Alla ricerca della città dei Cesari, nelle estreme regioni magellaniche

Dal XVI al XVIII secolo numerose spedizioni spagnole si succedettero alla ricerca della mitica Città dei Cesari, che avrebbe dovuto trovarsi da qualche parte, fra le valli della Cordigliera delle Ande, non troppo lontano dalle sponde settentrionali dello Stretto di Magellano.

Uno dei più tenaci assertori della leggenda fu un missionario italiano, padre Mascardi, colui che per primo scoprì la meravigliosa valle ove boschi di conifere popolati di cervi e guanachi si rispecchiano nelle acque smeraldine del lago Nahuel Huapì, uno dei luoghi più incantevoli al mondo. E si può comprendere come, dopo aver avuto il privilegio di rivelare all’umanità l’esistenza di una simile bellezza, il religioso fosse predisposto a credere alla possibilità di cose ancora più strabilianti, quale una città di uomini altamente civili in una delle lande più desolate del continente americano, laggiù fra ghiacci e tempeste, dove solamente il condor e il puma, il possente leone di montagna, regnavano indisturbati.

Come quella del favoloso El Dorado, così anche la ricerca estenuante della Città dei Cesari, che costò la vita a moltissime persone, si rivelò fallimentare dal punto di vista dei suoi scopi pratici e immediati: convertire delle genti pagane al cattolicesimo tridentino e, forse, sfruttarne le imprecisate ricchezze. Ma essa stessa finì per diventare parte integrante del grande mito collettivo della Patagonia, là dove i sogni sembrano confinare con la realtà di ogni giorno, nelle estreme terre magellaniche che guardano in direzione dei bianchi, lontani orizzonti del Polo Sud, custodi di tesori e segreti sepolti nel ghiaccio.

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Scrive il francese R. M. Albéres, a proposito del mito della Ciudad de los Césares, nel suo libro L’Argentina (tr. it. Milano, Garzanti, 1960, pp.106-109):

“In realtà, una particolare sfortuna sembrava pesare sugli esploratori della Patagonia e contribuire a farne una terra di leggende. Il portoghese Alcaçaba fu pugnalato con il suo stato maggiore nel 1535 sulle coste patagoniche dall’equipaggio ammutinato, che si disgregò e in parte scomparve in quelle terre. La caravella capitana di Alfonso de Calargo si perse nel 1540 nello Stretto di Magellano, e le altre navi della spedizione supposero che l’equipaggio avesse potuto salvarsi sulla costa. Il corsaro Drake prese nel 1576 la stessa costa come luogo di esecuzione dei ribelli appartenenti ai suoi equipaggi, ciò che del resto Magellano aveva fatto mezzo secolo prima. Infine, Gamboa fondava nel 1584, in nome del re di Spagna, due stabilimenti in Patagonia, allorché una tempesta spezzò gli ormeggi della sua nave e non poté mai più ritornare sulla costa – la Patagonia è il regno del vento d’uragano – e Gamboa abbandonò i suoi uomini senza viveri né soccorsi. I convogli mandati alla riscossa si persero per strada. Nel 1587, il pirata inglese Cavendish non trovò sui luoghi che un solo sopravvissuto il quale ignorava che cosa fosse accaduto degli altri, partiti per morir di fame in un luogo meno ventoso della costa. Cavendish diede a quella desolazione il nome di Porto della Fame.

“Quelle scomparse diedero luogo a una tenace leggenda, quella della ‘Città dei Cesari’ o della ‘Città incantata della Patagonia’, i cui si sarebbero rifugiati gli esploratori perduti. Gli indiani confermarono varie volte tale leggenda, ed essa vi durò per tre secoli. Fu anzi confermata da spagnoli che avevano veduto la città misteriosa. Questa era stata costruita da capi araucani, gli spagnoli dispersi sul continente vi erano giunti e i loro discendenti vi avevano il ruolo di consiglieri di stato. Le carrette utilizzate nei campi vicini avevano il manico in oro cesellato. Missionari e avventurieri partirono verso la Città Perduta. Nel 1605, il primo governatore del Rio de la Plata, Arias de Saavedra, andò a cercarla alla testa di 200 uomini, non trovando che uno sterile deserto; nel 1622 Luìs de Cabrera, il fondatore di Cordoba, partì con 400 uomini. Si potrebbero elencare almeno venti spedizioni verso la Città dei Cesari, alla quale il missionario Mascardi inviava, attraverso gli indiani, lettere scritte in sette lingue.

