Spiritualità cosmica nell’Ellade arcaica

La religione ellenica si presenta come un insieme di culti e di riti che intendono trasmettere nella storia e nella vita quotidiana lo stesso impulso spirituale personificato dalla complessa varietà delle figurazioni divine. La sua rappresentazione religiosa è usualmente costituita dalla mitologia, ossia da un complesso di narrazioni di vicende divine che intendono “spiegare” in una prospettiva mito-poetica il significato del mondo o di singoli momenti di esso. I vari cicli mitologici non sono altro che proiezioni drammatizzate di quegli impulsi spirituali, una loro formulazione plastica che tende a restituire una visione “teologica” all’esperienza che i vari aedi, cantori, indovini o estatici hanno contemplato contemporaneamente come vita cosmica e ritmo divino.

Questo particolare carattere mitico-rituale ha comportato l’inesistenza di un qualsiasi Fondatore divino dal quale possa essersi originata la religione ellenica o che abbia in qualche modo “riformato” alcuni suoi caratteri fondamenti. Da ciò anche il fatto che la vasta rappresentazione mitologica e il complesso dei rituali non si trovano codificati in un insieme di testi sacri da cui poter sviluppare una dottrina religiosa o presso i quali tale dottrina potesse essere custodita e trasmessa senza alterazione. Tale assenza di libri rivelati ha poi permesso che si sviluppasse nell’Ellade la particolare funzione dei poeti i quali nelle loro opere hanno sostituito ciò che altrove veniva esplicato dagli scribi, esaltando particolarmente ciò che si potrebbe chiamare la “visione mitica” a detrimento di una qualsiasi rivelazione divina che potesse essere codificata e, appunto, “scritta”. Questo carattere fa sì che la religione ellenica si presenti non come un corpus dottrinale al quale aderire o al limite convertirsi, ma come una forma spirituale connaturata naturalmente a quel popolo, una “forma formante” che si invera nelle varie  espressioni di vita e dalla quale si può evadere non con un rifiuto, ma cambiando la stessa identità nazionale.

Come ulteriore conseguenza tutto ciò ha comportato il tipico atteggiamento di perpetuazione di usi, costumi e rituali ancestrali, di conservazione di un patrimonio religioso che viene trasmesso come elemento di identità e di custodia di un ordine la cui origine si confonde con quella stessa del popolo ellenico. Da ciò anche il carattere fondamentalmente conservatore di questa religione, presso cui l’aderenza alla tradizione esprimeva l’unico criterio di ortodossia e che rendeva “attuale” e “storica” la lotta per l’ordine tradizionale contro ogni forma di disordine. Questa storicità è una delle peculiarità della religione ellenica ed è determinata dallo stesso scenario mitologico tradizionale. Qui, infatti, la nascita del popolo ellenico va a confondersi con la stessa religione. Le origini nazionali non sono altro che un momento dello svolgimento della genealogia divina, una sua modalità di determinazione storica che ad un certo punto, come sembra indicare in modo specifico il mitologema di Hellenos sul quale torneremo, ha visto il “trapasso” del divino nell’umano di una particolare essenza divina, per di più tesa ad esplicitare la funzione di un ordine cosmico che il nuovo ciclo aperto da Deucalione dovrà realizzare.

La funzione del mito all’interno della spiritualità ellenica appare fondamentale. Il termine mythos si ritrova con significati vari all’interno della storia religiosa ellenica con utilizzazioni diverse e spesso persino opposte. Secondo molti esegeti diventa meno evidente rispetto a quanto ritenevano i classicisti dell’Ottocento una derivazione semantica di mythos da myēo, anche se ovviamente tale derivazione continua ad avere una sua forza dimostrativa di non poco rilievo e di forte persuasione. Ultimamente, però, alcuni studiosi appoggiandosi a diverse giustificazioni linguistico-formali, hanno pensato che si possa risalire ad un radicale indoeuropeo *mēudh-, *mudh- col significato speciale di “ricordarsi”, “aspirare a”, “riflettere”. Si avrebbe perciò il mythos quale “pensiero”, ma non riferito al pensare meramente cerebrale che si determina in un discorso logico-esplicativo, quanto piuttosto ad un “pensiero che si rivela”, che viene comunicato da una dimensione superiore a quella del tempo nella quale si consuma la vita umana. In particolare, sarà Omero che in entrambi i suoi poemi ci darà un “pensiero” (= mythos) che viene elaborato, un’idea, un “principio” che deve essere svelato.  Si entra così in un’area sacrale che vede il mito in rapporto strettissimo con il rito, con la dimensione “narrativo-esplicativa” di una condizione spirituale che è possibile esperire nell’atto rituale o nell’ispirazione estatica. E’ l’esperienza del veggente omerico che svela ciò che “ha visto con meraviglia”, quando lo spettatore, la cosa contemplata e l’atto del vedere diventano una thēoria, una “visione” la cui condizione l’aedo omerico esprime sì con la parola (è uno dei significato di mythos), ma con una parola che recita e “rappresenta” l’essere del mondo, tesa più ad incantare l’ascoltatore trasportandolo nel pieno dell’età eroica che a “raccontare” fatti, cosa che dà significato non transeunte all’uso ellenico di recitare brani di Omero durante alcune rappresentazioni rituali.

