Genesi delle razze estinte

Capita di tanto in tanto che, trovandosi lontano dalle città, passeggiando tra i boschi o lungo le rive di un fiume, si possono sentire risate, sospiri, o suoni mai uditi altrove. Se colui che è in grado di udire queste “voci” accettasse i loro inviti, egli si ritroverebbe a percorrere dei sentieri nascosti che conducono in luoghi dove vivono, o meglio sopravvivono, esseri meravigliosi, ma a volte anche terribili, che il mondo moderno ha scartato e dimenticato in favore di un materialismo che ha reso l’uomo ostinatamente cieco ed insensibile.

Primi tra questi esseri sono le fate. Spesso descritte come donne bellissime avvolte in veli splendenti, o come fanciulle minuscole con ali di farfalla, le fate sono comunque creature di natura magica considerate dolci ma terribili se infuriate. Una tradizione comune all’area alpina ma anche a quella ligure e padana vuole che esse influiscano sulla sorte degli uomini. Considerando infatti l’origine del nome fata scopriamo che esso deriva dal latino fatum, destino, ed era associato a tria fata, nome con cui venivano chiamate le Parche (o Moire), considerate dagli antichi greci e romani come divinità che decidevano il destino degli uomini. A tale divinità si affianca anche la figura delle tre Norne, che per i popoli nordici, abituati a trascorrere con dignità una vita segnata da controversie alle quali non potevano sottrarsi, avevano un significato simbolico analogo a quello delle suddette Parche. Più tardi, nelle leggende popolari e nelle fiabe, le fate vengono viste anche come ninfe abitatrici delle sorgenti, conoscitrici delle arti magiche e del futuro. Tuttavia, esse non devono essere confuse con le ondine, spiriti delle acque scelti da Odino stesso per custodire l’oro del Reno, le cui vicende sono narrate nella Saga dei Nibelunghi.

il-piccolo-popoloCome gli spiriti delle acque, molti sono gli esseri divini o magici che i popoli antichi associavano ai fenomeni della natura. Il Caos primordiale veniva rappresentato dai giganti, simbolo degli elementi scatenati. La razza dei giganti trova nei canti dell’Edda della tradizione vichinga un’origine più remota di quella degli dèi di Asgard. Secondo questo testo, all’inizio dei tempi, nel vuoto primordiale esistevano soltanto due regni: a Nord il primo, Niflheim, o Nifehel, una regione nebbiosa e disabitata costituita da ghiacci e nevi perenni; il secondo, a Sud, si chiamava Muspell(heim) ed era un mondo di fuoco in cui risiedeva un’orda di demoni guidata da Surtr il Nero (anch’egli definito un gigante ma la cui origine non trova documentazione), il futuro nemico degli dèi. Dal cuore di Niflheim scaturirono dei fiumi che, allontanandosi dalla sorgente, allagarono il vuoto tra i due regni e si ghiacciarono. I ghiacci più vicini a Muspell si liquefarono per il calore dei venti caldi e le gocce disciolte diedero forma ad un essere antropomorfo di dimensioni colossali che ebbe nome Ymir, collegabile al sanscrito Yama, ermafrodita. Da solo infatti egli generò, dal sudore dei piedi, un figlio mostruoso dotato di sei teste, Thrudgelmir, e fu padre e madre della stirpe dei giganti dei ghiacci, Thursi della brina, detti più tardi Jötun, da cui Jötunheim, nome del reame da loro abitato. Esso fu costruito dopo l’uccisione del gigante Ymir da parte degli Asi e collocato a settentrione della terra, delimitato dagli oceani e da catene montuose, o “recinti”, costruiti con le sopracciglie di Ymir stesso. Jötunheim comprendeva anche la foresta di ferro, abitata dalle donne troll, le femmine dei giganti.