“Vero è che il padre Mascardi aveva qualche scusa. Era giunto per primo nella stupefacente regione del Nahuel Huapì e del lago che porta oggi il suo nome, il lago Mascardi. Prestigioso paese di laghi verdi e azzurri, profondi e affascinanti, dominato a picco da montagne su cui si avvicendano le araucarie, gli abeti e le nevi. La natura vi è così teatrale, così apparecchiata e al tempo stesso grandiosa, che non si può credere non sia stata sistemata dall’uomo o più esattamente da giganti, per costruire una di quelle meraviglie del mondo che sembrano fatte per il grande turismo. Bisogna immaginare un direttore turistico che avesse la potenza del Padre Eterno e costruisse la regione turistica ideale. Così violentemente bella, così preparata per il canottaggio, per le ascensioni, per lo sci, così verde, così azzurra, così bianca, così misteriosa, esuberante, scoscesa, gialla di terra, rossa di tronchi d’albero, popolata di foreste incantate, di rocce scolpite, da formare un mondo falso come quello dei sogni, per il quale si fossero presi la Svizzera e i laghi italiani, si fossero esasperati i colori e si fosse creata una gigantesca caricatura di tutto ciò che in un paesaggio esalta l’uomo.

“Senza paura dei demoni del luogo, i gesuiti vi fondarono nel XVIII secolo missioni subito distrutte dagli indiani. Ma quei gesuiti avevano nelle loro file anime romantiche o sedotte dal fascino del luogo, perché nel 1791 il missionario Francisco Menéndez partiva una volta ancora alla ricerca della Città dei Cesari. Si giungeva così al momento dell’Indipendenza argentina senza che la Patagonia fosse stata esplorata. Ancora per un secolo sarebbe rimasta in potere di indiani che avevano preso dagli spagnoli il cavallo e ne traevano singolari vantaggi di mobilità.

“Durante i primi 70 anni del XIX secolo, le guerre civili occupavano troppo la nuova Argentina perché potesse fare più che qualche rapida spedizione verso la Patagonia, come quella di Rosas, il futuro dittatore. Il Cile la precedette fondando Punta Arenas sullo Stretto di Magellano. Si dovette aspettare la spedizione Roca del 1879, molto dopo le guerre civili, per raggiungere il Rio Negro, e lo Stato argentino si stabilì completamente in Patagonia soltanto alla fine del XIX secolo.

“L’ultimo avventuriero della Città dei Cesari era stato un francese, sotto il Secondo Impero: un avvocato di Carmaux che partì per quelle terre sconosciute e tentò di confederarvi i capi araucani. Siccome questi si mostravano condiscendenti e rispondevano volentieri «sì» alle sue arringhe, credette di esservi riuscito ed assunse il titolo di imperatore di Araucania con il titolo di Aurelio Antonio I; fece appello alla Francia per fondare l’impero francese d’Araucania e ottenne da Napoleone III l’invio di un incrociatore francese sulla costa del Cile che rifiutava di riconoscere i diritti di Aurelio Antonio.

“Questi dovette rientrare in Francia. Aveva fatto battere moneta e, sino alla morte, si considerò come capo di governo, dapprima in visita a una nazione protettrice e amica, quindi in esilio”.

Lo storico spagnolo contemporaneo Juan Gil, nato a Madrid nel 1939 e insegnante di Filologia latina classica e medievale all’Università di Siviglia, si è particolarmente occupato della Città dei Cesari in una delle sue note opere che formano la trilogia Miti e utopie della scoperta, intitolata Oceano Pacifico: l’epopea dei navigatori (trad. it. Milano, Garzanti, 1992). Le altre due sono Cristoforo Colombo e il suo tempo e L’Eldorado. Alla ricerca della città dell’oro. Al volume sugli esploratori del Pacifico rimandiamo per un ulteriore approfondimento; qui ci limiteremo a riassumere la vicenda per sommi capi.