Fra i tanti mitologhemi più antichi dell’Ellade un interesse particolare può avere la constatazione che assieme ad Helios, quali figlie di Iperion e di Tia (“la divina”) troviamo anche Selene ed Eos, l’Aurora celeste. Va detto subito che i miti relativi ad Helios sono giunti in modo frammentario a tal punto che si è autorizzati a pensare che ci si trovi di fronte a cicli diversi intersecantisi e confusi l’un l’altro. Tale per es. la curiosa storia riportata da Ateneo che raccontava del viaggio di Helios fatto al tramonto in una coppa d’oro fino a raggiungere la mitica Etiopia. Quello che può interessare è che etimologicamente “etiopia” deriva dalla radice *aith- col significato di “bruciare” e di ”risplendere”, dato che qui tale radice include il senso di “fuoco che brucia” e perciò “risplende”. Si allude perciò ad una terra dove sì la luce risplende, ma di uno splendore di tipo vespertino, occidentale, evidenziato dal fatto che il viaggio di Helios si svolge al tramonto e che il popolo etiope era ritenuto essere non di razza nera, ma rossa, posta dal simbolismo tradizionale sempre ad occidente, al crepuscolo del percorso del sole.

Ancora più ricco di significati è il mito riportato da Omero nell’Odissea, là dove si fa menzione delle due figlie di Helios: Lampetia, “colei che illumina” e Faetusa, “colei che risplende”, le due divinità che custodiscono i 350 buoi del sole nell’isola di Trinacria. Secondo Bâl G. Tilak qui si ha una precisa allusione ad un antico anno di 350 giorni che verosimilmente doveva essere seguito da una notte cosmica di 10 giorni, ossia la durata dell’anno propria ad alcune regioni circumpolari, “là dove si compiono le rivoluzioni del sole”, ricorda ancora Omero (Od. XV, 403 e sgg.). E l’ipotesi acquista maggiore luce ove si consideri che queste due figlie di Helios presentate da Omero come le custodi dell’anno artico, personificano rispettivamente la luce che ne “illumina” l’inizio e la luce che “risplende” al suo compimento, ossia la luce dei due solstizi, quello estivo e quello invernale. Nel mitologhema le due sorelle si trovano ad esplicare la loro funzione di custodia nell’isola di Trinacria che è stata sempre concepita come la proiezione della mitica “terra del sole”. Persino lo stesso simbolo del triskel che graficamente la definisce, secondo le pittografie studiate da Dechélette, non esprime altro che lo stesso movimento del sole considerato nella prospettiva del suo rivelarsi secondo modalità cicliche che si srotolano attorno ad una divisione triadrica dell’anno che ha sostituito quella binaria risalente ad epoche molto più antiche, e ancora non si è stabilizzato nella divisione quaternaria, quella propria all’anno del periodo “classico” dell’Ellade. In un suo aspetto la Trinacria appare come il simbolo della potenza cosmica creativa che si dispiega nel tempo, la sua forza di manifestazione, perciò come uno dei simboli stessi che rivelano come tale potenza si sia inverata in una “terra primordiale”, una “terra originaria”, “solare”.

I miti relativi ad Eos, l”’Aurora” o la “luce aurorale”, sono molto più poveri e già risentono dell’influsso della leggenda eroica. Un altro nome della dèa dell’aurora fu Emera, “il Giorno”, che forse vuole esprimere l’idea di un’intera epoca umana. E sono note le storie di questa dèa della luce aurorale in connessione alla Syria, “la terra del sole” di Omero, oppure quelle relative ai suoi rapporti con Kephalonia, “la terra del centro” dove Kephalos, il Caput celeste, il “punto” cosmico di orientamento di una carta stellare molto antica (e comunque precedente  i rivolgimenti celesti cui accennava Aristotele per spiegare il passaggio del sole dal suo primordiale percorso sulla Via Lattea a quello attuale), si era “sposato” con l’Orsa celeste. Secondo questi miti alle origini gli sposi Kephalos e la Grande Orsa (con i suoi septem triones che trascinano il Grande Carro e lo fanno girare perpetuamente attorno al “perno” del cielo, il polo) si trovavano congiunti nello stesso quadrante cosmico secondo una direttrice che doveva risultare perpendicolare all’asse dell’osservatore allocato nella Kephalonia.

