Quadri transoceanici

Se non presentasse dei lati suscettibili di una «interpretazione in profondità», il recente bando imposto a tutto un insieme di noti personaggi più o meno legati al cinema e alla vita mondana, soprattutto statunitense, ci lascerebbe affatto indifferenti. Giunta in Europa col clamore proprio agli scoops più spinti, la notizia ha valso a tener in fermento per qualche tempo giornali e televisioni. Poi il “potenziale” della notizia è scemato, ed oggi essa può dirsi già cosa del passato.

Ciò malgrado, come dicevamo, non è da escludere che il tentativo di sottoporre il fatto ad una sorta di “psicoanalisi”, cercando di cogliervi un senso di là dalla superficie, possa riuscire istruttivo sotto vari riguardi.

Non lo si può nascondere: è soprattutto per aver avuto la propria scaturigine “al centro dell’Impero”, in quell’America che, a distanza di più di mezzo secolo, con la sua vita e attraverso i suoi “ideali” agisce nel mondo come lo potrebbe un cancro distruttore – è soprattutto per questo, che il caso è salito in gran fretta agli onori delle cronache. All’indomani dello scandalo (che ha avuto per protagonisti un potente produttore cinematografico e, poi, un quotato attore di Hollywood) quasi a voler imbastire una gara di velocità, donne, anch’esse impegnate a vario titolo nel mondo del cinema, si son destate come da un sonno profondo e hanno iniziato a denunciare colleghi – attori, produttori, registi – per aver compiuto ai loro danni abusi e violenze a sfondo sessuale. Il lato più sconcertante della vicenda: tali accuse avrebbero inteso riguardare fatti avvenuti in molti casi diversi decenni fa, ciò (come l’ha giustamente notato qualche rara voce controcorrente subito tacitata) dovendo perlomeno lasciare perplessi circa la sincerità di tutta codesta messinscena.

Ad ogni modo la faccenda, secondo un ritmo di crescente parossismo, ha finito per trasvolare l’oceano raggiungendo anche l’Italia. Qui l’usuale provincialismo ha consentito ad alcune residuali esponenti di un trascorso feminismo militante di cogliere l’occasione per riemergere dall’oblio. Ne sono dunque scaturiti atti di sdegno generale, programmi d’intrattenimento istituiti ad hoc, risentimento nei riguardi di una situazione che “non può più lasciarsi tollerare”, in un’epoca in cui la donna non è certo più quella “di un tempo”, quella cioè che subiva l’uomo dispotico e pronto ad imporle senz’altro il proprio volere. Il tutto, in uno sfondo di “regime patriarcale” e di persistente tenuta in “stato di minorità” della donna.

Ora, al di là da un certo modo ridicolo di porre la questione, noi pensiamo che quest’ultima polemica ben poco abbia a che fare con quanto verificatosi negli Stati Uniti. Francamente, crediamo che da essa si sia voluto unicamente trarre un pretesto per metter mano al solito congegno a base di “rivendicazioni” e “diritti umani”, così caratteristico di questo Occidente al crepuscolo.

Per prima cosa, accantonata l’emotività e ogni ipocrisia, si dovrebbe iniziare col prender le giuste misure allo scandalo. Ben prima di interessare il sesso, a noi la faccenda in questione sembra rendere assai realisticamente il clima di squallore e di inanità sussistente in gran parte della vita americana “alla ribalta”. Vita che, nella persona di boys e di stars, è proprio la quasi totalità delle donne ad invidiare e a seguire feticisticamente non appena un film o un certo qual rotocalco di infimo livello dia loro occasione. Fatti, come quello qui in discorso, dovrebbero così contribuire a far “cadere la maschera” che tenacemente protegge non pochi miti ancor oggi in voga. Ad esempio, l’insensata fascinazione subita appunto da molti europei e, in genere, dai non-americani innanzi alla star cinematografica andrebbe, secondo noi, alquanto ridimensionata. In essa, lungi dal vedersi un prototipo da emulare e fanatizzare, bisognerebbe al contrario individuare i tratti di un’esistenza in fondo svuotata e anòdina, una vita priva di qualsiasi profondità che, per quanto ravvivata da una artificiale fosforescenza, dovrebbe nondimeno riuscire come insignificante e insulsa agli occhi di chiunque si provi ad esaminarla senza sfasature. Qui la nostra mente non può non correre alla moda dei matrimoni e divorzi a catena contrassegnante il vivere di quasi tutti gli attori più popolari, così come a quelle forme di depressione e di depravazione che, in casi estremi, sono valse a spingere, presso al consumo abnorme di droghe e alcool, note personalità al suicidio. Sono aspetti, questi, i cui lati tragici ed equivoci il mendace luccichìo promanante dalle cene di gala e dalle cerimonie degli oscar non basta certo ad mettere in ombra.

