Quello che ci può insegnare la civiltà dell’albero e della sobrietà

La civiltà prealpina è stata definita da uno studioso «la civiltà della falce e del fieno»; ma crediamo che la si potrebbe definire, con altrettanta verità, «la civiltà dell’albero e della sobrietà» (come si vede anche nel bellissimo film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli, ove la tragedia di una famiglia contadina inizia proprio dal taglio di un albero).

Nulla, dell’albero, andava sprecato; tutto veniva diligentemente adoperato, dalle foglie sino alle radici. Era una civiltà che non sprecava nulla e che si tramandava, di generazione in generazione, la conoscenza dei possibili utilizzi di ogni parte dell’albero, compresa la corteccia; e che, d’altra parte, adottava la sobrietà come un vero e proprio stile di vita, non potendosi permettere il lusso di sprecare nulla, ma proprio nulla, di quanto offre all’uomo la natura (comprese le erbe selvatiche, i funghi, l’uccellagione e lo sfruttamento delle povere risorse minerarie, come la torba).

Ogni cosa veniva utilizzata anche più volte, come il fieno che diventava cibo per gli animali e, poi, concime per i campi e per l’orto). La lama della falce veniva affilata con la cote; raramente il contadino o l’alpigiano avevano necessità di acquistare manufatti prefabbricati.

Inoltre, era una civiltà naturalmente «ecologica», perché basata sull’utilizzo di risorse rinnovabili, a cominciare dall’energia solare, dall’acqua e dal vento; così come rinnovabili sono il legname dei boschi e l’humus della terra, purché utilizzati con giudizio e con parsimonia. La dimora rurale era costruita interamente in pietra e legname; il mobilio, in legname, in giunco e in paglia (per l’imbottitura delle sedie), spesso lavorato in casa; l’abbigliamento era fornito da fibre naturali: l’uso di prodotti artificiali, acquistati in commercio, era minimo.

Una economia di sopravvivenza, una economia chiusa?

Certo; ma, senza voler idealizzare una virtù che era frutto anche di una dura necessità (testimoniata dalla frequente povertà e dalla pratica dell’emigrazione stagionale o permanente, che peraltro coincide con la rivoluzione industriale di fine Ottocento), forse è il caso di riflettere sugli aspetti positivi di essa, a cominciare dal valore della sobrietà e dall’orrore per lo spreco.

Le scarpe, ad esempio, erano un lusso della domenica, il giorno del Signore; e andavano usate anch’esse con parsimonia, specialmente se nuove. Chi ha letto il romanzo (o visto il film tratto da esso) di Carlo Cassola, La ragazza di Bube, ricorderà che Mara, la protagonista, è talmente felice per il regalo delle scarpe fattole da Bube, che , appena uscita dal negozio, se le toglie e cammina scalza, per paura di sciuparle subito. Nella vita quotidiana, il contadino indossava gli zoccoli di legno, oppure andava scalzo; altro che le scarpiere traboccanti degli uomini e delle donne d’oggi, capaci di sfoggiare un paio di scarpe diverse un giorno sì e un giorno no…

Ma torniamo all’albero.

In una fase ancora più antica, esso non era soltanto una risorsa economica da adoperare con cura e con rispetto, ma anche qualcosa di più, un vero e proprio simbolo religioso, come è testimoniato dagli innumerevoli «capitelli verdi», ossia edicole religiose costruite fra i rami degli alberi, prosecuzione cristiana di un culto anteriore, in cui le divinità pagane erano adorate anche attraverso l’albero, quale simbolo di forza, di vita e di garanzia dell’ordine cosmico (si pensi alla sacra quercia di Dodona, in Grecia; e, in genere, ai boschi sacri dell’antichità classica, come quello di Diana, presso il Tempio di Apollo a Cuma, di cui parla Virgilio nel sesto libro dell’«Eneide»).

