Le radici dell’Europa

radici-culturali-e-spirituali-dell-europa L’attuale dibattito sulle radici spirituali dell’Europa ha assunto, inevitabilmente, i tratti della farsa. Vedere il partito laico, massonico, tardo-illuminista scontrarsi in singolar tenzone con la fazione neoguelfa, clericale e reazionaria è uno spettacolo paradossale cui avremmo volentieri voluto evitare di assistere. Di certo il processo di presa di coscienza di una nuova identità continentale da parte degli europei non ne ha guadagnato. La confusione, anzi, regna sovrana ed è sicuro che gli esponenti dei due schieramenti sopra citati difficilmente potranno soddisfare il bisogno di chiarezza che si avverte a riguardo. Il saggio di Giovanni Reale sulle Radici culturali e spirituali dell’Europa ha esattamente la pretesa di mettere ordine nel dibattito in corso. “Una comunità – dice Reale – ha radici culturali e spirituali che trascendono i principi razionali puramente astratti e la dimensione delle leggi giuridiche ed economiche. […] La ‘casa europea’ non può dunque essere costruita in maniera adeguata se non viene costruita nell’anima stessa dell’‘uomo europeo’”. Parole sacrosante. Resta però il problema di uscire dalla genericità ed affrontare in concreto la questione. Questione di non facile soluzione, a cui l’autore sa dare risposte esaurienti solo in modo molto parziale. Vediamo perché.

Le radici greche

Le radici cui il titolo del libro fa riferimento sono per Reale sostanzialmente tre: la filosofia greca, il Cristianesimo e la “rivoluzione scientifica”. Partiamo dalla prima. La visione che Reale ha del mondo greco è fortemente selettiva, almeno da tre punti di vista. Innanzitutto, Reale evita accuratamente di considerare la civiltà greca come un momento – seppur particolarmente luminoso – della più vasta avventura storica indoeuropea. Questo, probabilmente, per una sorta di tributo al “politicamente corretto”. Il carattere per nulla innocente degli studi sugli indoeuropei è infatti noto e l’isteria che si scatena a riguardo da parte dei corifei del pensiero dominante ogniqualvolta si parli dell’argomento in termini non solo linguistici ma anche etnici lo testimonia (1). In secondo luogo, il pensiero greco di cui ci parla Reale si riduce sostanzialmente a Platone ed Aristotele. Non è poco, si dirà. Vero. Ma non è nemmeno tutto. Fino a prova contraria la Grecia è anche Eschilo e Sofocle, Eraclito e Pitagora, i misteri di Eleusi ed i culti dionisiaci. E, soprattutto, la Grecia è Omero, il vero padre fondatore della cultura europea. Sorvolare su tutto ciò come se si trattasse di figure di una grecità arcaica ed inautentica, ancora impastata di superstizione e oscurantismo pre-filosofico, ci sembra sinceramente assurdo. In terzo luogo, Reale dimentica di far notare come negli stessi Platone ed Aristotele da lui abbondantemente citati siano presenti argomenti assolutamente irriducibili all’ethos moderno, liberale ed individualista. Si pensi solo all’esegesi del pensiero platonico operata da studiosi vicini alla rivoluzione nazionale tedesca come H.F.K. Günther, J. Bannes o K. Gabler, o, nel dopoguerra, da Adriano Romualdi e Franco Freda. Ma si pensi anche all’uso che del pensiero aristotelico ha fatto Alasdair MacIntyre, rivalutando in chiave anti-liberale, anti-individualistica ed anti-moderna la concezione dell’“animale politico” in grado di completare se stesso solo all’interno della comunità.

