World History e globalizzazione. Brevi note a margine

world-historyLa questione in fondo è semplice: la World History, oggi tanto in voga principalmente nel mondo accademico anglofono ma in via d’importazione anche da noi, rappresenta un reale guadagno conoscitivo, un effettivo ampliamento dei nostri orizzonti di conoscenza o non è piuttosto innanzitutto un potente strumento di legittimazione del presente, ovvero un tentativo, nemmeno troppo velato, di fornire una sponda storiografica alle odierne apologie della globalizzazione?

Pertanto, pur partendo, di là da ogni ingenua pretesa di ‘fare storia’ in modo radicalmente oggettivo e avalutativo, dall’asserto crociano per cui ogni storia è storia contemporanea e dall’impossibilità che i giudizi di valore non penetrino nel lavoro dello storico, credo sia comunque lecito interrogarsi sulle finalità di una tendenza storiografica che pare essere davvero troppo sbilanciata a favore delle ragioni del ‘campo ideologico’ predominante nell’oggi. Senza contare, a ricordarcelo è George Orwell, che “il conformismo degli intellettuali non si misura su ciò che pensa la gente comune ma su ciò che pensano gli altri intellettuali”, per cui è facile pronosticare una sempre maggiore diffusione di tale ‘scuola’.

maometto-e-carlomagnoOra, innanzitutto non credo che ad essere centrale nella World History sia il concetto di ‘interconnessione’. Indubbiamente si può privilegiare un diverso ordine di grandezza di ciò che sarebbe ‘connesso’, sino ad arrivare a una prospettiva che potremmo definire di ‘interconnessione globale’, ma a me pare incontestabile la constatazione che anche altre scuole storiografiche si siano servite con continuità, e ben prima della nascita della World History, del concetto di ‘interconnessione’, sì da poter indagare con attenzione prestiti, scambi, influenze reciproche e contatti di ogni genere tra popoli, culture e civiltà. Piuttosto la peculiarità della World History credo vada rintracciata in un bersaglio polemico e in un concetto qualificante, tra loro inestricabilmente intrecciati, al punto che cadendo uno cadrebbe anche l’altro. Il bersaglio polemico consiste nel cosiddetto ‘eurocentrismo’, mentre il concetto qualificante sarebbe quello di interdipendenza. Il fine cui tende questa ‘corrente’ storiografica va invece ricercato, in buona sostanza, nell’esaltazione ideologica dell’ibridismo culturale ‘transnazionale’ e globale, con l’ovvio corollario della dissoluzione dei concreti ‘luoghi’ politico-culturali (siano essi Stati o culture nazionali) che ancora paiono resistere alle spinte globalizzanti.

Detto altrimenti, la prospettiva ‘eurocentrica’ pone le premesse per una relazione asimmetrica e diseguale col resto del mondo, in cui l’Europa reciterebbe un ruolo centrale e dominante, da indiscussa protagonista, laddove tutti gli altri si vedrebbero relegati in una condizione di subordinazione, quindi ‘ancillare’ e periferica. Dunque, mi sembra evidente che si può dare interdipendenza, e quindi uno scambio sostanzialmente simmetrico e paritario, solo col venir meno dell’eurocentrismo. Ecco perché, come dicevo prima, rifiuto dell’eurocentrismo e interdipendenza si tengono assieme o cadono assieme. Ed è altrettanto chiaro, dati questi presupposti, che il vero banco di prova storiografico della World History non può non essere la grande avventura coloniale dei popoli europei. Così come è chiaro che l’eurocentrismo, in qualsiasi modo declinato, comunque finirebbe con l’essere un ostacolo al trionfo delle ‘narrazioni’ transnazionali e globali.

A conferma di quanto detto sinora basta dare una scorsa al volume di Laura Di Fiore e Marco Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia (Laterza, 2011). La condanna dell’eurocentrismo è netta sin dalle primissime pagine; i fattori storicamente conflittuali o divisivi sono sistematicamente ignorati o minimizzati a tutto vantaggio di una visione ‘angelicata’ dei processi storici (esemplare il fastidio con cui i due autori guardano alla persistente fortuna delle tesi del Pirenne di Maometto e Carlomagno); ovunque trionfano interdipendenze, scambi ‘interculturali’, approcci ‘dialogici’ (l’isolamento culturale è un’altra delle bestie nere dei due autori), ibridismi fecondi, mescolanze le più varie, storie di genere (ça va sans dire), e così via.

Un altro esempio ancor più recente è la Storia del mondo dell’Einaudi, prevista in sei volumi (il primo già uscito, il secondo a giorni nelle librerie), che ha l’ambizione di presentare l’intera storia umana appunto sotto l’egida della globalità. Con risultati però alquanto controversi, stando almeno al primo volume (dal 1945 ad oggi), come sottolineato anche da Ernesto Galli della Loggia in una recensione imperdibile (“Zero in storia. Einaudi stecca”, uscita sul Corriere della Sera del 6/12/2014) alla quale rimando a mo’ di chiusa di queste brevi notazioni.

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