Scrive Ugo Mattana nella sua ricerca Il paesaggio dell’abbandono nelle Prealpi Venete Orientali tra il Passo di S. Boldo e la Sella di Fadalto (Edizioni Cierre e Club Alpino Italiano, Sezione di Vittorio Veneto, 2006, pp. 31-33):

«L’estate veniva trascorsa nelle casere della zona elevata e sommitale della dorsale dove gli animali, oltre a fortificarsi in salute e resistenza, potevano nutrirsi di un foraggio fresco e di ottima qualità. L’attività antropica principale riguardava la cura del bestiame e la lavorazione del latte, e ancor più lo sfalcio e la fienagione, estesi talora anche sulle aree meno produttive di versante o su magri prati, come ad esempio sulle ripide pendici attorno al Col Visentin. Il fieno prodotto veniva accatastato in grandi covoni (mede), quindi trasportato a valle in autunno. Questo tipo di cultura materiale, definita da Karl Ilg come “civiltà della falce e del fieno”, assicurava la nutrizione del bestiame in inverno e garantiva al fondovalle un grande risparmio di fieno, tradotto direttamente in un prezioso risparmio di suolo per i coltivi.
La monticazione avveniva spesso in appezzamenti di proprietà, con gestione familiare, ma non mancava la forma di affido dei bovini a malgari di professione che monticavano in grandi proprietà comunali.
Il rientro dall’alpeggio si collocava solitamente a cavallo dei mesi di settembre e ottobre, spesso con le mucche, fecondate in montagna, prossime al parto, e la discesa si concludeva con la festosa accoglienza negli insediamenti. A questo spostamento si affiancava il trasporto a valle del fieno precedentemente stoccato: la pratica era effettuata un tempo con cestoni a spalla (brinzie, servivano anche per strame e castagne) ma soprattutto col trascino di tregge (muse) lungo erti sentieri (tràgoi), e successivamente, dopo la prima guerra mondiale, più spesso per mezzo delle numerose teleferiche.
Altre attività caratterizzavano l’avanzare dell’autunno: la raccolta delle foglie per la lettiera delle stalle e l’abbacchiatura e raccolta delle castagne.
La montagna brulicava di vita e di incontri, risuonava di voci e di richiami, era un fervore di attività e spostamenti: un quadro che contrasta drammaticamente con l’abbandono e il silenzio di oggi.
L’economia contadina di sussistenza, patriarcale e “tendenzialmente autarchica […] ma non ‘chiusa'” (Scaramellini, 1997), comportava anche una relativa suddivisione familiare del lavoro, anzi la sua strategia si avvaleva di una disaggregazione temporanea del nucleo familiare, al quale si richiedeva comunque uno sforzo corale per far fronte alle difficili situazioni economiche. Così, mentre agli uomini restava l’incombenza dei lavori sul monte, donne e ragazzi assicuravano, talora con spostamenti quotidiani, il flusso di prodotto col fondovalle, dove erano dediti anche ai lavori agricoli dei coltivi.
Alla stagione estiva frenetica di attività si contrapponeva, in una discontinuità temporale del lavoro, una stagione invernale più rilassata, dedicata anche a eventuali occupazioni alternative. La stagione fredda era il periodo del riordino delle abitazioni e delle stalle, della preparazione e concimazione dei coltivi, della sistemazione degli attrezzi, della riunificazione delle famiglie, del falò, del riposo; ma spesso si aggiungevano attività volte a impinguare i magri bilanci domestici: in primo luogo la produzione di utensili in legno e in vimini e il loro commercio, ma anche l’impiego come manodopera generica in paesi lontani, oppure i traffici di contrabbando con la zona del bellunese.