Nel folklore scandinavo si narra che i troll, creature paragonabili nell’aspetto deforme e malvagio ai Fomori delle leggende irlandesi, potessero agire soltanto di notte in quanto, qualora investiti dai raggi solari, si sarebbero trasformati in pietra. Un’allegoria che sta a dimostrare come le azioni dei malvagi vengano compiute quando la vita si addormenta e gli dèi distolgono il loro sguardo benevolo. Tuttavia, se nel folklore i troll vengono descritti come mostri malvagi, nei canti della tradizione eddica possiamo riscontrare come molte volte le femmine dei giganti siano così belle e dotate di magici poteri da fare innamorare gli dèi e imparentarsi con la loro schiatta. Questo avveniva anche secondo la mitologia greca (anch’essa rappresentante i giganti come creature discendenti dall’unione di due potenze contrastanti, il cielo e la terra, all’inizio dei tempi). Zeus, il padre degli dèi, ebbe infatti diverse mogli tra le titanesse e dall’unione con esse generò le Ore, le Moire, le Grazie e le nove Muse. Dal confronto di queste due tradizioni, quella greco-mediterranea e quella germanico-scandinava, emerge un punto comune: l’era dei giganti venne prima di quella degli dèi. “Ciò voleva forse significare che la violenza e il male sono forze esenziali e primitive dell’Universo, forze che ne esprimono l’essenza assai più e assai prima della saggezza operosa degli dèi buoni e degli uomini ripettosi del comando divino”. Ma se i giganti erano visti come simbolo del Caos e delle avversità, molte erano le creature e gli spiriti semidivini che, associati alle forze elementari, agivano in seno alla terra. Presso tutti i popoli del Nord era diffusa la credenza negli elfi, anche se le fonti eddiche non precisano la loro origine. Per certo si sa che alleati degli Asi erano i Ljosalfar, elfi della luce o elfi bianchi. Essi avevano fattezze umane ma erano molto più belli degli uomini: dal corpo aggraziato, dai capelli d’oro e d’argento e dagli occhi splendenti come le stelle, essi emanavano un chiarore che di notte riluceva quando scendevano sulla terra per danzare e cantare nei campi fioriti, nelle radure dei boschi o sulle colline, dove lasciavano orme in cerchio a testimoniare la loro presenza. Il loro regno era però Alfheim, situato nei cieli e legato alla terra da quel grande fiume che gli uomini hanno chiamato Via Lattea.

