Se ci sei, batti un colpo

Durante la Repubblica Sociale c’era un “partito dei direttori”. Pensavano che bisognasse finirla coi metodi rigidi del Ventennio. Che si dovesse democraticizzare il Partito, che bisognasse stimolare la libera dialettica, soprattutto che le riforme sociali annunciate a Verona dovessero senz’altro essere attuate alla svelta. Erano per un Fascismo “di sinistra”, aperto, non oligarchico. I loro antagonisti erano specialmente Pavolini e Farinacci, che invece propugnavano la linea dura, almeno finché fosse durata la guerra. Parliamo di alcuni tra i direttori di giornale più famosi e autorevoli dell’epoca: Mirko Giobbe de “La Nazione” di Firenze, Carlo Borsani della “Repubblica Fascista” di Milano, Ezio Daquanno de “Il Lavoro” di Genova, Ugo Manunta de “Il Secolo-La Sera” di Milano, Giorgio Pini de “Il Resto del Carlino” di Bologna e Concetto Pettinato de “La Stampa” di Torino. Con pochi altri minori, erano un po’ un gruppo di pressione e rappresentavano una delle due linee principali interne alla RSI. Li diremmo le “colombe” rispetto ai “falchi”, filo-tedeschi a tutta prova e fedeli a un’idea di partito più vicina all’Ordine, all’aristocrazia scelta di credenti e di combattenti.

Avvicinamento al popolo, ammorbidimento dei toni oltranzisti nei confronti dei partigiani per smussare gli odii fratricidi, pieno aperturismo verso gli a-fascisti, promozione delle iniziative sociali, anche quelle spicciole quotidiane, un occhio di favore alla rappresentaza del lavoro e soprattutto alla riforma socializzatrice. Questo grosso modo il quadro. I referenti politici di questo ambiente erano pochi, ad esempio il ministro della Giustizia Pisenti o Barracu, il sottosegretario alla Presidenza: un po’ deboli. Difatti, il “partito dei direttori” non andò mai molto lontano, anche se riscosse ampie simpatie e fu al centro di qualche disegno di potere. Per lo più inteso a sostituire Pavolini – del resto, a Verona proclamato Segretario solo provvisorio del PFR – con qualche elemento meno intransigente. Per dire: quando, nell’aprile ‘44, Giobbe ricordò polemicamente a Pavolini questo dettaglio, il risultato fu la sua pronta estromissione dalla direzione de “La Nazione”. E quando, nel giugno seguente, Pettinato scrisse sulle colonne de “La Stampa” il famoso articolo Se ci sei, batti un colpo – che intendeva dare la sveglia al Partito e allo stesso sonnacchioso Mussolini di fronte allo sgretolamento del Fascismo in quel momento tragico (occupazione di Roma, aumento dell’attività partigiana, sbarco in Normandia, sfondamento sovietico a est…) – il risultato fu la sospensione di Pettinato per circa un mese.

Ritroviamo queste vicende ripercorse da Giuseppe Parlato in un’ottima introduzione alla pubblicazione di tutti gli articoli scritti da Concetto Pettinato per “La Stampa” nei mesi di Salò. Più di cento pezzi, tra cui anche alcuni mai apparsi e a suo tempo censurati. Un vero scoop editoriale, dovuto all’Editrice Scarabeo di Bologna, che colma una vecchia lacuna. In effetti, Pettinato fu durante la RSI una figura autorevole, i suoi articoli facevano tendenza, come si dice; erano seguiti anche all’estero – dove il giornalista siciliano era ben conosciuto – e insomma era uno in grado di incidere politicamente. Tanto che, quando uscì il suo articolo più noto, le cronache riportano le furiose polemiche tra fascisti, ma anche l’apprezzamento che raccolse negli ambienti moderati, che aspettavano da qualche parte che qualcuno facesse un gesto distensivo, per placare la catena d’odio che si era già messa in moto avviando la guerra civile. Ma evidentemente non era quello, nel giugno ‘44, il momento per fare gesti distensivi. Mentre ogni giorno cadevano i fascisti colpiti a freddo alle spalle, come nel caso di Ather Capelli, direttore della “Gazzetta del Popolo” di Torino, aveva davvero poco senso, probabilmente, offrire la mano al carnefice. Che sentiva vicina la vittoria con l’avanzare degli Alleati e non aveva nessuna voglia di rinunciare alla caccia grossa finale.