Le radici cristiane

Se la Grecia è – agli occhi di Reale – la “luce della ragione” destinata ad illuminare il nostro cammino ancora oggi, il Cristianesimo rappresenterebbe invece la scoperta del valore della singola persona umana. Che questa “scoperta della persona” non abbia nulla a che fare con la nascita dell’individualismo moderno è cosa di cui Reale è certissimo. Noi lo siamo un po’ meno. Ma non è questo ciò che importa, quanto piuttosto il presunto carattere imprescindibile della “radice (giudaico)cristiana per l’Europa attuale. Andrebbe innanzitutto chiarito il vero motivo dell’insistenza con cui certi ambienti reclamano la sottolineatura delle radici bibliche della spiritualità europea, motivo che non è per nulla di esclusiva natura culturale ma che anzi trova origine nella volontà di assegnare d’ufficio la nostra civiltà al blocco occidentale guidato dagli USA (che con la Bibbia hanno un ben noto rapporto morboso). E, non ultime, andrebbero segnalate le mire neo-egemoniche del Vaticano (2). Ma anche limitandoci ad affrontare la questione dal punto di vista culturale, crediamo si possa dubitare del fatto che “il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe” – per riprendere l’espressione di Pascal citata nel volume – possa essere l’unico Dio possibile per gli europei, per l’elementare ragione che europei Abramo, Isacco e Giacobbe non lo erano affatto. Né lo erano Gesù di Nazareth ed i suoi dodici apostoli. Europeo, il Cristianesimo, ha forse scelto di esserlo “per vocazione”, rivolgendosi esplicitamente agli abitanti del continente? Nessuno potrebbe affermare una simile idiozia, essendo il messaggio del Cristo assolutamente universalista, rivolto sempre e comunque all’uomo tout court, al di là di ogni appartenenza. Sotto il segno della croce si è forse data un’unità continentale? Difficile dirlo, visto che abbiamo a che fare con una religione che ha subito molteplici divisioni interne consumate non senza spargimenti di sangue. Ancora oggi, dall’Irlanda ai Balcani, il Cristianesimo sembra essere un fattore di divisione molto più che di coesione. Detto questo, nessuno può ovviamente pensare di considerare due millenni di Cristianesimo una parentesi trascurabile su cui poter sorvolare e “tornare alle origini” come se niente fosse. Sarebbe a dir poco folle. Il Cristianesimo ha profondamente influenzato la storia e la cultura d’Europa, nessuno può negarlo. E tuttavia tale ammissione non esaurisce il problema: una religione può essere presente nell’albero genealogico di un popolo come radice o come fronda; può segnarne la storia come fonte di salvezza o come origine della decadenza; può intaccare solo la superficie o cambiarlo in profondità. La verità è che esiste una forma mentis specificatamente europea che precede e attraversa il Cristianesimo, pur senza disdegnare di assumere quest’ultimo come veicolo per esprimere una mentalità che con esso poco ha a che fare. Le cattedrali gotiche, ad esempio, sono per prima cosa espressioni di una spiritualità tipicamente europea e solo secondariamente templi di una religione nata tra le dune della Palestina. È per questo che in esse ci sentiamo a casa anche senza aver in particolare simpatia il racconto biblico. Esiste tutta una Weltanschauung che è nata prima del Cristianesimo, lo ha accompagnato intrecciandosi a volte con esso e probabilmente ne assisterà alla fine senza cessare essa stessa di essere vitale. Su tutto questo, però, torneremo dopo. Ora ci interessa parlare della terza radice, la cosiddetta “rivoluzione scientifica”.

