Tempo e illusione nelle dottrine indù

Pirrone, poi fondatore dello scetticismo, arrivò in India al seguito della spedizione di Alessandro: là fu fortemente impressionato dall’impassibilità con cui il brahmano Calano si diede la morte immolandosi su una pira.

E’ una testimonianza di quanto l’India, almeno nei suoi aspetti “esoterici”, fosse protesa verso la negazione del mondo fenomenico e l’annientamento della propria personalità (illusoria e contingente) nell’Assoluto. E’ infatti noto che secondo la dottrina delle Upanishad, l’io individuale fosse da estinguere in favore della realizzazione dell’Atman, parola sanscrita che significa sia “Sé” che “respiro”, “soffio vitale”.

Per il grande orientalista Giuseppe Tucci “la scienza parte dal presupposto che il mondo sia reale, ma per l’India il mondo è un sogno, anche per quei sistemi, come quelli tantrici, che lo consideravano come la veste o il velo o il gioco di Dio; perché è sempre un miraggio che bisogna raggiungere”, mentre Heinrich Zimmer, nel suo libro Miti e simboli dell’India scrisse che “ogni gioia, anche quella celestiale, è fragile come come un sogno e non fa che interferire con la concentrazione della nostra fede in Lui, il Supremo”.

Il Kali Yuga, l’epoca che ci troviamo a vivere, secondo i testi indù avrebbe una durata di 432.000 anni. Corrisponde all’età del ferro esiodea, un’epoca oscura, in cui il dharma si nasconde sempre più e il mondo si fa illusorio e sprofonda nell’ignoranza, l’avidya; ed in virtù di quest’assenza di dharma la sua durata è breve.

L’epoca precedente, lo Dvapara Yuga o età del bronzo, doppiamente illuminata dal dharma, ha una durata anch’essa doppia rispetto alla prima: 864.000 anni. L’età dell’argento, Treta Yuga, copre invece un periodo di 1.296.000 anni; infine l’età dell’oro, o Satya Yuga, dura 1.728.000 anni. Il totale consta di 4.320.000 anni, dieci volte il Kali Yuga. L’intero ciclo è detto “Mahayuga”, il Grande Yuga.

Mille Mahayuga, corrispondenti a 4.320.000.000 anni degli esseri umani, costituiscono un singolo giorno di Brahma, detto “kalpa”. Una vita di Brahma dura cento anni di Brahma, e secondo quanto scrisse Zimmer: “Ogni battito di ciglia di Vishnu segna l’estinzione di un Brahma”.

Si tratta ovviamente di una distanza temporale incalcolabile, che suscita inevitabile impressione in una mente umana: fornisce un’idea di cosa siano questo mondo, questa società e i suoi torbidi affari.

Platone, ne La Repubblica, esponeva un punto di vista del tutto simile: “Ma a quella mente che possieda magnanimità e capacità di contemplare l’intero ambito del tempo e della realtà essenziale, pensi forse possa apparire cosa assai importante la vita umana?”. E ancora: “La cosa migliore è conservare il più possibile la calma nelle disgrazie e non venirne eccessivamente eccitati, perché non è chiaro quanto vi sia di bene e di male in simili circostanze, né alcun vantaggio attende chi le sopporta male, e inoltre nessuna delle cose umane è degna di venir presa molto sul serio”.

La pretesa “realtà” a cui l’uomo dà tanta importanza, agitandosi per ottenere ciò che irrazionalmente “vuole” non è che un nulla nell’immensità dell’universo, al cui confronto anche un filo d’erba è colossale ed imperituro.

Il dio Vishnu sbatte le ciglia, e non solo l’umanità con le sue gioie, le sue sofferenze, i suoi amori, rancori e problemi, ma persino tutto l’universo scompaiono. Essi non sono più niente; ci sarà un nuovo ciclo.

D’altra parte l’India considera il mondo fenomenico illusorio a un livello tale che ha potuto produrre un testo come la celebre Bhagavadgita, ossia la parte centrale del poema epico sanscrito Mahabharata: essa racconta della battaglia di Kurukshetra, che dovette combattere, suo malgrado, il guerriero Arjuna, il quale si trovò a fronteggiare i suoi parenti ed amici. Preso dallo sconforto, egli rifiutò di combattere, allorché l’auriga Krishna – che nel testo rappresenta l’Atman, il Sé universale, laddove Arjuna è l’illusorio jivatman, l’io individuale – gli ingiunse di adempiere al suo dovere e gettarsi in battaglia.

Krishna, il “Signore Beato”, così si rivolse ad Arjuna:

“Hai pianto per coloro che non sono degni del tuo dolore! Tuttavia hai pronunciato parole d’amore. I veri saggi però non s’affliggono né per i vivi né per i morti.

[…]

Figlio di Kunti, le idee di caldo e freddo, di dolore e piacere, sono prodotte dal contatto dei sensi con i loro oggetti. Queste idee sono limitate da un inizio e da una fine, e sono di natura transitoria. Sopportale con pazienza, o Discendente di Bharata.

Fiore tra gli Uomini, colui che non può essere turbato da queste cose, chi rimane calmo ed equanime nel dolore e nel piacere, lui solo è degno di ottenere l’immortalità.

[…]

L’Uno che pervade tutte le cose è imperituro. Nessuno ha potere di distruggere lo Spirito Immutabile.

[…]

Chi considera il Sé come l’uccisore, e chi pensa che Esso possa venire ucciso, nessuno di questi conosce la verità. Perché il Sé non uccide né può essere ucciso.

Questo Sé non è mai nato né perisce. Né essendo venuto in esistenza cesserà mai di essere. Esso è senza nascita, eterno, immutabile, sempre sé stesso. E non viene ucciso con l’uccisione del corpo.

[…]

L’anima non può essere ferita dalle armi; non può essere bruciata dal fuoco; non può essere bagnata dall’acqua; non può essere seccata dal vento.

L’anima non può essere tagliata né bruciata, né bagnata né seccata. L’anima è immortale, onnipervadente, sempre la stessa.

L’anima è inconcepibile, non manifesta e immutabile. Perciò, conoscendola come tale, non devi affliggerti”.

Il testo, utilizzando come espediente metaforico l’etica della guerra, cioè un ambito precisamente “kshatriya” (il nome della casta guerriera indù), spiega come non ci si debba affliggere né per il proprio dolore né per quello altrui, e come in ultima istanza sia lecito compiere qualsiasi azione, purché dentro di sé sia totalmente assente il turbamento, e l’anima resti limpida e chiara, salda come la roccia, padrona di sé stessa. Solo in questo modo potrà conseguire l’immortalità.

Non esistono dunque azioni “immorali”, come non esiste una morale in termini generali. Esiste solo la differenza tra un’anima limpida ed una torbida, una protesa verso la liberazione (moksha) e la distruzione dei vincoli che rendono schiavi di questo mondo e l’altra condannata ad un ulteriore e più grave ottundimento, ad una forma ancora più dura di schiavitù e di ignoranza; il doloroso destino dei pashu (esseri costretti dai vincoli) è di tornare ad essere inseriti nel ciclo delle rinascite, nuovamente soggiogati dal samsara, illusi da maya.

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