Dalle confraternite degli aedi itineranti, dei thēologoi e dei cosmologi arcaici, quelli che Aristotele radunava sotto la dizione di prōtoi thēologesantes (“i primordiali thēologoi”), probabilmente sono emerse tutti quei veggenti che si esprimevano attraverso il canto e la poesia sacra e, dunque, anche i due massimi cantori dell’antica Ellade, Omero ed Esiodo. Il caso di Esiodo è molto particolare. Non solo trasmette tutta una serie di elementi mitologici di un passato che rimanda ad epoche difficili da determinare, ma il personaggio appare pienamente consapevole del proprio ruolo di Aedo sacro, un cantore ispirato al quale era stato concesso il dono della poesia (= sapienza) che lo scettro d’oro donatogli dalle Muse sembra aver sanzionato in modo definitivo, dato che è detto che sono proprio loro che gli hanno insegnato “uno splendido canto, mentre pascolava gli agnelli ai piedi del sacro Elicona”, e addirittura in una gara poetica vince l’insegna dell’ispirazione apollinea, il sacro tripode che egli poi dedicherà alle Muse. E’ tutto un mondo che può essere ricondotto a forme di conoscenza ispirate che permettono di risalire oltre il transeunte, al “principio”, là dove le varie figurazioni divine hanno preso forma.

Lo stesso Omero può darci indicazioni importanti in questa direzione. Il suo nome, infatti, nel dialetto eolico cumano fu spesso interpretato come “il cieco” e rimanda più che ad un epiteto individuale, ad una attività più generale legata alle ispirazioni divine e alle estasi arcaiche. “Omero” personifica la funzione sacra dell’archegeta delle confraternite degli Aedi, colui che ha ricevuto la capacità di “vedere” oltre i limiti delle apparenze e, come gli indovini guardano al futuro, egli sotto l’ispirazione del dio canta il tempo passato, l’età eroica, “creandone” le espressioni, le gesta, lo scenario. La sua attività rimanda ad una funzione demiurgica tesa ad ordinare la visione ricevuta in uno stato di ispirazione divina e la rivela agli uomini, esattamente come hanno fatto gli Omeridi dell’isola di Chio, quella straordinaria confraternita di cantori la cui fisionomia rimanda agli aedi ispirati che hanno percorso la Grecia in ogni tempo e la cui qualificazione più importante era quella di essere “discendenti” di Omero, più esattamente gli eredi della tradizione dei veggenti omerici.

Esiodo ha conservato anche altri mitologhemi che possono essere fuorusciti da una cosmologia arcaica. Nell’enunciazione delle ère che descrivono il processo di impoverimento che dalla pienezza della spiritualità primordiale conclude nell’età del ferro, egli ci dà il senso di un loro rapporto non meramente cronologico, di successione temporale, ma quale espressione di “qualità” storiche, quali cicli che per la loro completezza, per il loro riflettere un determinato tipo di spiritualità rivelatasi in un tempo preciso, “storico”, in sé non sono legati ai cicli successivi. Questo fondamentale disegno unitario delle ère esiodee è rilevabile anche da un altro punto di vista che riconduce il mito riportato da Esiodo alle più arcaiche speculazioni indoeuropee sulle origini del cosmo. Se, infatti, si considera la successione delle età e delle varie razze che incarnano via via i valori spirituali delle singole ère, avremo il seguente quadro. Prima di tutto si avrà la razza aurea caratterizzata da una pienezza biologica propria al tipo di spiritualità di quel “tempo-fuori-del-tempo”, a-cronico, che in sé delinea la condizione di perfezione originaria cui devono tendere tutte le altre razze da lui individuate come specifiche dei diversi cicli temporali che si svilupperanno dopo la scomparsa della razza aurea. Questa razza primordiale appare perciò come una “totalità” all’interno della quale si realizza l’armonia e la giustizia, mentre la sua perfezione  in modo eminente consente l’espressione piena delle tre attribuzioni classificate da Georges Dumézil come funzioni cosmico-sociali [sacerdozio, forza guerriera e fecondità] che nella prospettiva esiodea sintetizzano ogni gerarchia sociale: gli uomini dell’età aurea saranno “buoni”, “guardiani giusti” e “dispensatori di ricchezza” (Erga, vv. 123-126).