La rivoluzione scientifica

Per Reale la mentalità scientifica è una creazione specifica della cultura europea. La medicina, l’astronomia, la matematica nascono, in quanto scienze, dall’approccio speculativo specificatamente greco. Questa innata predisposizione speculativa troverà poi il suo apogeo nella rivoluzione scientifica seicentesca. Ora, al riguardo bisogna spendere alcune parole su alcuni approcci in voga dalle nostre parti. Sappiamo bene che troppo spesso un mal compreso “tradizionalismo” bigotto e reazionario ha voluto condannare la scienza in sé come un’aberrazione tipicamente moderna. Sfortunatamente un simile atteggiamento ha a volte contagiato anche chi ha preteso di essere l’erede di quelle rivoluzioni nazionali che annoverarono tra i propri collaboratori un Guglielmo Marconi o un Werner Von Braun. Rivoluzioni che mai si sognarono di predicare un luddismo neo-primitivista ma che seppero piuttosto mostrare uno spirito assolutamente spregiudicato ed innovativo che all’epoca seppe sorprendere il mondo. Se oltre al richiamo di tali illustri precedenti si considerano le nuove frontiere dell’epistemologia – decisamente indirizzata verso la fondazione di un paradigma olistico, organicista e non lineare (3) – nonché il carattere assolutamente “scorretto” di molte recenti scoperte (4), non si capisce francamente in virtù di quale logica “rivoluzionaria” o “fascista” si debba rifiutare in blocco l’intera scienza moderna. Ovviamente non sfugge a chi scrive il rovescio della medaglia, ovvero il carattere brutalmente disumano di ogni sperimentazione che non trovi altro limite se non le leggi del mercato ed altro beneficiario se non la tirannica volontà di dominio delle oligarchie antipopolari oggi trionfanti. Ma, appunto, non è la scienza in quanto tale che va condannata, quanto piuttosto la sua sottomissione a meccanismi impersonali tendenti alla riduzione della diversità ed alla mercificazione del vivente. Qualcosa di simile lo ammette anche Reale nella sua condanna dello “scientismo”, che nel volume è considerato una specie di irrigidimento dogmatico dello spirito scientifico tendente a dominare l’intera esistenza umana. Bene. Anzi, benino. Perché la critica dell’autore risente clamorosamente degli influssi del pensiero debole oggi in voga. Per dominare i processi in atto e le nuove frontiere delle biotecnologie, però, serve esattamente il contrario: ovvero un pensiero forte, capace di conciliare l’innovazione tecnologica con il radicamento, l’equilibrio ecologico, il benessere sociale e la continuità delle tradizioni, esattamente come fecero le rivoluzioni nazionali di cui si diceva.

Cercasi un progetto

È un progetto di lunga durata, una Weltanschauung globale, una visione d’insieme onnicomprensiva che oggi manca. Ciò che ci serve è un’idea di noi stessi, del nostro futuro, una volontà di decidere chi vogliamo essere, dove vogliamo andare, quale civiltà vogliamo creare. Tutto questo non ce lo potranno dare né i mercanti né i burocrati. Reale lo sa bene, ma al tempo stesso è troppo prigioniero del pensiero dominante per indicarci una soluzione valida per uscire dall’impasse. Che la perdita di centralità esistenziale possa essere superata grazie ad una semplice “cura dell’anima” declinata nel senso della predica moralistica alla Erich Fromm (guardare non l’avere ma l’essere, il mondo dello spirito e non quello della materia etc) è quantomeno dubbio. Molto più spietata di quanto Reale sembra pensare dovrà essere l’azione su stessi per chi voglia tornare a respirare oltre la cappa soffocante dell’alienazione moderna. E molto più concreta, pragmatica, radicata nel tessuto sociale dovrà essere l’azione. Senza una precisa prassi (meta)politica volta al superamento dell’attuale “civiltà” e degli attuali “valori” a ben poco serviranno i vaghi lamenti piagnucolosi. Reale non comprende che le vecchie tavole della legge sono irrimediabilmente andate distrutte e che l’unica speranza per il domani è avere l’audacia di scriverne di nuove. Tutto ciò, ovviamente, all’insegna di una concezione sferica della storia in cui è il più lontano passato ad ispirare l’avvenire. È per questo che è necessario fare ricorso alle nostre più autentiche radici. Ecco, quindi, che si è giunti all’essenziale, ovvero alla domanda “che cosa vuol dire essere europei?”.