Ma tornando alla montagna, il bosco era una risorsa multiforme. Si è già parlato di caccia, di uccellagione, di raccolta di frutti e funghi. Sarà necessario invece riconsiderare l’albero come elemento indispensabile dell’economia tradizionale: era un bene prezioso, utilizzato in tutte le sue componenti, dalle foglie alle radici, per usi diversificati che non erano limitati solo all’autoconsumo. Il legname era utilizzato come combustibile o come materiale da fabbrica: raccolto in momenti di ridotta attività agricola, veniva tradotto a valle lungo i “tràgoi” o con le teleferiche. Il Castagno era molto apprezzato per questi usi; col Noce e col Ciliegio forniva legname per falegnameria di pregio. Accanto a questi usi abbastanza noti, vale la pena ricordare che il bosco forniva i pali indispensabili per la cultura della vite, che i rami e i ramoscelli servivano per la preparazione di scope agricole; che le foglie erano un succedaneo, talora prezioso o ricercato, per l’alimentazione animale e fornivano il materiale per le lettiere delle stalle; che anche radici e ceppi diventavano legna da fuco; che le cortecce di alcune essenze erano usate per preparare medicamentosi; che legname tenace o flessibili virgulti venivano trasformati in utensili per autoconsumo o per il commercio. L’attività di resinazione (…) è meno conosciuta: praticata sulle piante di abete mediante l’incisione del tronco, forniva resina per l’industria farmaceutica.
La filosofia di fondo di tutta questa organizzazione economica ruotava attorno ai principi di risparmio e di parsimonia, e a noi appare stridente la contrapposizione con l’esasperazione dei consumi e lo spreco della società odierna. L’utilizzazione oculata di tutte le componenti dell’albero ne è una conferma; ancora, merita di essere ricordata la seguente testimonianza: “Era buona consuetudine, quando si doveva fare una lunga camminata specie per sentieri di montagna, togliere le calzature. La pelle dei piedi si rifà da sola” (Floriani, 1981). Ma una forma di risparmio ancora più spinta era dedicata alla risorsa del suolo: basti pensare alla cura con cui il montanaro tendeva a impedirne l’erosione, o agli interventi per “inventare” minuscole tessere di terreno su terrazzi faticosamente costruiti, come appare con frequenza nell’area di Revine e di Fais. Tutte queste operazioni rientravano nell’ambito di una microattenzione e microconoscenza del territorio, sottoposto di continuo a un minuzioso controllo sociale. Anche la difesa idrogeologica del versante traeva beneficio dalla continua ripetizione di questi minuti interventi elementari.
Al di fuori dell’attività agrosilvopastorale va ricordata anche l’attività estrattiva: le molte varici di cave abbandonate, dislocate sul versante soprattutto in prossimità del fondovalle, ne testimoniano l’importanza. Dalla formazione del Calcare di Soccher si estraevano specialmente materiali da costruzione, e il Biancone, fittamente stratificato e quindi già parzialmente squadrato all’origine, era apprezzato oltre che come materiale edilizio, anche per la selce inglobata, usata nelle fabbriche di ceramica.
Il quadro dell’economia tradizionale sopra esposto non deve indurre a tentazioni di elogio acritico e nostalgico del tempo passato. È il caso invece di sottolineare subito le condizioni di vita durissime e gli stenti che il sistema economico riservava agli abitanti di queste “contrade”; e le grandi ondate migratorie, altrettanto dure e drammatiche, che hanno investito queste popolazioni già alla fine dell’Ottocento, ne sono una sofferta conferma».

