ più simili a quelle di Bradbury che voleva salvare i testi di Platone e Shakespeare, Marc’Aurelio e Swift, Darwin e Confucio, Buddha e Schopenhauer, Aristofane e Gandhi, Einstein e Lincoln, e anche la Bibbia e i Vangeli. A ognuno, evidentemente, i suoi classici…

Tratto da Liberal n. 16, febbraio-marzo 2003, pp. 120-9.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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