La forma mentis europea

Europea è la concezione aristocratica della persona umana, l’etica fondata sull’onore e sulla fedeltà (e non sul “peccato”), l’atteggiamento eroico di fronte alle sfide dell’esistenza, l’esaltazione della bellezza, del corpo, della forza; europeo è il “dir Sì alla vita” (Nietzsche), lo spirito entusiasticamente portato alla scoperta, all’avventura, alla conquista, la valorizzazione del radicamento e del senso della comunità. Lo spirito europeo è “radicato e disinstallato”, come amava dire Guillaume Faye ai tempi in cui ancora non era stato folgorato sulla via di Lepanto. Radicato poiché sempre legato ad una terra, ad un popolo, ad una tradizione. Disinstallato perché portato a pro-gettarsi sempre nuovamente nella storia verso nuovi traguardi. Concepire la propria tradizione in modo creativo: ecco cosa significa essere europei. Dal punto più specificatamente filosofico-religioso, Sigrid Hunke parlava di una “vera religione dell’Europa” riferendosi alla tendenza a rifiutare il dualismo tra Creatore e creatura, tra mondo vero e mondo falso. La Hunke ricostruiva la storia del pensiero europeo ricercando in esso i tratti di questo mentalità originaria, trovandola in Pelagio, Francesco d’Assisi, Meister Eckhart, Cusano, Pico della Mirandola, Paracelo, Giordano Bruno, Jakob Böhme, Leonardo da Vinci, Goethe, Herder, Schleiermacher, Hölderlin, Fichte, Nietzsche, Rilke, Hesse, Saint-Exupery, Heidegger, Luois Rougier. Filosofi, teologi, scrittori che in alcuni casi hanno operato anche all’interno della Chiesa (seppur – cosa significativa – venendo in genere osteggiati più o meno apertamente) ma che nondimeno, per ciò che hanno espresso nei loro testi, risultano innanzitutto come pensatori europei. Ma si pensi anche a Jean Giono, a Drieu la Rochelle, a D’Annunzio, a D.H. Lawrence, a Knut Hamsun, a Stefan George, alla Yourcenar, a Tolkien. Tutti cantori di miti, di suggestioni, di sensibilità tipicamente “nostre”, originali ed originarie. C’è infine un ulteriore mito del nostro passato remoto che vale la pena di ricordare per la sua incredibile attualità rivoluzionaria: parliamo del mito dell’Imperium. Imperium: un’idea affilata come la lama di una spada capace di tagliare il nodo di Gordio insolubile di questa modernità morente che si ripiega narcisisticamente su se stessa. È da questa fonte che possiamo attingere nuova linfa per una rigenerazione politica e spirituale, è per questo progetto che dobbiamo lottare. Per un’Europa di nuovo padrona del suo futuro, per l’Impero prossimo venturo.

Note

[1] Si noti bene: prima della scoperta della parentela storica delle lingue indoeuropee ad opera dei Romantici, la “lingua originaria dell’umanità” era considerata… l’ebraico, ovvero la “lingua della Rivelazione”. I filologi romantici posero quindi la prima base della coscienza identitaria europea. Non sarà inutile ricordare la tesi cara a molti storici secondo la quale proprio nel Romanticismo si trova la prima origine culturale del movimento poi destinato ad irrompere nella storia con le rivoluzioni fasciste del Novecento.

[2] Cfr. Alain de Benoist, La «nuova evangelizzazione» dell’Europa. La strategia di Giovanni Paolo II, Arianna Editrice, Casalecchio 2002.

[3] Penso, tanto per fare qualche nome, alle riflessioni di Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche (riflessioni che mettono in crisi il modello lineare del progresso scientifico), alle affinità notate da Fritjof Capra fra sapienza tradizionale e fisica moderna, o alle tesi di Heisemberg sulle implicazioni filosofiche della fisica quantistica.

[4] Vedi, ad esempio, Michael J. Bamshad e Steve E. Olson, Esistono le razze?, in Le Scienze, Gennaio 2004, articolo che, nonostante il titolo “prudente”, dimostra come sia possibile utilizzare gli strumenti della genetica per suddividere grandi gruppi di popolazioni in base alla loro area di origine geografica. In pratica, dimostra come la risposta all’interrogativo posto dal titolo sia sicuramente affermativa.

* * *

Tratto da Orion numero 243, dicembre 2004.

Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’ “uomo europeo”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

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Segui Adriano Scianca:
Adriano Scianca, nato nel 1980 a Orvieto (TR), è laureato in filosofia presso l'Università La Sapienza di Roma. Si occupa di attualità culturale, dinamiche sociologiche e pensiero postmoderno in varie testate web o cartacee. Cura una rubrica settimanale sul quotidiano Il Secolo d’Italia. Ha recentemente curato presso Settimo Sigillo il libro-intervista a Stefano Vaj intitolato Dove va la biopolitica?. Scrive o ha scritto articoli per riviste come Charta Minuta, Divenire, Orion, Letteratura-Tradizione, Eurasia, Italicum, Margini, Occidentale, L'Officina. Suoi articoli sono stati tradotti in spagnolo e pubblicati su riviste come Tierra y Pueblo e Disidencias. E’ redattore della rivista web Il Fondo, diretta da Miro Renzaglia.

