Sul divismo

Possiamo considerare condizioni necessarie e sufficienti per la nascita del fenomeno del divismo i seguenti fattori: esistenza in una società di massa di un avanzato stato di secolarizzazione. Fattori questi manifestatesi poche volte contemporaneamente nella storia umana e che, eccettuati taluni casi del passato, rendono questo fenomeno una caratteristica dell’attuale civiltà.

L’attribuzione a persone comuni di un particolare valore, tale da elevarle ad un grado di ammirazione e importanza decisamente fuori dal comune, è il riflesso, il residuo di esigenze connaturate nell’animo umano che trovano la loro origine in quella necessità di punti di riferimento superiori e trascendenti che ha sempre contraddistinto tutte le comunità umane nel corso della storia. È difatti tendenza naturale ed ineludibile il ricercare valori più elevati ai quali fare riferimento per ispirare ed orientare la propria vita, per conferirle quel valore supplementare in grado di soddisfare bisogni spirituali e ansie metafisiche innate. Così, anche l’oscuramento del senso del sacro, la perdita di prestigio ed importanza da parte delle religioni nell’epoca presente non hanno intaccato questa tendenza, che rimane sempre viva e che si manifesta lo stesso, anche se in forme e modi più anomali ed originali. In una società fondamentalmente laica, ormai legata a valori puramente materiali, è comprensibile che anche l’approccio al trascendente debba subire delle sostanziali modifiche, volte ad una sorta di materializzazione sia dei soggetti interessati che delle precipue forme del culto. Una volta esclusi tutti i riferimenti a realtà superiori una delle eventuali possibilità di sostituzione è quindi quella di attribuire a uomini, o ad una speciale categoria di essi, una sorta di natura “divina”, di crisma soprannaturale, ovvero l’appartenenza ad una realtà non ordinaria, parallela, a vario titolo differente da quella dei “comuni mortali”.

Ne fanno parte persone non solo distintesi in vari campi delle attività umane – arte, sport, etc. – ma anche dotate di speciali doti di comunicatività o carisma, capaci di creare dei particolari legami simpatici con la massa dei fruitori dei mezzi di comunicazione.

Anche nei piccoli aggregati umani difatti il valore personale emerge, ma è soprattutto tramite l’effetto moltiplicativo e pervasivo dei mass-media che riesce a trovare una piena diffusione nonché una notevole manifestazione del proprio potenziale. Si pensi all’attore, al cantastorie, al danzatore di un piccolo villaggio. Egli – se dotato di talento – nell’atto interpretativo crea quell’interesse magnetico, quell’ammirazione che nella fugacità del momento lo elevano, lo trasfigurano, lo rendono sovrumano; ma alla fine ritorna uomo, si riunisce ai propri simili, ne condivide la vita, la quotidianità, le vicissitudini. Di nuovo “a portata di mano” può ancora esercitare un particolare fascino, ma mai susciterà ammirazione eccessiva né tantomeno interesse o venerazione smisurati.

Ma una società di massa è differente, essendo basata su di una comunicazione, appunto, di massa  che trova nella ripetizione del messaggio e nella potenza dell’immagine le sue caratteristiche peculiari. In questo contesto l’apparizione del divo si riveste di un alone di sacralità non comune. Eternato nel gesto, nelle fattezze o nella voce, sempre uguale a se stesso, così lontano e fondamentalmente irraggiungibile, egli sembra mutare natura, abbandonando la propria umanità per assumere tratti soprannaturali, eroici, numinosi. È immateriale, telematico, catodico, digitale, raramente lo si incontra di persona: la sua stessa presenza tra la gente comune può assumere le sembianze di una ierofania, un’apparizione dai tratti quasi soprannaturali. Egli non è soltanto divo ma è anche icona, e può essere dotato di una sorta di immortalità relativa, che si lega alla sua immagine, fissata nell’eterno presente del mezzo mediatico. Se muore giovane rafforza ancora di più il suo mito, lasciando di sé l’incorrotta immagine della giovinezza, in caso contrario è condannato ad un declino tutto umano e talvolta a tentativi, anche imbarazzanti, di mantenere una patina di giovanilismo più o meno artificioso.

Il surrogato sacrale che egli offre è sicuramente molteplice, ma può suddividersi in categorie definite: lo sportivo incarna l’archetipo dell’eroe, colui il quale compie imprese gloriose, inaudite, e conquista tramite queste la gloria ed il diritto di assidere in compagnia delle divinità dell’Olimpo.

Il cantante invece si lega alla forza ipnotica del suono, e rappresenta il sacerdote, lo sciamano, colui il quale modula le frequenze del cosmo, porta sulla terra “l’armonia delle sfere” e guida le folle nel rapimento estatico della musica.

