Quel sublime socialismo dei poeti e degli artisti preraffaeliti

M. Teresa Benedetti, I preraffaeliti Erano artisti e poeti, amavano la bellezza struggente, il dettaglio prezioso, la cura raffinata degli ambienti. Rappresentavano una natura insieme fantastica e realistica, descrivendo con tratti forti e deliziosi le più sognanti espressioni del volto umano: i membri della Confraternita dei preraffaeliti, associazione nata a Londra alla metà del secolo XIX, erano esteti colti, nemici della mediocre società vittoriana, ostili a quel volgare mondo degli affari e dell’arricchimento che stava assumendo intorno a loro i caratteri dell’ormai trionfante flagello capitalistico. Sognavano il ritorno al Trecento e al Quattrocento italiani: il Beato Angelico, Luca Signorelli, Filippino Lippi, la città medievale, una società ordinata e apparentemente serena, un mondo ritmato sull’uomo, l’amore per il bello… Volevano riandare a quelle madonne fiorentine delicate, di armonicissima proporzione e di aggraziatissimo tratto, che erano in fondo le donne di tutti i giorni, che i nostri antichi pittori potevano incontrare per strada, figure di popolo, ma di un popolo nobile, insieme severo e giocoso, gente come attraversata da un innato senso dell’armonia. E ripensavano a quella natura di sfondo, tersa, luminosa, arricchita dal gioco delle dolci prospettive: gli sfondi di un Benozzo Gozzoli, le colline e gli alberelli di un Perugino, la nostra terra, le nostre campagne, ancora riconoscibili alla prima occhiata: la pittura, insomma, precedente Raffaello (da cui il nome del sodalizio), prima che ci si inoltrasse nel trionfalismo incommensurabile del tardo Rinascimento.

I preraffaeliti erano innamorati dell’Italia, di Firenze specialmente, rappresentavano un Medioevo fantastico, nobile e magico, dipingevano soggetti storici, religiosi, letterari, allegorici, ispirandosi a Dante, alle fiabe popolari, alla romantica poesia di un Keats, agli stilnovisti, alla tradizione più alta di bellezza, alla profondità di sentimento della nostra cultura europea, e italiana in particolare. Tra di loro, figure di spicco. E, immancabile, un italiano: Dante Gabriele Rossetti, famoso pittore ed esoterista, studioso di Dante, nato a Londra da un patriota esule, fu tra i primi e più importanti animatori della Confraternita. Poi il grande critico d’arte John Ruskin, che ne diventò una sorta di patrono. Poi William Morris. Con lui la Confraternita dei preraffaeliti assunse in seguito un tono più impegnato, l’arte fu inquadrata in un vero disegno ideologico, dove una forma di populismo romantico si sposò con il socialismo utopistico, che aveva grandi tradizioni in Inghilterra.

M. Ciacci, G. Gobbi Sica, I giardini delle regine. Il mito di Firenze nell'ambiente preraffaelita e nella cultura americana fra Ottocento e Novecento. Catalogo della mostra (Firenze, 2004) L’ideologia preraffaelita, per così dire, nella sua semplice sintesi, era geniale. L’idea del sublime, del lusso, delle cose belle, preziose, e poi dei modi gentili, dello stile raffinato, della situazione sospesa come in incantamento, colta nella magia di ambienti simbolici. Accanto a questa, l’idea speculare del popolo nobilitato da un lavoro a dimensione umana, un popolo non solo artigiano, quindi arricchito dalla bellezza del proprio mestiere d’arte, ma anche artefice. Nati nel pieno degli eccessi del capitalismo, che proprio nell’Inghilterra dell’Ottocento stava costruendo il suo potere sulla miseria e lo sfruttamento di masse di diseredati, schiavizzati dal lavoro di fabbrica, i preraffaeliti svilupparono una loro sensibilità sociale, ma estranea al freddo economicismo marxista. Il loro era un socialismo neanche umanitario, ma populista, anzi patriottico, romantico, quasi mitico. Come i contemporanei Nazareni tedeschi, che erano influenzati dalle teorie di Schlegel e Wackenroder nemiche dell’accademismo e favorevoli a ispirazioni religiose e patriottiche, i preraffaeliti volevano una sorta di socialismo estetico creato sulla base dell’artigianato diffuso. Per meglio dire: la socializzazione della bellezza. Sembra di sentire la voce di D’Annunzio, anticipata di qualche decennio. Morris, ad esempio, proponeva una specie di nuovo corporativismo, una società fondata sul lavoro artigiano. La socializzazione del lavoro, e dunque anche dell’arte. L’artista come elemento di reazione all’alienazione sociale e psicologica causata dal capitalismo. L’artista come artefice, come artigiano di rango, che si realizza a tutto tondo nell’insieme delle arti cosiddette “applicate”: sculture, quadri, architetture, vetrate, ma anche arazzi, stoffe, oggetti d’arredamento, mobili, tappezzerie: il tutto circonfuso di quel gusto neo-gotico, neo-medievale, di grandissima raffinatezza, che a noi italiani ricorda il decorativismo che fu di moda a cavallo tra Otto e Novecento, l’epoca per l’appunto “d’annunziana”.

Morris, che morì alla fine dell’Ottocento, aveva una casa, la Red House, che rappresentava il suo ideale: ovunque la ricercatezza per il dettaglio, dal mobile al soprammobile, dalle incisioni agli ornamenti, alla scelta degli speciali caratteri gotici, con cui volle ristampare le opere di Geoffrey Chaucer, impreziosendole con ricchi fregi ornamentali. Tutto questo, unito al gusto pittorico per le scene storiche, per una bellezza femminile trasognata, per ambientazioni fantastiche, rielaborando gli schemi di un medioevo mitico, ci ricorda da vicino i nostri Adolfo De Carolis, Gaetano Previati, Galileo Chini, il gusto floreale, la pittura simbolista, la decorazione liberty. Aspetti di un’arte che poi avrà le sue ricadute sulle avanguardie, se solo si pensa, ad esempio, che Previati ebbe non poca influenza sul futurista Boccioni. E che i preraffaeliti furono i maestri dell’Art Nouveau e dei Simbolisti. La genialità e la nobiltà di questi ideali – di cui D’Annunzio fu il massimo rappresentante europeo, erede in qualche modo dei preraffaeliti, ma di loro tanto più capace di produrre idee armate – riposava sull’offerta dell’arte alla dimensione del popolo. Il “socialismo” di Morris consisteva nel generico rifiuto della società capitalistica e nella volontà – altrettanto generica – di promuovere quella che veniva chiamata “arte integrata”, cioè a dimensione dell’uomo e del suo ambiente, nel rispetto della storia, della tradizione, degli stili e della natura. C’era inoltre in Morris il convincimento che il lavoro comunitario, anche in ambito artistico, fosse la condizione migliore per favorire l’affermazione della creatività individuale. L’idea dei preraffaeliti di un’elevata e ricercata arte di popolo, di restituire al lavoro artigianale di alto livello il ruolo di perno sociale strappatogli dall’avanzante industrialismo, fu un frutto generoso, ma metapolitico, impossibilitato a trasformarsi in concreta proposta politica.

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Tratto da Linea del 16 maggio 2004.

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2 Responses

  1. Valeria
    | Rispondi

    bello questo articolo, si tratta di una tesi?

  2. Centro Studi La Runa
    | Rispondi

    @Valeria: no, si tratta di un articolo, che venne originariamente pubblicato sul quotidiano Linea del 16 maggio 2004.

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