entita-fatate-della-padania Secondo un poema eddico, Alfheim fu donato al dio Freyr, divinità della fertilità, dell’abbondanza e della luce solare, come regalo per il suo primo dente. E’ per questo motivo che gli uomini nelle campagne, intorno all’anno Mille, compivano sacrifici atti ad aggraziarsi la benevolenza degli elfi. Ad essi venivano infatti offerte le ultime spighe, gli ultimi frutti ed alcune manciate di lino, perchè col rinnovarsi dei cicli stagionali gli spiriti dei campi e dei boschi curassero la prosperità del regno vegetale. Questi culti insegnavano inoltre a guardare l’ambiente con un maggior rispetto: in Norvegia e in Danimarca, ad esempio, si esitava a tagliare i boschi in quanto esisteva la credenza che gli elfi e molti altri géni prendessero dimora nelle cavità degli alberi e che per far legna si dovesse chiedere il loro permesso. Se si trascuravano questi aspetti gli elfi potevano vendicarsi rapendo i bambini, facendo smarrire i viandanti o impazzire gli uomini. Più tardi, con la diffusione del cristianesimo, queste credenze furono esorcizzate riducendo l’immagine degli elfi a quella di caproni, cervi, lupi, maiali, o spiritelli malvagi che infastidiscono e procurano male agli uomini. Questa visione malvagia degli elfi ha quindi origini più recenti, tuttavia anche i popoli nordici volevano l’esistenza di una razza elfica votata al male, quella degli elfi scuri o Dökkalfar, simili all’inglese Dark elf. Provenienti dal regno sotterraneo di Svartalfheim, essi erano di carnagione scura quanto la pece e di natura gelosi, astuti, portatori di sventura e malattia. Nonostante le molte doti negative gli elfi neri erano abili orafi in grado di costruire oggetti magici di grande valore. E’ proprio per questa loro capacità, per la collocazione del loro reame e per la discendenza da Ymir che essi vennero equivocabilmente confusi con i nani. Questi infatti erano creature che vivevano nel sottosuolo dei monti, presso una dimora costituita da cunicoli e grandi aule, denominata Nidavellir. Come i Dökkalfar, essi nacquero in forma di vermi nelle carni putrescenti di Ymir, il gigante primordiale. Nonostante la bassa statura e le membra deformi, i nani rivestono un ruolo di considerevole importanza per l’universo vichingo. Dopo la creazione del mondo gli dèi pongono quattro nani a sostegno della volta celeste: Austri, Vestri, Nordri e Sudri, indicanti i punti cardinali. “I nani conoscevano così bene il segreto dei tesori della terra e del fuoco primordiale da aver saputo forgiare gli oggetti più preziosi degli dèi”. Essi infatti erano attratti dal fascino dell’oro, con il quale costruivano fulgidi gioielli e tesori di inestimabile valore. Talvolta questa loro cupidigia fu fonte di guai e discordie, come nel caso della Saga dei Nibelunghi. In alcuni casi, però, le leggende popolari vogliono che un nano di tanto in tanto si riveli a una persona di animo puro per condurla nei pressi di un ricco tesoro, esigendo che il beneficiato non rivelasse mai la provenienza delle proprie ricchezze, pena la perdita di tutto. In questo loro aspetto i nani ricordano gli gnomi della tradizione d’Irlanda, i quali esaudivano i desideri degli uomini con una pentola piena d’oro.

Se gli spiriti elementali erano quindi schivi e restii a farsi vedere dagli uomini, ve ne erano altri che avevano grande gioia nell'”occuparsi” di loro. Erano questi i folletti, esseri inconsistenti (il nome deriva dalla radice fol, soffio d’aria) che vivevano in seno alle famiglie. Essi stavano nascosti nelle case, osservavano le azioni di coloro che vi dimoravano e, giudicandoli dal comportamento, decidevano di amarli, anche se indirettamente, o perseguitarli con terribili dispetti. Molte sono le favole o i racconti a riguardo di questi due aspetti dei folletti, l’uno fastidioso e molesto, l’altro allegro e vivace. Per certo si sa che, se gli uomini erano presuntuosi, egoisti, o assumevano dei comportamenti negativi, le punizioni dei folletti arrivavano immediate: scherzi, talvolta anche pericolosi, dispetti e manifestazioni che facevano perdere il senno. Al contrario, se le persone erano buone, i folletti vivevano serenamente e talvolta decidevano di mostrarsi loro. Gli spiriti assumevano allora le forme più svariate, a seconda delle circostanze: un sasso, un animaletto, una fiammella, un oggetto, ma più spesso l’aspetto dei simpatici ometti era quello di simpatici ometti dall’aspetto grazioso che proteggevano la famiglia, i suoi animali, e sbrigavano i lavori domestici o quelli pesanti anche grazie all’aiuto dei loro poteri magici. In questo somigliavano anche alle divinità familiari degli antichi etruschi e sabini, divinità che, come molte altre, sono state combattute dalla religione moderna e sostituite con le figure dei suoi santi. Sono stati proprio questi culti imposti a far perdere all’uomo la capacità di percepire le presenze che ancora abitano l’ambiente che lo circonda. Esse sono ancora qui, tra noi, ad aspettare o forse a cercare colui che, conservando il vero senso della gioia, della sincerità e dell’umiltà, possa ancora una volta accoglierli nella dimora che più amano.

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Tratto da Algiza 4.

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