La rivincita di Confucio

Simon Leys, La foresta in fiamme. Saggi sulla Cina “La Cina è un giallo”: così, con garbata ironia geopolitica, la rivista “Limes”, consacrata allo studio degli equilibri internazionali, titolava uno dei suoi primi quaderni, dedicato appunto alla immensa nazione “gialla” e alle incognite del suo sviluppo. Il titolo del libro di Simon Leys (La foresta in Fiamme, edizioni Le Lettere) è meno ironico e più poetico: la citazione che essa contiene rimanda alla favola di un letterato cinese del Seicento, Zhou Laian Gong. Un giorno una immensa foresta improvvisamente andò in fiamme. E uno stormo di uccelli, che da sempre vivevano tra i rami degli alberi, si alzò in volo e corse verso il fiume più vicino: i pennuti bagnarono le loro ali e frenetici si lanciarono tra le fiamme, scrollando gocce d’acqua sull’incendio. Dio disse agli uccelli: “Il vostro gesto è commovente, ma inutile; non riuscirete mai a spegnere il fuoco”. “Lo sappiamo – risposero gli uccelli – ma quella foresta da sempre ci ha dato ospitalità e ci strazia il cuore vederla così devastata”. Il grande sinologo belga, Simon Leys, in un periodo in cui si magnificano le prodezze economiche, tecnologiche e le esibizioni “muscolari” della potenza cinese è portato, dalla sua formazione culturale e dalla sua esperienza sul campo, a rimarcare i grandi scempi che la Cina ha inflitto a sé stessa nel corso del XX secolo. O per meglio dire: gli scempi che il partito comunista cinese ha inflitto a una popolazione succube e rassegnata.

In un certo senso Leys nel suo saggio guarda alla Cina e al maoismo con lo stesso occhio, stupito, ma attento a distinguere, che è proprio di molti germanisti quando studiano la Germania e hanno cura di distinguere il patrimonio secolare della cultura tedesca dal raptus distruttivo del nazional-socialismo. Il paragone tra Hitler e Mao (che con il suo “grande balzo in avanti” spinse nella fossa qualche decina di milioni di suoi connazionali) vale peraltro fino a un certo punto. Il regime hitleriano conseguì i suoi successi in campo economico e militare nei primi 8 anni, poi spinse la Germania verso il baratro di una guerra su tre fronti. Al contrario, il regime maoista nella sua fase iniziale compì i suoi crimini più nefandi; successivamente esso si impose come elemento “stabilizzatore” del continente-Cina. Mao da leader rivoluzionario fallito divenne “uomo d’ordine”: un brutale “ultimo imperatore” capace di restaurare un principio di autorità, quale che esso sia.

Leys spiega con dati molto precisi i termini del tragico fallimento dell’esperimento comunista in Cina, spiega anche il modo con cui gli epigoni della “rivoluzione” hanno mummificato la figura di Mao, hanno cancellato gli aspetti più pazzeschi della sua “rivoluzione culturale” e oggi hanno aperto una nuova pagina nel volume millenario della Cina, conservando del vecchio comunismo solo l’irrefrenabile pulsione autoritaria.

Giuseppe Tucci, Apologia del taoismo A parte i milioni di morte per fame, il “Grande balzo in avanti” colpì fisicamente cento milioni di cinesi, causando, in coloro che riuscirono a sopravvivere, danni irreversibili per la denutrizione. Leys attinge la sua documentazione da fonti giornalistiche ufficiali della Cina “popolare”! Ma nel contempo sottolinea come in Occidente – e non solo a sinistra – il “fascino” della figura del Grande Timoniere indusse a sottovalutare gli effetti della applicazione del maoismo alla società. Fu ad esempio la BBC a negare apertamente quello che si vedeva con gli occhi per migliaia di chilometri quadrati: ovvero il sovrapporsi funesto di fanatismo politico e fallimento sociale. A Leys forse sono ignote alcune miserie della “cultura italiana”: altrimenti avrebbe potuto citare anche le esaltazioni semantiche dei “fumetti di Mao” compiute da Umberto Eco nei primi anni Settanta, oppure la sincera convinzione di Franco Basaglia che in Cina i malati mentali fossero soavemente curati con la lettura del pensiero di Mao… come dire: una cura omeopatica.

Ciò che distingue il libro di Leys da tanti “Libri neri” oggi in voga è lo spessore dell’analisi sociologica ed anche il lievito dell’approfondimento culturale. Leys spiega come il partito comunista sia sopravvissuto alla bancarotta smussando le connotazioni più propriamente ideologiche e rifluendo in quella forma di tipico autoritarismo che regge la vita sociale cinese da millenni. Oggi in un piccolo villaggio di campagna il segretario del partito comunista rappresenta la versione aggiornata dell’antica autorità familista. Confucio ormai si appresta a maturare la sua facile vendetta sulle stravaganze esotiche di Carlo Marx.

Insomma, la Cina che si affaccia nello spazio, contendendo agli USA il diritto di colonizzarlo, è una Cina che, nel campo dei valori, fa un passo indietro rispetto al fallito esperimento marxista. Oggi la mummia di Mao è venerata come per millenni si è venerato il corpo degli imperatori.

Leys conclude la sua raccolta di saggi con argomenti più soavi: con una trattazione sull’ideale cinese di pittura e sul gusto tipicamente cinese per la calligrafia. La pittura cinese si concentra sul paesaggio, ma non in termini “realistici”, occidentali. Nel paesaggio cerca di cogliere una forza sottile, che soffia come un vento inafferrabile: è il Qi. L’energia primordiale che anima la terra e il corpo umano. Il soffio del Qi, l’innarrestabile energia cinese, ritorna oggi a soffiare tra le tubature arrugginite della macchina maoista.

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Simon Leys, La foresta in fiamme. Saggi sulla Cina (IBS) (BOL) (LU)

Tratto da L’Indipendente dell’11 marzo 2007.

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