Fin da quando Magellano aveva scoperto e attraversato lo Stretto omonimo, sboccando per primo nel Pacifico nel 1520, geografi, esploratori e avventurieri avevano cominciato a parlare, non si sa su quali basi, sulla fauna e flora esotica di quelle regioni, sulle loro grandi ricchezze ancora sconosciute, oltre che, naturalmente (elemento immancabile dopo la celebre relazione di Antonio Pigafetta) sulla smisurata statura dei Patagoni. Tutte queste voci e queste aspettative avevano creato una leggenda ancor prima che se ne fossero definiti i caratteri specifici, tanto che lo stesso Pedro de Valdivia, il conquistador del Cile, prima di cadere sotto le frecce e le mazze degli Araucani nella storica battaglia di Tucapel, nel 1553 (vedi il nostro articolo Un imperatore francese per la confederazione degli Araucani), aveva espresso l’intenzione di esplorare le regioni prospicenti lo Stretto di Magellano. Così, quando il capitano di Caboto, tale Francisco César, tornò da un viaggio esplorativo in quelle remote regioni, il terreno era preparato per lo scoppio di un incendio che avrebbe infiammato l’avida fantasia degli Spagnoli quasi quanto il mito dell’Eldorado.

“Le sue peripezie vennero in seguito narrate con dovizia di particolari da Ruy Diaz de Guzman, che ci rivela anche il nome del suo informatore: si trattava di un abitante el Tucumàn, Gonzalo Sànchez Garzòn, che aveva conosciuto il capitano a Lima. La storia raccontava che César – scrive Juan Gil (op. cit., p. 276) – partito alla testa di un distaccamento dal forte dello Spirito Santo, camminò sempre verso ponente finché giunse alla grande montagna; da lì piegò verso Sud, ed entrò in una provincia molto abitata, piena di genti vestite e ricchissima d’oro e d’argento, che veniva governata da un gran signore, cui gli spagnoli decisero di chiedere protezione. Il re, che li ricevette cordialmente, diede loro il permesso di andarsene quando avessero voluto, per cui il capitano ritornò al forte con i suoi uomini ripercorrendo la stessa strada, e avendolo trovato distrutto andò a Cuzco passando da Atacama. César sosteneva di aver intravisto, dalla sommità della Cordigliera, le acque dei due oceani, anche se Diaz de Guzmàn riteneva che tale asserzione fosse esagerata; Diaz era stato tratto in inganno dai grandi laghi che si trovano a nord dello Stretto. Nel racconto di Diaz de Guzman si intrecciano verità e fantasie (…)”.

Tali notizie, frammiste di verità e fantasie, bastarono a scatenare una vera e propria corsa per arrivare primi nella terra dei Cesari, mentre il nome del capitano spagnolo era stato deformato al plurale e la misteriosa terra era divenuta una città secondo il modello europeo. Si ingaggiò una specie di gara fra le spedizioni che partirono dalla provincia di Tucumàn, nell’odierna Argentina nord-occidentale (allora giurisdizione del Rio de la Plata) e quelle che partirono dal Cile. Nel 1550-51 Francisco de Villagra andò alla ricerca “delle province che dicono dei Césares”, partendo dal Potosì; e, due anni dopo, fu la volta di suo cugino Pedro. Il disastro di Tucapel e la morte di Valdivia imposero una tregua alle spedizioni, ma fu un’interruzione di breve durata. Nel 1565 fu la volta di Juan Pérez de Zorita, che però dovette tornare indietro assai prima di avvicinarsi alla meta; nel 1579 si mise in marcia, questa volta dal Tucumàn, il governatore Gonzalo de Abreu, ma anch’egli dovette tornare indietro per mancanza di cibo. Nel 1587 riparte Jaun Ramirez de Velasco, suo successore; e inviò in Spagna una relazione in cui sosteneva di esser giunto proprio nella terra di César, ma degli smeraldi e delle altre ricchezze vagheggiate, neanche l’ombra: il che non valse a smorzare l’entusiasmo con cui fu descritta la scoperta. Se la Città dei Cesari non veniva trovata, ciò era a causa di una qualche magia o stregoneria; ma c’erano ancora intrepidi conquistadores che, come Rinaldo nella foresta stregata della Gerusalemme liberata, avevano coraggio da vendere per affrontare anche quel genere di ostacoli. Perfino dal lontanissimo Rio del la Plata si misero in cammino alla volta della Città dei Cesari. Fu quanto fece Hermandarias de Saavedra nel 1604 che però, dopo un inizio promettente, dovette anch’egli tornare indietro, anche per evitare un ammutinamento delle sue truppe: da allora egli negò valore alla leggenda, senza peraltro che ciò scoraggiasse altre esaltati.