Dopo la fine dell’età aurea e della razza che ne aveva incarnato l’essenza di luce, si succedono altre ère in una progressione che scivola sempre più verso il disordine e una onnipervadente empietà. Dall’età argentea a quella ferrea si ha perciò la delineazione di uno svolgimento progressivo che inizia da uno stato fanciullesco e puerile, poi diventa una dura e spietata giovinezza (gli uomini dell’età del bronzo nascevano “con una grande forza e mani invincibili spuntavano dagli omeri al loro corpo gagliardo”; Erga, vv. 143-149), si stabilizza per un po’ come l’equilibrata maturità degli Eroi e si conclude infine con l’età del ferro, l’èra della vecchiaia (“quando verranno al mondo gli uomini con le tempie candide fin dalla nascita”; v. 181), il crepuscolo del tempo cosmico ed umano. Dall’alba al tramonto dell’essere cosmico. La figura delineata appare quella di un Macrantropo, il prototipo mitico dell’esistenza che in sé contiene in principio le varie possibilità che si svilupperanno nel corso del tempo. Dal suo sacrificio rituale, ossia dalla sua “scomposizione” in ère cosmiche, si determina l’essere del mondo e degli uomini, mentre le razze che secondo Esiodo si susseguono l’una all’altra appaiono come le modalità diversificate di un tutto unitario, le “membra” dell’essere cosmico che si distende nel tempo e i suoi quattro stadi di esistenza.

La concezione di Esiodo non deve essere considerata una sua creazione originale ed individuale, ma va collocata all’interno di teorie cicliche di grande importanza e variamente articolate. La tradizione ellenica, infatti, ci parla di tre successivi cataclismi relativi alla sparizione di Ogygia, al diluvio di Deucalione e a quello di Dardano che avrebbero via via distrutto terre o continenti sui quali regnava l’empietà più profonda. Prescindendo da quelli di Ogygia e di Dardano sui quali ci siamo intrattenuti altrove, qui interessa soffermarci sul diluvio di Deucalione per gli accostamenti e gli sviluppi cui può dar luogo. Esso, infatti, ci riporta al ciclo dei titani per il semplice fatto che Deucalione risulta essere il figlio di Prometeo il quale, a sua volta, era stato concepito dal titano Giapeto e dall’oceanina Climene. Da questa unione era nato anche un secondo figlio di Giapeto, un fratello di Prometeo,  il famoso Atlante considerato il padre delle Esperidi, di Maia e della Plèiadi, ossia tutto un gruppo di esseri divini che si appoggiavano a precise costellazioni celesti poste sempre ad Occidente, mentre la tradizione ci dice che Zeus, a chiusura del ciclo spirituale precedente, pose entrambi i fratelli a presiedere i due poli opposti del mondo. Atlante presidiava l’Occidente e Prometeo l’Oriente, secondo un asse equinoziale che sostituisce il più antico asse solstiziale nord-sud e costituisce una precisa indicazione sull’esistenza nell’Ellade arcaica di dottrine sui cicli cosmici formulate secondo una narrazione che interpretava in termini mito-poetici un’antica tradizione sacra sulla strutturazione dei movimenti celesti.

Alla fine dell’età del bronzo, a causa della tracotanza ed empietà di quella razza Zeus volle un diluvio che ne cancellasse ogni traccia. Su consiglio del padre Deucalione e sua moglie Pirrha costruirono un’arca nella quale posero ciò che doveva essere salvato dal diluvio. Dopo nove giorni e nove notti durante i quali il diluvio distrusse la civiltà della razza bronzea, approdarono finalmente sul Parnaso dove finalmente sacrificarono a Zeus e così diedero inizio ad un nuovo ciclo. La titanessa Themis, la stessa che sarà soppiantata da Apollo a Delfi, enuncia in forma di enigma un oracolo che, avveratosi, costituirà l’origine stessa del genere umano. Gli elementi fondamentali del mito si possono considerare:

  1. L’arca che custodisce i germi della sapienza dei cicli spirituali precedenti;
  2. Deucalione e Pirrha che per la loro genealogia perpetuano in qualche modo anche aspetti importanti dell’età primordiale e perciò impediscono che ci sia una vera e propria rottura col mondo precedente;
  3. Il sacrificio a Zeus sul monte, l’axis mundi che diventa il luogo originario della nuova civiltà;
  4. L’oracolo di Themis, che permetterà la nascita del genere umano;
  5. La forma di enigma dell’oracolo.