  1. Trombini Ivone (masc
    | Rispondi

    EUROPA,

    LE SUE VERE RADICI

    E JOSÉ ORTEGA Y GASSET

    Definiamo innanzi tutto la radice: “Parte di solito infissa nel terreno dal quale trae alimento mediante gli appositi apparati di cui è provvista”. Qualcun’altro dice: “È l’organo generalmente destinato ad approfondirsi nel terreno, dove svolge funzioni di vario tipo, tra le quali le più impor tanti sono: fissazione di tutta la pianta, assorbimento delle acque e dei sali minerali, accumulo di sostanze di riserva”. La radice, quindi, differenzia un prodotto da tutti gli altri.

    Cercare di attribuirsi meriti che spettano ad altri è senz’altro un’operazione eticamente squa lificante ed i credenti possono anche considerarla un peccato, forse non mortale, ma almeno ve niale sì.

    Questo sussiste anche quando quello che si vuole attribuire a sé stessi sono radici, e quando le radici sono quelle di tutto un continente i cui frutti si sono poi estesi anche in almeno altri tre continenti —le Americhe e l’Australia— la colpa ed il peccato assumono una consistenza maggiore.

    Cercherò di spiegare quali siano le vere radici dell’Europa riferendo quanto nel 1908, quan do aveva appena venticinque anni di età, José Ortega y Gasset —uno dei maggiori pensatori del ‘900, autore tra l’altro di Spagna invertebrata— scriveva su El Imparcial. E non era in polemica con qualcuno che cercava di appropriarsi di radici altrui ma cercava soltanto di stimolare in tutti i modi i suoi connazionali ad uscire da quell’inveterato tradizionalismo nel quale pigramente vive va la società spagnola che dopo il suo Secolo d’Oro, il secolo XVI per la Spagna, non aveva pro dotto niente che avesse una consistente valenza esistenziale. Ortega approfitta di un’Assemblea per il progresso delle scienze che auspicava l’entrata della Spagna nello spirito della civiltà euro pea per esprimere il suo pensiero su cosa sia l’Europa oltre che un’espressione geografica, su co sa significhi essere europei.

    E qui trascrivo il suo pensiero, lucidissimo ed irrefutabile perché non credo sia possibile con trapporgli un ragionamento più valido.

    Europa, essere europei vuol dire semplicemente non essere Asia, non essere Africa; non essere asiatici e non essere africani, continenti nei quali la vita è stata, ed ancora è, profonda mente differente da quella europea.

    ¿ A che cosa è dovuta questa differenza? Questa differenza è la SCIENZA. Ortega dice: “Europa=SCIENZA. Ogni altra cosa è comune con il resto del pianeta”.

    L’Europa ha avuto la scienza che invece è mancata al resto del pianeta. Il percorso per spie gare quest’affermazione è il seguente: ROMA ha conquistato la GRECIA ed è rimasta conquistata dalla sua cultura che ha portato a Roma adattandola alla propria indole. La cultura greca era il pensiero; Socrate ed il pensiero greco ci hanno portato due cose: la definizione ed il metodo in duttivo che messe insieme costituiscono la scienza. Centocinquanta anni prima di Gesù, nella ca sa di Scipione Emiliano si parlava greco. Le benestanti famiglie romane dell’epoca avevano al lo ro servizio collabotori provenienti dal mondo ellenico che trasfondevano nella società romana la cultura frutto del pensiero greco. Quello che differenzia l’Europa —sorta sulle ceneri dell’Im pero romano— dagli altri continenti allora noti è dunque la SCIENZA, non le religioni. Gli altri continenti sono rimasti soltanto con le religioni, tutte meritevoli della massima stima. Si tenga presente che Confucio ha detto cinquecento anni prima di Gesù molte cose che poi ha det to anche Gesù che ritentengo non fosse stato a conoscenza di quello che prima di lui aveva det to Confucio.