Parlato riporta, tuttavia, che l’articolo di Pettinato ebbe il potere di galvanizzare anche il Fascismo radicale e rivoluzionario: «in particolare quello torinese: una nota di polizia metteva l’articolo in diretto rapporto con le riunioni che gruppi dissidenti del fascismo subalpino, guidati da Toniolo e da Bodo, avevano tenuto per realizzare un più diretto rapporto dei fascisti con la città e per realizzare un programma effettivamente sociale e rivoluzionario». Infatti, a dire il vero, Pettinato fu una “colomba” per modo di dire. Aveva idee precise circa un Fascismo “di sinistra” di tipo giacobino, seguendo la sua antica ideologia mazziniana, risorgimentalista e nazionalista. Recisamente anti-americano già dall’anteguerra e con un occhio indulgente verso lo stalinismo, giudicato – come da più parti si era fatto durante il Ventennio – più un socialismo nazionale in fondo affine al Fascismo, che non un comunismo barbarico, Pettinato, nel suo ultimo articolo, dedicato al destino dell’Europa – gennaio 1945 – scrisse che «i due pretesi poli opposti del totalitarismo, il rosso e il nero, sono stretti parenti… fascismo e sovietismo sono due facce della stessa medaglia… il loro nemico, in ogni caso, è il medesimo…».

Non era un’idea disperata dell’ultim’ora. Già prima della guerra, Pettinato – che giunse tardi al Fascismo, e da un liberalismo “giolittiano” che non lasciava presagire i futuri oltranzismi antiborghesi – aveva colto in pieno i motivi geopolitici della prova che si stava avvicinando. Una guerra rivoluzionaria delle nazioni “proletarie” avrebbe regolato i conti con la potenza imperialistica inglese, permettendo all’Italia, al tempo stesso, di contenere il dilagante dinamismo tedesco. Nel 1939, quando fu espulso da Parigi dove si trovava come corrispondente estero da circa vent’anni, si convinse dell’esistenza di una congiura mondiale capitalistico-massonica, che si preparava a far pagare all’Italia il suo tentativo di entrare nel club della grande politica. La guerra avrebbe dovuto essenzialmente presentarsi – alla maniera di un Corradini – come una insurrezione sociale contro i dominatori del mondo, i borghesi e i capitalisti anglosassoni. Questi temi vennero potenziati e rilanciati durante la RSI. Libero dai cascami conservatori, il Fascismo avrebbe potuto finalmente scatenare una guerra di popolo di sapore neo-risorgimentale, anzi, giacobino, passando all’eliminazione di quei poteri, come la monarchia e il capitalismo, che per vent’anni avevano impedito al Fascismo di essere davvero se stesso.

Parlato scrive che Pettinato, nell’assumere la direzione de “La Stampa” nel novembre del 1943, precisò direttamente ad Agnelli i suoi punti fermi: processo alla borghesia, lotta al capitale, da sempre filo-inglese, favoreggiamento della creazione di un blocco antiplutocratico italo-tedesco da estendere alla Russia, lancio di un programma circa la nuova Europa anti-americana, infine indulgenza verso i fascisti del Ventennio, senza regolamenti di conti. Come sottolinea Parlato, nelle linee essenziali, non era nulla di diverso dal programma, presentato da Ugo Spirito a Mussolini sin dal 1941, circa la “guerra rivoluzionaria” per il nuovo ordine. In un articolo del gennaio ‘44, Pettinato scrisse che «il vero nemico è, per noi come per la Russia, il capitalismo liberale, il regime dello sfruttamento illimitato del lavoro e dell’illimitato profitto del capitale».