Le spedizioni proseguirono per tutto il XVII e XVIII secolo, in un susseguirsi di speranze e delusioni, mentre la Città dei Cesari sembrava allontanarsi sempre più nella terra del mito se non della pura leggenda, circonfusa da un alone di nobiltà e di ricchezze.

Abbiamo detto che uno dei personaggi che più hanno contribuito al perdurare di questa leggenda è stato un missionario italiano, padre Mascardi. È giunto il momento di dire qualche cosa di più su questa affascinante figura di religioso che rimase anch’egli, a suo modo, stregato dalla bellezza e dal mistero di quelle estreme regioni meridionali del continente americano, tanto da dare, alla fine, la vita per quella sua ansia di spingersi sempre più avanti. Non sarebbe stato l’unico a coniugare il sentimento religioso con un sentimento, altrettanto potente e quasi altrettanto spirituale, per la magia di quelle remote solitudini; basti citare, nei tempi più recenti, il nome del salesiano piemontese Alberto Maria De Agostini, missionario ed esploratore assai noto della Patagonia australe e della Terra del Fuoco, ove spese ben trenta anni della sua vita intensa e laboriosa. Ma torniamo a padre Mascardi e cediamo la parola allo storico Juan Gil (op. cit., pp. 298-300).

“Il 26 maggio 1669, il conte di Lemos annunciò da Lima una piacevole sorpresa. Finalmente c’erano fondate speranze di trovare una volta per tutte la terra chiamata dei Césares, dove vivevano quegli spagnoli circondati dai barbari. A spargere quest’illusione era stato sicuramente un gesuita, Nicola Mascardi, retore del collegio del Chiloé, che conosceva a menadito- secondo gli imperscrutabili disegni della Divina Provvidenza – tutto quanto era accaduto ai superstiti della spedizione di Arguello, che si era perduta nella parte Nord, nei pressi dello Stretto. I naufraghi, composti da 500 uomini, 60 donne, tre sacerdoti e alcuni bambini e servitori, avevano camminato instancabilmente all’interno, fino a raggiungere i 46° di latitudine; «laggiù andarono a vivere su di un’isola con una laguna grande, e si sposarono con i nativi di quella terra, e si sono moltiplicati; e dicono esservi più di mille spagnoli figli di quelli». Se non si erano mai avute notizie più sicure dei naufraghi, era perché i puelches, i poyos e altri indios delle pampas cilene temevano che gli spagnoli, se avessero unito le loro forze, li avrebbero sconfitti, poiché si sarebbero venuti a trovare in mezzo a due fuochi; ma quel segreto era stato confidato da un’india molto importante, che i suoi sudditi chiamavano regina, e che tre anni prima era stata fatta prigioniera nel corso di una scorreria contro i puelches. Il fratello di questa cacicca aveva mostrato loro un libro delle Ore stampato a Siviglia più di duecento anni prima, un prezioso incunabolo che poteva appartenere soltanto a quella gente perduta. Per maggior sicurezza, l’anno precedente Mascardi aveva mandato laggiù due capi indios, che erano stati molto festeggiati al loro ritorno. Infatti avevano visto nelle mani dei poyas gioielli e accessori di evidente fattura spagnola: il provvidenziale fratello della non meno provvidenziale cacicca avrebbe fornito ulteriori informazioni al riguardo prima dell’inverno; Mascardi aveva già ottenuto il permesso del suo padre spirituale di intraprendere il viaggio per andare dai puelches, la cui lingua aveva appreso nel frattempo.