    Il cristianesimo, venuto dopo, ha piantato sue solide radici in un’Europa che ave va già scelto la via della RAGIONE, e si è abbarbicato a queste radici europee, riuscen do anche a dissecare qualche suo filamento e dedicandosi con molto zelo a cercare di dissecarne tanti altri: si pensi a cosa è successo a Galileo ed a troppe altre cose, ad esempio l’ignominia delle Crociate. Se le radici dell’Europa fossero state cristiane non avrebbe cer to trionfato la scienza e quindi avremmo seguito più o meno il cammino delle civiltà asiatiche ed africane, avremmo cioè limitato il nostro ambito vitale alla religione, e so no invece convinto che siano estremamente contenti che sia stata scelta la ragione tutti gli euro pei —anche quelli che per cercare il voto politico dei cristiani e l’appoggio del clero esprimono ogni tanto il loro straziante rammarico per la mancata attribuzione al cristianesimo delle radici dell’Europa nella sua Costituzione—. E qui si potrebbero fare tante osservazioni sull’atteggiamen to del cristianesimo nei confronti della scienza sia nel passato che nel presente.

    Forse l’atto di maggior grandezza che si possa attribuire a Giovanni Paolo II è l’aver chiesto perdono per le passate nefandezze perché, come ancora José Ortega y Gasset dice da qualche parte: “Per riconoscere un proprio errore è necessario un minimo di grandezza”.

    In definitiva, il seme che ha dato vita alle radici dell’Europa, creando quindi la base su cui poggia la sua cultura e la sua vita, è anteriore al cristianesimo. Dopo, il cristiane simo ha piantato le sue radici nell’humus creatosi attorno a quel seme primordiale.

    L’Africa e l’Asia stanno scoprendo adesso (salvo il Giappone che ha iniziato un secolo fa) i be nefici della forma di vita europea e per uscire dalla loro arretratezza materiale non sono ricorsi ad una religione estranea, perché ne hanno sempre avute a sufficienza, ma alla SCIENZA figlia del pensiero greco e madre della tecnica che tanto beneficio ha apportato ai popoli dell’Europa e del mondo occidentale in genere che da essa derivano. Non è certo per caso che tutte le parole riguardanti la scienza derivano dal greco. In Europa, ed anche nei continenti popolati dagli euro pei, sono avvenute tutte quelle scoperte ed invenzioni che hanno reso molto più facile la vita del l’umanità. Certo, dopo si può discutere anche dell’apporto del cristianesimo nella vita dei popoli europei. Ci saranno da rilevare senz’altro esiti positivi ma non si dovranno scordare quelli negati vi ed i limiti, imposti soprattutto dalla natura umana, pensando alla possibilità dell’esistenza di un Hitler —i cui soldati, pur dopo quasi duemila anni di cristianesimo, portando scritto sul cintu rone DIO È CON NOI hanno provocato circa 50.000.000 di morti contando anche i sei milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento— ed uno Stalin che si era addirittura formato an che in un seminario cristiano. Non voglio certo dare al cristianesimo la colpa di questi due casi estremi ma soltanto rilevare i limiti dei suoi benefici. Questo nulla toglie a Gesù che è stato senza dubbio uno dei più grandi, e forse il più grande, essere umano apparso sulla terra.

    Non avrei scritto tutto questo se non ci fosse quel continuo piagnucolio sulla mancata attri buzione al cristianesimo delle radici europee perché è importante che di questo studio sulle radi ci dell’Europa siano messe al corrente anche le persone che non si dedicano a letture impegnati ve come sono considerate quelle di un filosofo —e Ortega è soprattutto un impareggiabile saggi sta che ha riversato negli articoli per i giornali e nei saggi il suo pensiero dedicato alla vita del l’uomo (tema fondamentale della sua filosofia è il Prospettivismo e la Razon vital, cioè la ragione che si preoccupa soprattutto della vita dell’uomo).

    ivone.trombini@libero.it

    Via Duca d’Aosta, 65 –34170 Gorizia (I)

    Tel. 0481.535.793

    non studioso dell’opera di Ortega

    ma appassionato lettore della sua

    impareggiabile saggistica

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