Due aspetti balzano particolarmente evidenti, dalla lettura di questo brano di prosa.

Il primo è il carattere corale della civiltà contadina, e specialmente di quella prealpina, ove le durissime condizioni di vita rendevano essenziale la collaborazione di tutti i membri della famiglia, compresi gli anziani e i bambini, al sostentamento di essa.

Spesso le risorse di una singola fascia vegetazionale non erano sufficienti al mantenimento di un nucleo familiare, per cui una parte di esso si spostava, come abbiamo visto, nelle fasce superiori nei diversi mesi dell’anno, in modo da reperire quelle fonti di sostentamento che le diverse fasce climatiche e ambientali potevano offrire in successione: così, all’alpeggio estivo, in quota, succedeva il taglio del bosco autunnale, a mezza costa; poi lo spostamento in pianura delle donne, in inverno, per il piccolo commercio dei manufatti in legno; e così via. E i diversi membri della famiglia si specializzavano, per sesso e per età, nello sfruttamento dei diversi ambienti e delle loro differenti risorse.

Da ciò nasceva anche un forte senso di coesione, tipico della famiglia patriarcale, che scaturiva dalla consapevolezza che nessuno avrebbe potuto affrontare le difficoltà della vita se si fosse isolato, ma che solo dall’unione e dalla concordia degli sforzi potevano venire condizioni accettabili di esistenza.

Il secondo aspetto particolarmente significativo è la pratica costante, divenuta una vera e propria seconda natura, della perfetta conoscenza dell’ambiente naturale – rocce, piante e animali – e della scrupolosa attenzione verso gli aspetti anche più minimi dell’ambiente stesso, in chiave di sobrio utilizzo delle risorse naturali e di tutela dell’ambiente idrogeologico (e il cui abbandono nella civiltà industriale provoca continui fenomeni di frane, alluvioni, eccetera).

Caratteristiche, ad esempio, delle Prealpi Venete e Friulane erano delle montagnole di sassi formate dall’accumulo ordinato di quelle pietre che, non utilizzabili nell’edilizia o in altre forme di attività umane, venivano comunque asportate dai prati, al fine di togliere un intralcio alla fienagione ed al pascolo e depositate in un unico luogo, donde potevano essere eventualmente prelevate in caso di necessità.

Generazioni di abitanti delle vallate hanno costruito quei piccoli, grandi monumenti alla pazienza e al rapporto affettuoso fra uomo e natura: un sasso alla volta, raccolto durante le circostanze più varie, così come si può raccogliere qualcosa dalla via e farne un piccolo deposito, invece di gettarlo a casaccio e senza alcun rispetto per l’ambiente.

Può accadere che i moderni amanti della montagna (ma quanti di essi sono veramente tali?), durante un percorso tra boschi e malghe, si trovino a costeggiare lunghi tratti di muri a secco, alti fino a sei metri, che trattengono i possibili smottamenti del terreno e proteggono i sentieri lungo le pendici, senza degnarli che di uno sguardo distratto.

Ebbene, si tratta di opere di edilizia spontanea, realizzate dai nostri nonni nel corso delle passate generazioni, con fatica e con amore, allo scopo di rendere più sicuri i sentieri o, magari, di creare un po’ di spazio per coltivare qualche fazzoletto di terra, strappandolo all’inclemenza della montagna. Senza l’ausilio di mezzi meccanici, senza il supporto di maestranze specializzate, senza l’aiuto economico della pubblica amministrazione (oggi così generosa nel sovvenzionare anche gli interventi paesaggistici più gratuiti e discutibili), essi fecero tutto da soli, silenziosamente e dignitosamente, come era nel loro stile di vita, parco di gesti e di parole superflui.

Può anche capitare, camminando lungo qualche mulattiera nel bosco, di imbattersi in una roccia scavata da solchi profondi in un modo che, a noi cittadini del Duemila, può apparire misterioso e quasi inspiegabile. Si tratta dei solchi lasciati dal ripetuto trascinamento delle tregge mediante le quali, alla fine dell’estate, si portava a valle il fieno dai prati di montagna. Chissà quante generazioni di valligiani avranno percorso quei sentieri, sobbarcandosi la fatica di trasportare carichi pesantissimi, sino al punto di intaccare la roccia e aprirvi quei solchi.

Fino a qualche decennio fa, si potevano ancora incontrare, sulle strade e i sentieri della montagna, delle donne vestite di scuro, col fazzoletto in testa, nero anch’esso – magari anche anziane – che scendevano a valle con una enorme gerla di fieno sulle spalle. Donne di cinquanta, di sessant’anni e anche più, che portavano gerle di fieno da venti chili, da trenta chili, molto più grandi di loro…

Era uno spettacolo commovente, che ci ricordava quanto fosse dura la vita nella civiltà contadina, ma anche come fosse fiera, dignitosa, autosufficiente; «ecologica», appunto, nel senso più profondo ed autentico della parola.

*

Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

Condividi:
Segui Francesco Lamendola:
Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *