Dieci riflessioni su Terra e Mare

1 “La storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime”. Così Carl Schmitt, in quel suo piccolo capolavoro che è Terra e Mare (Adelphi, Milano 2002). Lo Schmitt che incontriamo qui non è il pensatore scientifico e rigoroso che conosce chi abbia letto i suoi testi giuridici, quanto piuttosto il lettore di Guénon e l’esperto conoscitore dei simbolismi esoterici, impegnato quasi ossessivamente nella ricerca della chiave simbolica della storia dell’umanità. Ora, questa chiave simbolica, per Schmitt, è il conflitto degli elementi. Solcando il globo “con la ruota ed il remo” – per usare un’espressione di Carlo Terracciano – l’uomo ha sempre percepito il proprio essere nel mondo tramite l’esperienza del secolare scontro tra Terra e Mare.

2 Cosa rappresentano geofilosoficamente Terra e Mare? Il Mare è innanzitutto la negazione della differenza, conosce solo l’uniformità, mentre nella Terra si dà sempre la variazione, la difformità. Il Mare non ha confini se non le masse continentali ai suoi estremi, ossia qualcosa ad esso antitetico, l’anti-mare. La Terra è sempre solcata dai confini tracciati dall’uomo, oltre a quelli che essa stessa dona come barriere naturali. Il Mare è mobilità permanente, flusso privo di un centro stabile, “progresso”. È caos e dissoluzione. La Terra è costanza, stabilità, gravità. È gerarchia e ordine. Il Mare è il Capitale, la Terra è il Lavoro. Il Lavoro è tellurico nella misura in cui è fisso, è produzione concreta; il Capitale è invece liquido, è sfruttamento e alienazione. Il Lavoro crea, il Capitale distrugge. La Terra-Lavoro è quindi incarnata dall’Oriente metafisico, la terra di ciò che nasce (sol oriens, sole che sorge; “oriente” in russo antico è vostok, “sorgere”, mentre in tedesco è Morgenland, terra del mattino), mentre il Mare-Capitale è l’Occidente metafisico, ciò che muore (sol occidens, sole che declina; “occidente” è zapad, “cadere”, in russo ed in tedesco Abendland, la terra della sera, del declino). Concretamente e storicamente, il Mare è incarnato dalle talassocrazie anglosassoni, la Terra dalla tellurocrazia continentale eurasiatica.

3 Il conflitto di Terra e Mare acquista quindi un carattere concreto, storico, politico. Oswald Spengler (Prussianesimo e Socialismo, Edizioni di Ar, Padova 1994) illustrava questo scontro attraverso l’opposizione tra lo spirito comunitario prussiano e l?individualismo inglese. Per l’autore del Tramonto dell’Occidente, anima inglese e anima prussiana si contrappongono come due istinti, due “non poter fare altrimenti”: da una parte lo spirito autenticamente socialista, l’essenza dello Stato, la subordinazione alla totalità comunitaria; dall’altra lo spirito individualista, la negazione dello Stato, la rivolta dell’individuo contro ogni autorità. Tipo inglese e tipo prussiano “rivelano la differenza tra un popolo la cui anima è venuta formandosi nella consapevolezza di un’esistenza insulare, ed un popolo che custodiva una marca, priva di confini naturali e perciò esposta al nemico da ogni parte. In Inghilterra l’isola sostituì lo Stato organizzato”. Da qui anche la diversa percezione di cosa debba essere l’economia e di quali debbano essere le sue finalità: “dal modo di percepire la realtà che contraddistingue il vero colono della marca di confine e l’Ordine preposto alla colonizzazione deriva necessariamente il principio dell’autorità economica dello Stato. […] Il fine non è l’arricchimento di alcuni singoli o di ciascun singolo, ma il massimo potenziamento della Totalità. […] L’istinto di predone dei mari che caratterizza il popolo insulare intende in modo tutto diverso la vita economica. Qui si tratta di lotta e di bottino”.

4 L’esistenza insulare – quindi non storica e non politica – tipica dell’Inghilterra si ritrova moltiplicata all’ennesima potenza nella teologia occidentalista americana. L’America – l’Eterna Cartagine, l’anti-Eurasia per eccellenza – è in tutto e per tutto l’erede geopolitico e geofilosofico dell’Inghilterra. In essa lo spirito mercantile, l’istinto predatorio e l’individualismo borghese raggiungono livelli deliranti. La coscienza dell’insularità porterà gli Americani a considerarsi gli abitanti di una fortezza inattaccabile, cosa che del resto consoliderà la loro certezza di rappresentare gli eletti dal Signore. L’America concepisce se stessa come la terra promessa separata dalle nazioni corrotte (Thomas Jefferson: “per nostra fortuna [siamo] separati dalla natura e da un vasto oceano dalle devastazioni sterminatrici di un quarto del globo”) e come l’isola inespugnabile. Questa illusione di sicurezza finisce l’11 settembre 2001. In quel giorno l’America incontra il proprio gemello speculare: il terrorismo. L’azione dei pirati dell’aria richiama inevitabilmente il carattere fluido, mobile, indefinibile dell’essenza dell’America. Il terrorismo, infatti, è qualcosa di sfuggente, di non localizzabile: non ha uniformi, non ha regole, non ha limiti; non ha uno stato, non ha un centro fisso, non ha una Terra. Il terrorismo è l’immagine riflessa dell’America.

5 Il titanismo predatore, piratesco, mercantile tipico delle talassocrazie è animato da una brama di dominio inestinguibile che non può essere limitata da alcuna regola. La regola, infatti, distingue, discrimina, separa; il Mare, invece, non conosce distinzioni o differenze, nemmeno tra guerra e pace, combattenti e civili. La guerra diviene una prosecuzione del mercato con altri mezzi, non è più ontologicamente diversa dalla pace. Nella guerra terrestre, osserva Schmitt nell’opera citata, “gli eserciti si scontrano in aperta battaglia campale; come nemici si fronteggiano soltanto le truppe impegnate nello scontro, mentre la popolazione civile non combattente rimane al di fuori delle ostilità. Fintantoché non prende parte ai combattimenti, essa non è un nemico e non viene trattata come tale. La guerra marittima si fonda invece sull’idea che debbano essere colpiti il commercio e l’economia del nemico. In una guerra simile, “nemico” non è soltanto l’avversario che combatte, bensì qualsiasi cittadino nemico, e infine anche il neutrale che commercia e mantiene relazioni economiche con il nemico”. La guerra terrestre è guerra di guerrieri. La guerra marittima è guerra di predoni.

6 Nell’isola, quindi, il capitalista sostituisce il politico ed il corsaro prende il posto del soldato; solo sulla Terra l’esistenza dell’uomo è immediatamente politica: in essa l’uomo traccia dei confini, ripetendo l’atto archetipico di Romolo. Non essendo protetto da barriere naturali, l’uomo è costretto a divenire autenticamente se stesso, ad uscire da una esistenza meramente biologica, animale, naturalistica. Deve crearsi il proprio mondo. L’esistenza politica, infatti, ha un carattere puramente tellurico, il diritto esiste poiché c’è la Terra. Il Mare, invece, sfugge ad ogni tentativo di codificazione. Esso è an-ecumenico, come diceva il grande geopolitico Friedrich Ratzel. Ne L’origine dell’opera d’arte (in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Milano 2000), Heidegger ha mostrato con straordinaria profondità questa caratteristica della Terra come condizione di possibilità del mondo umano. Terra e Mondo, per Heidegger, assumono un significato che può essere ricondotto, rispettivamente, a natura e cultura, o ad ambito del radicamento nel suolo natio ed ambito del decidersi per un progetto. La Terra è lo sfondo abissale che dà senso a tutto ciò che da essa si staglia come prodotto dell’attività umana; “su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo”. Tra i due aspetti si ha una tensione dialettica in cui “il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo”. Il Mondo, la sfera di ciò che deriva dalla libera attività umana, “non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro”. In caso contrario, se il Mondo prevale sulla Terra, abbiamo la razionalità tecnologica che distrugge e violenta la natura nel suo progetto di dominio totale. Se invece la Terra prevale sul Mondo, allora abbiamo l’opera dell’uomo che viene riassorbita nel fondo oscuro della natura, come erba che cresce sulle rovine di case abbandonate. È bene, invece, che Terra e Mondo siano sempre in un continuo confronto/scontro che li esalti entrambi senza annullarli. L’uomo tende sempre ad andare al di là della natura, ma deve sempre ricordare il carattere devastante di una cultura lasciata a sé stessa. Dalla Terra non ci si sottrae mai in modo indolore.

7 Il “superomismo orizzontale” (Gabriele Adinolfi) che caratterizza il prevalere del Mondo umano sulla Terra porta all’azzeramento della diversità. Ora, la mancanza di varietà e di differenza caratterizza proprio l’essenza del Mare. Geofilosoficamente esso è gemello del deserto. Il deserto è l’elemento per eccellenza della desolazione, della mancanza di cambiamento, dell’uniformità. Non a caso il monoteismo religioso è figlio del deserto. E non a caso il monoteismo economico è figlio del mare. Nel deserto non c’è alcun dio che possa manifestarsi attraverso la natura, non c’è un cosmo inteso come corpo vivente degli Dei; c’è solo una piatta monotonia che genera per riflesso un Dio che è il Totalmente Altro rispetto al mondo. La desolazione desertica rinvia alla solitudine metafisica di un Dio che è prima di tutto ed al di là di tutto, che non è afferrabile concettualmente né rappresentabile figurativamente, il cui nome non può addirittura essere pronunciato. Un Dio sin troppo simile al Nulla. Allo stesso modo la fluida uniformità marittima genera il dio-denaro, ciò tramite cui ogni merce può essere scambiata ma che non è a sua volta una merce, l’equivalente universale di ogni ente, che quindi deve necessariamente essere nulla. Se il denaro fosse qualcosa sarebbe incarnato in una merce particolare e non potrebbe assolvere la sua funzione. Il denaro è la categoria astratta che uguaglia ogni bene concreto così come il Dio unico è l’Astratto rispetto a cui gli uomini concreti sono resi uguali. Livellamento, eguaglianza, uniformità: è questo il paesaggio fisico e spirituale determinato dall’elemento mare/deserto.

8 Il monoteismo del mercato nasce dal Mare, quindi. Del resto la natura peculiare dell’economia odierna si sposa particolarmente bene con l’elemento liquido. L’era moderna è in effetti l’era dei flussi: flussi di informazioni, flussi di capitali, flussi di merci, flussi di individui. Persino il potere diventa flusso, si smaterializza, diventa una realtà sottile, che attraversa i corpi e le menti senza esser più “solidificato” in un Palazzo d’Inverno. L’uomo stesso perde solidità, diventa flessibile, deve perennemente riadattarsi al flusso del mercato, rinunciando per sempre ad ogni radicamento, ad ogni identità stabile, ad ogni fondamento sicuro. È il mondo della new economy, basata – osserva Aleksandr Dugin – sull'”evaporazione” dei concetti fondamentali dell’economia, su una de-materializzazione della realtà. L’entità dei capitali impiegati nei settori classici dell’economia, quelli della produzione “reale”, è spaventosamente inferiore a quella dei mercati borsistici e della finanza virtuale. La massa monetaria nel mondo è oggi pari a quasi quindici volte il valore della produzione. Di fatto, il capitalismo si svincola ormai dalle merci per puntare direttamente sul vorticoso autoprodursi del denaro, in un sistema totalmente autoreferenziale dove il denaro serve unicamente a generare più denaro. Il valore d’uso della merce tende verso lo zero, mentre il suo valore di scambio tende all’infinito. L’economia perde ogni riferimento fisico, internet supera i limiti di spazio e tempo, il fondamentalismo liberale abbatte le regole e così il mercato globale si fa una marea inarrestabile che cancella ogni residuo di umanità che trova sulla propria strada. Il Mare/mercato straripa, la Terra è totalmente sommersa.

9 Di fatto, l’assalto del Mare alla Terra porta infatti alla scomparsa di quest’ultima. È l’uccisione dei territori. Al cospetto della marea dilagante non vi è più alcuna terra emersa, cioè non c’è più nulla della Terra così come essa è in quanto è abitata storicamente dall’uomo. I territori diventano semplici zone, spazi disumanizzati la cui essenza è puramente mercantile. I confini tra le zone sono come i confini tracciati sull’acqua: sono pure convenzioni valide sulla carta a fini commerciali, non limiti divisori di uno spazio umano. “Tra le zone”, però, “devono correre dei legami: passaggi di denaro, di merci, di segni. Tale legame è indispensabile e segna il salto dalla geografia alla rete” (Simone Paliaga, L’uomo senza meraviglia, Edizioni di Ar, Padova 2002). La rete “esonera” il territorio dalla sua essenza fisica, lo smaterializza, lo rende fluido. La rete eguaglia ed azzera la differenza di luoghi che di per sé sono diversi, incomparabili ed irriducibili l’uno all’altro. L’opacità del differente viene cancellata in favore della trasparenza della rete, in cui ogni luogo è uguale all’altro. Come in mare aperto, dove nessuno può stabilire senza altre indicazioni in quale punto del pianeta ci si trovi.

10 Se il Mare deborda e porta il suo assalto finale alla Terra, i custodi della Terra devono fronteggiare il pericolo con una fermezza che non può, però, tramutarsi in immobilismo. Se tutto è Mare, allora, dannunzianamente, navigare necesse est. Nel mondo dei flussi, delle reti, della mobilità inesausta, non si può rimanere in attesa di uno scontro frontale che non vinceremo mai, perché il nemico ci surclassa in forza ed organizzazione e soprattutto perché esso non è solo “di fronte” ma anche accanto, sopra, sotto, dentro di noi. “Per cavalcare la tigre, ovvero per non annegare nella piena del fiume, non bisogna […] provare mai, nel modo più assoluto, ad andare controcorrente ma si devono sfruttare i venti, seguire le dinamiche, emergendo improvvisamente sulla cresta dell’onda per offrire interpretazioni attualizzate che siano corrette, in ordine e non conformi” (Gabriele Adinolfi, Nuovo Ordine Mondiale, S.E.B. Milano 2002). Il futuro sarà delle reti agili e solidali, non delle parrocchie monolitiche e divise. Occorre assumere l’atteggiamento “liquido” dell’epoca rimanendo tuttavia ancorati alla Terra e radicati in una Comunità di Destino che incarna pur sempre valori in netta antitesi con l’ethos contemporaneo. Solo così potremo porci in modo costruttivo nel cuore dello scontro che – da sempre e per sempre – ci vede fronteggiare l’Aeterna Carthago.

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Tratto da Orion 235 (2004).

Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002.

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Adriano Scianca, nato nel 1980 a Orvieto (TR), è laureato in filosofia presso l'Università La Sapienza di Roma. Si occupa di attualità culturale, dinamiche sociologiche e pensiero postmoderno in varie testate web o cartacee. Cura una rubrica settimanale sul quotidiano Il Secolo d’Italia. Ha recentemente curato presso Settimo Sigillo il libro-intervista a Stefano Vaj intitolato Dove va la biopolitica?. Scrive o ha scritto articoli per riviste come Charta Minuta, Divenire, Orion, Letteratura-Tradizione, Eurasia, Italicum, Margini, Occidentale, L'Officina. Suoi articoli sono stati tradotti in spagnolo e pubblicati su riviste come Tierra y Pueblo e Disidencias. E’ redattore della rivista web Il Fondo, diretta da Miro Renzaglia.

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