“Infine Mascardi riuscì nelle sue intenzioni. In una lettera senza datazione al suo provinciale, il padre Francisco Javier Grijalba, Mascardi manifestava l’entusiasmo di trovarsi già presso i poyas, la cui rettitudine morale avrebbe fatto impallidire d’invidia più di un cristiano. Il gesuita perseguiva con ostinazione le sue manie preferite; ne è una prova il fatto che dicesse che fra i poyas c’erano indios battezzati, che da 48 anni si erano ritirati dal Chiloé, vivendo nella più completa e riservata moralità. Sembra che Mascardi vada sempre alla ricerca di reliquie del passato. Ma non aveva neppure rinunciato alla sua antica ossessione; anzi, lungi dall’accontentarsi di cercare i naufraghi di Sebastian Arguello sulla costa di Buenos Aires, sognava un’impresa ancora più importante: il recupero degli uomini di Pedro Sarmiento perduti nello Stretto e di quelli di Iñigo de Ayala abbandonati nel mare dei chonos. La grande operazione di salvataggio aveva avuto inizio. Mascardi era già stato presso i chonos, che gli avevano dato notizie degli spagnoli e «degli incendi che da due anni c’erano stati in quelle lagune e montagne, cercando secondo me il passaggio per Valdivia», fuochi che in parte aveva visto con i propri occhi, e che in parte gli erano stati raccontati dagli indios (uno vicino alla laguna di Chocayo – a 30 leghe – e un altro in una laguna a 50 leghe di distanza). La bellicosità degli indigeni provocò la morte di Mascardi, troncando così il suo bel sogno.

“Nel 1682 un altro gesuita, Joseph de Zuñiga, disse a Nehuel Huapi con gli indios di Mascardi. La sua esperienza indusse il padre provinciale della Compagnia, padre Francisco Ferreira, a proporre al duca della Palata il 3 agosto 1683 l’evangelizzazione dei poyas. Tuttavia, dopo quei sanguinosi eventi, scese una spessa coltre sulla leggenda degli spagnoli perduti. Per giustificare la sua richiesta missionaria, Ferreira disse che la gente dei poyas era molto numerosa, era grande la loro docilità, ancora migliore la loro disposizione d’animo, indescrivibile la loro virtù e grandissimo era il desiderio dei gesuiti, dal più sapiente al più ignorante, di attirarli a Dio, ma non scrisse neppure una parola sul salvataggio di quegli spagnoli che vagavano nei gelidi deserti della costa magellanica.

Lo scrittore francese René Thevenin scriveva, a conclusione del suo conciso ma eccellente saggio su I paesi leggendari (trad. it. Milano, Garzanti, 1960), che i paesi leggendari esistono dall’alba dei tempi e dureranno quanto durerà l’uomo, perché è nel profondo del suo animo che vivono eternamente. Questa considerazione è sicuramente valida anche nel caso specifico della Città dei Cesari, dal momento che uomini esperti di quelle regioni sudamericane, come lo erano quasi tutti i conquistadores, gli avventurieri e perfino gli uomini di Dio che si misero alla sua ricerca, non avrebbero dovuto nutrire molti dubbi, a fior di logica, circa l’origine leggendaria dei racconti intorno alla colonia perduta degli Spagnoli e alle strabilianti ricchezze presenti nel loro regno misterioso.

Prima di concludere, ci piace riportare una pagina tratta dal saggio Viaggio e conquiste nel Paese dei giganti di Gabriele Rossi-Osmida, che si riferisce appunto alla Città dei Cesari e che fa parte del volume di Autori Vari Patagonia, terra del silenzio (Venezia-Mestre, Erizzo Editrice, 1980, con il contributo del Centro tudi Ricerche Ligabue, pp. 23-24).