Considerava fondamentale che la socializzazione diventasse un fatto compiuto. Solo così il popolo si sarebbe reso conto da che parte stava il Fascismo, e sarebbe accorso nelle sue file. Un po’ ingenuamente – lo diciamo col senno di poi – Pettinato pensava a una specie di repubblica giacobina che, pur avendo tutti contro, avrebbe finito col fare breccia nel popolo e con questo, in maniera travolgente, afferrare la vittoria: solo così, «avremo con noi tutto il popolo». Il sogno non si avverò, non ci fu una seconda Valmy. Dall’altra parte non c’erano svogliati e invecchiati eserciti dinastici, ma un’alleanza di ferro tra le maggiori potenze industriali del pianeta. Al punto in cui stavano le cose, non sarebbe stata una “leva in massa” alla giacobina a ribaltare la situazione militare. Ne è riprova la mobilitazione tedesca attuata sul fronte orientale negli ultimi mesi di guerra: la creazione del Volksturm non ottenne apprezzabili risultati sul piano strategico.

Battere pesante sul tasto sociale avrebbe potuto, però, cambiare la situazione politica. Ma il “popolo lavoratore” alla fine resterà ottuso di fronte agli stimoli socializzatori, già gli ronzava nelle orecchie una sirena più grande, il comunismo che arrivava da lontano sui carri armati dell’Armata Rossa. Il “popolo lavoratore” rimarrà inerte persino quando, nel 1945, i suoi capi comunisti gli toglieranno quel poco o tanto che il Fascismo aveva realizzato. E dalla partecipazione agli utili, dal lavoratore-azionista, dal consiglio di fabbrica, il proletariato passò in un lampo e senza battere ciglio alla repressione reazionaria del capitalismo anni Cinquanta.

Queste cose Pettinato, allora, non poteva saperle. Fino all’ultimo ebbe fiducia, come scrive Parlato, nel «mito della socializzazione… come un fatto rivoluzionario, in grado di modificare radicalmente i rapporti sociali e di trasformare definitivamente il proletariato nell’anima della nazione». Quando la tremenda estate del ’44 finì, l’autunno portò un po’ di tregua. Fu in questi mesi che si poterono registrare le ultime fiammate di Salò. L’arresto dell’avanzata alleata, il calo del movimento partigiano, qualche successo della socializzazione tra gli operai, la nascita del Fascismo clandestino nell’Italia occupata, la situazione disastrosa in cui versavano le zone sotto amministrazione militare angloamericana: aspetti positivi per il morale. La RSI rimaneva in piedi, la burocrazia funzionava, il Partito teneva, la vita civile continuava, non ci furono disordini.

Ma anzi, nelle giornate milanesi di Mussolini, un ultimo clamoroso sussulto di ottimismo e di entusiasmo. Alla fine, Pettinato trovò il modo di farsi esautorare definitivamente. Un altro articolo contestato, un’intervista con Cione, l’eretico crociano che voleva fondare un partito di opposizione, l’inimicizia di Farinacci, costarono a Pettinato l’allontanamento, nonostante che il nuovo Ministro del Lavoro Spinelli e le commissioni dei lavoratori de “La Stampa” avessero manifestato in suo favore. Il tempo stringeva. Siamo nel marzo 1945. Poi più nulla. Visto a distanza, Pettinato è un bel rebus. Come dice Parlato, si presta ad essere frainteso. Anti-massone, ma in gioventù liberalconservatore; di sinistra, ma anti-sindacalista; radicale, ma aperturista; anticlericale, ma a suo modo religioso; giacobino ma, prima dell’8 settembre, anche monarchico. Sempre antiamericano e sempre nazionalista. Insomma, un fascista.

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Tratto da Linea del 8 agosto 2008.

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