Veneziani e la “Lettera agli Italiani”. Qualcuno risponderà all’appello del mittente?

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lettera-agli-italianiL’ultima fatica letteraria di Marcello Veneziani è un libro stimolante. Ci riferiamo a Lettera agli italiani. Per quelli che vogliono farla finita con questo paese, da poco edito per i tipi della Marsilio (euro 16,00). Lo è in quanto svolge, rispetto alla precedente produzione dell’autore, un ruolo sintetico-riassuntivo: negli otto capitoli che compongono il testo, Veneziani attraversa, ripensa e ripropone le principali acquisizioni politico-teoriche cui è giunto nel corso del tempo. Sembrerebbe quindi, a tutta prima, trattarsi di una sorta di autobiografia intellettuale proiettata sul disgraziato presente d’Italia. In realtà, il libro non si riduce semplicemente a questo: la pars construens di Lettera agli italiani è sostenuta da un profondo amore per la Civiltà patria, per la nostra storia,  per l’ineguagliabile bellezza del nostro patrimonio artistico e dei paesaggi.

Il volume si inserisce in una consolidata tradizione narrativa che, dall’inizio del secolo scorso, ha connotato le patrie lettere ed ha avuto per protagonisti insigni rappresentanti della Destra culturale e/o del pensiero conservatore. Per contestualizzare il libro di Veneziani e per proficuamente beneficiarne, anche in termini pratico-politici, è necessario inserirlo in una sequela che muove dalla memorialistica, personale e nazionale, dell’Italiano inutile di Giuseppe Prezzolini, e che si mostra successivamente nelle graffianti considerazioni, tese a stigmatizzare i cambiamenti epocali del secondo dopoguerra, di Un morto tra noi di Leo Longanesi. In tempi a noi più vicini tale tendenza si è riaffacciata in due scritti, il primo di Mario Tedeschi, Si’bella e perduta, dedicato alla storia del Battaglione Barbarigo, con al centro l’amor patrio di un’intera generazione, il secondo di Piero Buscaroli, Una nazione in coma, testo disincantato rispetto al presente ed altrettanto accorato nel riproporre senso dell’onore e del valore.

In Veneziani la deprecatio temporis si trasforma in occasione di speranza per un Nuovo Inizio politico, sociale, economico, esistenziale per il nostro popolo e per i popoli d’Europa. Egli muove, fin dal preambolo, dalla constatazione del deserto spirituale contemporaneo, presenta il comune sentire di molti di noi: amareggiati, delusi dallo stato attuale delle cose in Italia, da volerla lasciare per sempre. Siamo un popolo non più di patrioti, sostiene con ironia Veneziani (altro tratto rilevante del libro), ma di “espatrioti”: siamo gli abitatori di una crisi esperita come insuperabile ed invalicabile. Ormeggiati nella mestizia consumistica del presente, pensiamo e discutiamo della Grande Bellezza, del nostro passato, nella migliore delle ipotesi, in termini di mero rimpianto, come qualcosa di definitivamente perduto e non recuperabile. La corsa folle della tecno-macchina ha, inoltre, imposto la distruzione, la cancellazione sociale dei luoghi in cui la tradizione, fino a qualche generazione fa, veniva trasmessa: la famiglia, innanzitutto. Nella società atomizzata dei single, della simulazione generalizzata della comunicazione che i nuovi strumenti mercuriali dell’informatica realizzano, trionfa l’amarcordMa questa diffusa tendenza all’amarcord tenero e dolente tradisce un amore inconfessato e quasi vietato per le cose più disprezzate e vilipese nel tempo corrente: la paternità, la maternità, la famiglia e i suoi legami” (p. 37).

La politica, i rappresentanti delle classi di governo degli ultimi decenni, ma anche i leaders delle attuali opposizioni, non contribuiscono di certo a farci superare tale sindrome depressiva, il cui esito immediato è l’allontanamento dalla partecipazione attiva alla vita civile di fasce sempre più ampie di popolazione. Se Evola nel dopoguerra, consapevole della gravità del momento, dette alle stampe Gli uomini e le rovine, la nostra condizione attuale è ben peggiore: quella delle rovine senza uomini. Renzi, Grillo, Salvini, Berlusconi, a dire di Veneziani “Sono autoreferenziali in assoluto, personaggi televisivi, prima che politici, animatori del villaggio Italia cresciuti nel deserto delle idee” e quindi, alle spalle di Renzi non esiste alcuna nuova sinistra, così come la protesta di Grillo è urlo di “pancia” in cui latita qualsiasi elaborazione di un nuovo pensiero radicale. D’altro lato, Salvini non ha al suo fianco alcun Gianfranco Miglio. L’istrionismo generalizzato non potrà ancora a lungo supportare la politica e perciò è indispensabile tornare al più presto a pensare, a produrre cultura: argomento rispetto al quale le destre del nostro paese, di governo o di lotta, si sono dimostrate sorde e perdenti. Mancando di guide significative, l’italiano dei nostri giorni è costantemente in fuga. Instabile emotivamente, delocalizzato e spaesato, senza più un cielo e una terra cui guardare come riferimenti imprescindibili del proprio orizzonte geografico-spirituale è, a tutti gli effetti, membro del precariato generalizzato, nel quale la modernità liquida ha dissolto perfino il “solido” proletariato.

Incapaci di far fronte ai fenomeni migratori di massa, prodotti dal capitale transnazionale, con i quali si realizza il definitivo sradicamento dei migranti e degli accoglienti, abbiamo perso al vitalità, la capacità di gettarci oltre la linea segnata del presente mercatista e di pensare un mondo altro. Abbiamo perso la spinta alla creatività: perfino quella biologico-riproduttiva è venuta meno. Siamo ormai lo Spopolo d’ItaliaPerdemmo meno italiani nelle due guerre mondiali che in un trentennio di anticoncezionali, gayezze e ipocondrie” (p. 29). Da italiani ad italieni, questa la nuova realtà antropologica che fa dire a Veneziani con Eliot “Il futuro è un canto svanito” e lo è perché abbiamo reciso le radici della nostra memoria storica, della tradizione italiana. Per ripartire è ad essa che bisogna tornare: all’anima latina, al cuore mediterraneo, alla mente italica. Solo recuperando l’amore per la nostra identità, saremo in grado di riconoscere le identità altrui, in quanto “Se l’identità evoca l’origine e la fonte, la tradizione è il fluire dell’origine, è trasmettere e ritornare” (p. 91). Questa è l’unica condizione che ci consentirà di riconoscerci come popolo, di recuperare la visione d’insieme che chiamiamo Italia, il progetto fondato sulla nostalgia del futuro, inteso quale eterno ritorno di ciò che siamo sempre stati. Oltre gli angusti limiti segnati dalla religione del piagnisteo bio-etico e al di là dell’intellettualmente corretto, potremo tornare a vedere nella luce di Roma, come suggerisce l’autore, il simbolo tangibile dell’azione del genius loci italico, recuperare l’eufonicità della nostra lingua, identificarci nel nostro paesaggio, agire per un Nuovo Inizio.

Con la Lettera, Veneziani invita noi tutti a ritrovare, non solo il nitore della giovinezza, ma il gusto dell’impegno che la contraddistingue. Qualcuno risponderà all’accorato appello? Ci auguriamo lo facciano in molti, perché proprio laddove la crisi colpisce in profondità, sorgono, prima che altrove, gli anticorpi della possibile riscossa.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".

  1. Carlo
    | Rispondi

    Già letto: ottimo lavoro.

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