«È la città incantata de los Césares l’ultima leggenda che morì in America e la prima che incantò le infinite solitudini del Sud». Con questa frase, ai primi del Seicento, lo storico Enrique De Gambia accenna alla leggenda che fece impazzire guerrieri e frati, trascinandoli da un punto all’altro dell’estremo Sudamerica determinando, con l’incetta degli schiavi, le prime esplorazioni all’interno della Patagonia.

“Le origini del mito dei Cesari sono estremamente vaghe e imprecise e gli elementi comuni a tutte le versioni sull’argomento, si rifanno a un naufragio sulle coste settentrionali dello Stretto di Magellano. Gli scampati, nel tentativo di raggiungere i territori spagnoli per via di terra, avrebbero avuto la fortuna di incontrare alcuni indigeni che vivevano in una specie di Eden, dove l’oro era considerato alla stregua di un vile metallo.

“Acculturatili avrebbero quindi costruito delle meravigliose città con mobili, suppellettili e artiglieria in oro e argento. Alla prima sarebbe stato conferito il nome di ‘Cesari’; secondo alcuni, dal nome del fondatore; secondo altri, in onore dell’imperatore Carlo V. E fu così che gli abitanti di questa fantastica regione passarono alla storia come los Césares.

“Queste deliranti fantasie trovarono ben presto testimoni oculari, quali Pedro de Oviedo e Antonio del Cabo che, scampati ad un naufragio nel 1539, quattordici anni dopo, con l’enfasi dell’epoca, diffusero in Cile e a Tucumàn una loro ‘relazione’, infiammando gli animi di governatori e avventurieri.

“Fin dal 1578 si organizzarono spedizioni dirette al Sud per individuare questo nuovo Eldorado. In realtà le uniche città che si trovavano nei pressi dello Stretto erano solo la Nombre de Yesus e la Rey Felipe, le tragiche colonie fondate da Sarmiento.

“Quando, trentun mesi dopo la loro fondazione, passò per quei luoghi Thomas Cavendish, sopravvivevano ancora solo una quindicina di uomini uno dei quali, Tomé Hernandez, riuscì a fuggire con gli Inglesi, sbarcando in seguito nei pressi di Valparaiso e riparando fortunosamente a Lima.

“Qualche anno dopo apparve in questa città una sua testimonianza giurata che sconfessava la leggenda dei Cesari. Ma nonostante la relazione fosse assolutamente veritiera, venne lo stesso travisata e impugnata dai sostenitori ad oltranza di questo mito che, nutrito dalla follia, non poteva ammettere la realtà.

“Sembra che la prima spedizione via terra sia stata compiuta agli inizi del XVII secolo da Alvaro de Saavedra, governatore del Paraguay [in realtà, abbiamo visto che esse iniziarono molto prima]: ma la relazione è molto sospetta.

“È certo comunque che nel 1610 Luis del Peso e, nel 1620, Luis de Cabrera arrivassero quanto meno ai primi accampamenti peuelchi in quanto il padre Rosales afferma che qui, trentadue anni dopo, incontrò i superstiti della loro spedizione conclusasi rovinosamente. Altre prove vennero raccolte nel 1643 da padre Jeronimo de Monte Major che per ben due volte in vent’anni si recò all’interno della Patagonia riuscendo addirittura a tracciare un itinerario ‘certo’ per raggiungere i Cesari.

“Nel 1665 il padre Mascardi servendosi di questi dati arrivò nei pressi di Rio de los Camarones, dove avrebbero dovuto trovarsi le tanto favoleggiate città; ma, dei Cesari, dei Cesari, nessuna traccia. Deluso, ritornò in Cile dove Juan Verdugo stava ammassando un gran numero di indigeni rastrellati dall’altra parte della cordigliera per venderli come schiavi.

“Mascardi lo contrastò fieramente e tanto fece che riuscì ad ottenerne la liberazione.