L’attore viceversa, autentico e originale titolare del termine divo, è molto più simile alla divinità vera e propria, inafferrabile ma sempre folgorante nelle sue apparizioni, una maschera che ad un tempo cela e rivela realtà e possibilità di molteplici esistenze.

Questi i tipi fondamentali, suscettibili naturalmente di indefinite varianti, a seconda ad esempio delle abilità personali e dei contesti in cui queste hanno modo di trovare applicazione.

Il divo come surrogato del dio, quindi, conforto per lo spirito e soddisfacimento di necessità innate, di bisogni antichi quanto l’uomo.

L’anomalia della modernità sta proprio nell’essere pressoché l’unica tra le varie civiltà a conoscere questo fenomeno; non è quindi semplice trovare dei paralleli nelle epoche passate. Volgendosi indietro ne rinveniamo una blanda manifestazione agli inizi della età moderna già con le compagnie di attori professionisti della Commedia dell’Arte, mentre, tramontata quest’ultima, saranno proprio gli attori di teatro ad essere nei secoli successivi i primi veri divi.

Ma dobbiamo tornare ancora più indietro per trovarne manifestazioni più importanti: nella Roma imperiale ad esempio, in quella civiltà già decadente nella sua floridezza, che ha smarrito gli antichi valori della propria religione, non riuscendo ancora a trovarne di più validi e vivi. Nella capitale come nei grandi centri delle provincie, l’atleta, l’auriga, il gladiatore suscitano l’emozione popolare, quell’entusiasmo una volta riservato ad altri riti e che ora trova modo di manifestarsi solo in forma plebea e materiale, in una regressione nel collettivo, come frutto di una civiltà urbana e di forme di intrattenimento di folle nei suoi ranghi più numerosi ormai ampiamente secolarizzate (1).

Ma già allora, e qui introduciamo l’argomento finale, erano note le possibilità che tale fenomeno poteva rivestire nell’ambito delle dinamiche del potere. Il sempre acuto Giovenale lo fa notare in un suo celebre passo (X, 78-81):

nam qui dabat olim

imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se

continet atque duas tantum res anxius optat

panem et circenses.

Nutrimento per il corpo ed anche per l’anima, tanto è richiesto per avere la giusta influenza sulle masse. E il divo è a questo riguardo fondamentale, venendo a soddisfare, nelle sue varie forme, uno dei due termini della questione. Egli si lega alla propaganda, al sistema di potere dominante tramite un rapporto simbiotico, nel quale ad una più o meno artificiosa esaltazione della sua figura, fa riscontro il suo accresciuto ruolo di magnetizzatore e catalizzatore delle energie sociali.

La sua esistenza – perché esiste solo ciò che appare – è sostenuta e garantita da quell’apparato che detiene le leve del comando.

A nostro avviso il divo è quindi sempre un “divo di stato”, che può emergere e farsi notare inizialmente anche per la propria posizione non conforme, ma che dovrà sempre, per potersi affermare, legarsi a quelle forze in possesso del controllo della comunicazione di massa. La visione del mondo ed il messaggio che sostiene verranno quindi a coincidere con quelli dell’ideologia corrente, costituendone una rappresentazione fedele, variegata finché si vuole ma sempre legata a questa da una fondamentale consonanza.

Si viene a configurare quindi, oltre al suo ruolo, anche la sua natura, che mostrando la propria artificialità viene ad essere opposta a quella di un vero dio: mentre quest’ultimo è di natura superiore, il divo cerca di salire alla sua altezza, avendo però bisogno degli uomini per la propria affermazione e per il mantenimento del proprio nuovo stato. Uno stato non di certo eterno ma passeggero, transitorio, che è il prodotto – l’emanazione potremmo dire – di un mondo e di un’epoca, vera e propria manifestazione contingente di quello che comunemente viene chiamato lo “spirito del tempo”.

Note

(1) L’esempio limite a riguardo ci è fornito da Giovenale che nella sesta satira ci mostra le matrone romane che smaniano per attori, cantanti, gladiatori e artisti di fama. Notiamo tuttavia che non solo il teatro, ma anche i combattimenti tra gladiatori, così come le corse del circo, nascono con un intento sacrale di notevole importanza e con valori simbolici di grande profondità (ad esempio per il circo si veda l’accurata trattazione di Bachofen nel suo Versuch über die Gräbersymbolik der Alten). La loro degenerazione in spettacoli di mero intrattenimento delle plebi è già presente in età imperiale ed indica un’avvenuta perdita del senso del sacro, riflesso del resto di una già presente ed avanzata fase di decadenza religiosa.

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  1. Stefano
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    Bello davvero, ho trovato sono riuscito a trovare l'argomento della tesina, grazie!

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