Secondo la forma più conosciuta del mito, il figlio della coppia Deucalione-Pirrha (= il “Bianco” e la “Rossa”) scampata al diluvio sarà Hellenos il cui nome etimologicamente può essere ricondotto a “splendere”, “luce”, che secondo Jean Haudry darà come significato “colui che ha il viso solare” e perciò la sua discendenza, quella che formerà il nucleo essenziale delle diverse tribù greche, sarà propriamente il “popolo del sole”. Se ora poniamo mente al fatto che Helios è spesso rappresentato con sette raggi e che in India il settimo Aditya è Surya, il sole, ci si accorgerà che il parallelismo India-Ellade arcaica ha più di un punto di contatto e trova la sua ragione d’essere probabilmente nelle condizioni spirituali originarie dalle quale ha preso forma l’Ellade come noi la conosciamo in piena epoca del ferro.

Nell’ambito di questi cicli mitologici antichissimi può porsi anche l’orfismo la cui struttura misteriosofica ricalca forme di spiritualità cosmica del tipo che è possibile rinvenire per es. anche nell’India vedica o in certi aspetti della soteriologia tantrica. Le dottrine orfiche appaiono strutturate già a partire dal VII-VI sec., quando il bìos orphikòs costituirà un riferimento costante nel patrimonio speculativo dei filosofi e persino dei molti ciarlatani, ed è facile trovare quei thēologoi e quegli orfeotelesti accennati da Platone che ci documentano una massiccia presenza orfica nel mondo religioso e nella società dell’Ellade storica.

Una versione delle tante cosmogonie orfiche ci presenta quale entità primordiale la Notte dalla quale scaturiscono gli esseri divini, perciò in qualche modo una sorta di originaria scaturigine del tutto. E’ da questo principio che procede l’Uovo cosmico che, simile al Brahmanda indù, col suo scomporsi rende manifesti il cielo e la terra e, soprattutto, Phanes, l’Essere Primordiale “luminoso”, lo “splendente”, l’archetipo universale da cui promana ogni esistente, il Protogonos colui che contiene in sé la stesso i germi della manifestazione universale. Lo straordinario di questa struttura teo-cosmogonica estremamente arcaica è il fatto che tali concezioni furono concepite come supporti di una elaborata misteriosofia che affascinò personaggi come Platone e che appare piuttosto distante dalle usuali convinzioni elleniche sugli dèi olimpici e sulla relativa loro vita rituale. Ma c’è di più. Un’antica testimonianza riportata da Otto Kern (fr. 21a) e sviluppata nelle sue implicazioni escatologiche da Richard Reitzenstein, ci dice che secondo gli orfici l’universo era ritenuto il “corpo visibile” di Zeus, il quale perciò era ritenuto l’inizio, il mezzo e il fine del cosmo. Tale figurazione orfica di Zeus (che evidentemente non ha nulla dello Zeus olimpico) è contemporaneamente “uomo e donna”, un principio androginico dal quale si origina autonomamente per autogenesi il cielo, la terra e gli elementi fondamentali della vita cosmica, il vento, l’acqua, il fuoco, il sole, la luna. Come ha fatto notare Ugo Bianchi, questa concezione deve riflettere idee molto antiche se ancora nel VII sec. Terpandro testimonia la loro vitalità, forse come idee scaturite da forme rituali da riferirsi addirittura al passato indoeuropeo ove si accetti l’ipotesi di Anders Olerud, poi sviluppata da Geo Widengren nel capitolo sul panteismo del suo poderoso manuale di fenomenologia religiosa, sull’arcaicità dell’idea di microcosmo e di macrocosmo e sulla corrispondenza simbolica di queste due sfere in una struttura formale che abbia ben chiari i diversi stati molteplici dell’essere.

E’ la dottrina del Macrantropo dal cui sacrificio rituale si origina il cosmo, la stessa che abbiamo visto serpeggiare anche nella visione esiodea dei cicli cosmici e che, formulata in vario modo, si ritrova nelle cosmogonie e nelle dottrine sacrificali di molti popoli indoeuropei. Ma questo è un altro discorso che si intende riprendere in un apposito studio.

Per approfondire:

F. Vian, La guèrre des Geants. Le mythe avant l’èpoque hellènistique, Paris 1952.

N. D’Anna, Da Orfeo a Pitagora. Dalle estasi arcaiche all’armonia cosmica, Simmetria, Roma 2011.

N. D’Anna, Il Gioco cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006.

[Tratto, col gentile consenso dell’Autore, da “Atrium” 2/2011].

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