“Tra i prigionieri si trovava un’india che chiamavano ‘la Regina’: una cacica proveniente dalla zona più meridionale della Cordigliera che, a suo dire, confinava proprio con la regione dei Cesari.

“Raccontò a Mascardi che nelle loro città esistevano grandi e magnifici templi muniti di torri coronate da croci; che ogni abitante, abiurata la religione dei padri, possedeva fino a nove mogli, e altre cose del genere che infiammarono di sacro zelo l’animo del missionario. Alla fine questi si convinse di esser stato scelto dal cielo per ricondurre sulla retta via gli Spagnoli corrotti da una troppo lunga permanenza tra le mollezze dei barbari.

“Così, ottenuta la liberazione degli indigeni, partì con loro nel 1670. Fece una prima sosta al grande lago di Nahuel Huapì, fondandovi una missione; poi riprese il cammino verso Sud.

“Finalmente arrivarono al paese della cacica dove non gli venne concesso di spingersi oltre senza il placet dei Cesari.

“Ignorandone l’idioma, Mascardi indirizzò loro alcune lettere in spagnolo, greco, latino, italiano, araucano e poja esprimendo i propositi e gli obiettivi puramente religiosi del suo viaggio. I messaggeri partirono: ma dopo qualche tempo fecero ritorno dicendo di essere stati assaliti da degli indios e derubati del messaggio.

“Non si sa se a questo punto padre Mascardi dubitasse finalmente dei suoi ospiti: fatto sta che rientrò alla missione di Nahuel Huapì. Roso dall’idea che in una landa nascosta della Patagonia esistevano degli apostati votati alla dannazione eterna, ritentò la sorte nel 1671, arrivando fino al Pacifico, e nel 1672, prendendo la direzione opposta e raggiungendo Cabo Virgines [ossia lo sbocco orientale, sull’Oceano Atlantico, dello Stretto di Magellano]; ma dei Cesari nessuna traccia.

“Per l’ultima volta partì verso Sud da Nahuel Huapì nel 1673 puntando diritto verso il centro dello Stretto di Magellano deciso a trovarlo a ogni costo. Ma ciò che incontrò fu solo la morte che lo colse il 14 dicembre dello stesso anno per mano degli indi.

“Dopo Mascardi l’interesse per i Cesari si affievolì, anche se non mancarono nei secoli successivi le ‘rivelazioni sensazionali’. Ignacio Pinuer, nel 1674, dopo aver descritto le immense ricchezze del loro paese, concludeva dicendo: «Questa è tutta la serie di notizie che di quelle sconosciute città ho acquisito come risultato di incessanti lavori. Della loro esistenza non rimane dubbio. Per quanto assicuro in nome di Dio, nostro Signore, e questo segno della croce, e la mia parola d’onore”.

È questa una sintetica ma efficace ricostruzione, che bene rende il clima in cui si svolsero le affannose ricerche della Città dei Cesari. Vi è solo un punto nel quale ci permettiamo di dissentire: là dove l’Autore afferma che la relazione pubblicata a Lima verso la fine del Cinquecento, in cui si sconfessava la leggenda dei Cesari, “Venne travisata e impugnata dai sostenitori ad oltranza di questo mito che, nutrito dalla follia, non poteva ammettere la realtà”. Dissentiamo perché crediamo che il mito sia una forma di conoscenza, né più né meno (anzi piuttosto di più che di meno) della conoscenza scientifica; che esso si nutre di simboli che vivono nell’Inconscio collettivo, come sosteneva Jung, e dunque, parafrasando René Thévenin, nella parte più profonda di noi stessi. Non è il mito che non può ammettere la realtà, e coloro che lo inseguono non sono accecati da una forma di pazzia. Il mito è una maniera di descrivere la realtà; e, se pure quella della Città dei Cesari possa essere stata più una leggenda che un mito, anche le leggende nascono con uno scopo preciso. Quello di insegnarci a guardare al di là delle cose che possiamo percepire con i cinque sensi ordinari; a guardare oltre, proprio per ritrovare la parte più vera di noi stessi.

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Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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