È in un simile quadro che s’innesta la nostra vicenda. Solo dopo aver ben messo in luce tutto ciò, ma non prima, è lecito far entrare in questione il sesso. Anche qui, non bisogna però dimenticare che non è di un affare privato che si sta discutendo, il sesso coi suoi risvolti problematici e, se si vuole, intimi occupando, nel complesso, una parte pressoché nulla. È invece ad un quadro di sessualità di massa che si è ben riportati. Per un lato, è da vedere quanto di giusto ha in genere rilevato uno scrittore nei riguardi della relazione fra sessualità e mondo dello spettacolo, con riferimento al fenomeno della “stella”. La “stella”, in realtà, rappresenta “un valore che può essere goduto dal singolo solo in quanto egli si tenga a distanza, rimanga nella massa e gli sia chiaro che la sua ammirazione, il suo entusiasmo, il suo desiderio sono soltanto parte dell’ammirazione, dell’entusiasmo, del desiderio di milioni di altri uomini”. Ma “questo valore si riduce a zero quando si voglia goderne in privato…Come una splendida medusa che galleggia variopinta nel mare, una volta pescata si trasforma in un’insignificante mucillagine, così i miraggi della sessualità di massa divengono vuoti di significato e noiossissimi in privato, e in effetti la promiscuità che quegli idoli praticano fra loro ricorda la gabbia delle scimmie” (E. Kuby, Rosemarie).

Dopo aver rilevato tale aspetto onde è ad un regno di pura quantità e di poltiglia umana che è assai più ragionevole ascrivere certi “scandali”, sarebbe prova di poco realismo non tener presente il valore mantenuto, in taluni ambienti, da un concetto viziato e distorto di potere. E qui, ovviamente, la questione sessuale passa in secondo piano, giacché è noto non dipendere dall’esser uomo o donna ciò che fa, in tali casi, la differenza. L’alto dispregio in cui è tenuto il concetto di “persona” avente proprie qualità e una propria integrità, la corruzione spicciola a cui si presta volentieri il fianco nonché un diffuso regime di prostituzione interna, ogni altro aspetto venendo poi fatalmente sacrificato a ragioni di concorrenza e ad un impuro agonismo, costituiscono forse fattori già di per sé bastevoli a spiegare l’essenza dell’universo facente da sfondo all’episodio. Tanto che vi sarebbe realmente da chiedere alle donne che oggi levano voci di unanime condanna perché, allora, anziché cedere ai ricatti e alle coercizioni, esse non siano state da tanto da far saltare il tavolo e opporre, per tal via, una più alta dignità ad un simile genere di mediocrità. Infine, non si può trascurare l’apporto che, di là da ogni cosa, uno stile più o meno puritano e inibito di valutare i rapporti fra sessi può aver giuocato nella contraffazione di tutta la vicenda.

Non altro, a voler procedere lungo la via di una giusta profilassi, andrebbe riconosciuto. Ma di ciò, per gli “analisti”, non è il caso: si preferisce fingere, anziché guardare la luna si osserva ottusamente il dito che la indica, e in una congiuntura in cui si tradisce palesemente un complessivo processo di caduta dal punto di vista dei valori e dei rapporti umani vissuti secondo quel che è personalità e intima drittura, prevale la tentazione di accusare unicamente gli effetti, certamente deleteri, propri al fenomeno della cosiddetta “violenza di genere”.

Nostra intenzione, naturalmente, non è quella di giustificare degli abusi solo perché consumati da uomini. Né d’altra parte facciamo in alcun modo professione di un volgare “maschilismo”, il cui concetto, anzi, ripugna all’idea di virilità da noi personalmente difesa. Ma riteniamo parimenti inaccettabile, lo ripetiamo, il ridurre a semplice questione di “genere” un fatto che appare tale, da investire il senso generale della vita e il modo in cui la vita viene vissuta e praticata in un mondo, quale quello hollywoodiano. Qui, peraltro, si ha una patente contraddizione, là dove qualche “brillante” e democratica penna nostrana vorrebbe scorgere, proprio in quel mondo, un modello di alta cultura e di “civiltà”…

Come si vede, siamo all’illogicità più pura. Là dove si intendessero aggiungere ulteriori aspetti, vi sarebbe da mettere in rilievo una quantità di contraddizioni e di stravaganze, per l’elencazione delle quali non vi è che l’imbarazzo della scelta. Ma il già detto, può bastare.

Una ultima, sommaria considerazione, in parte autonoma rispetto al contesto di tale articolo, la vorremmo invece dedicare alle polemiche destate, qui in Italia, dai fatti riportati. Come si è detto all’inizio, è soprattutto certo femminismo sopravvivente che ha sfruttato la vicenda per procedere ad un aggiornamento di alcune parole d’ordine. In margine a tale contesto, confessiamo di essere rimasti colpiti dal ricorso ad espressioni, quali “mondo patriarcale”, “potere virile”,  “superiorità del maschio” e simili. Anche a tale riguardo vi è da segnalare una certa confusione.

L’addurre come giustificazione per ogni genere di abusi e violenze (che vanno senz’altro oltre il fatto qui specificamente descritto) sulla donna il persistere, malgrado i “progressi”, di un modo di vedere e di pensare orientato al patriarcalismo e alla preminenza del maschile sul femminile, è cosa che può far valere solo chi non abbia la più pallida idea di ciò a cui corrispondono i valori virili nella loro originaria realtà. Non dovremmo esser noi a rammentare ad “antropologhe” e a “professoresse” una legge fondamentale: che là dove vi è violenza e brutalità, anche quando queste escano dalle mani di un uomo, non si dà mai vera virilità. O, per meglio dire, qui si può al massimo riandare alle forme proprie ad una virilità priva di luce e da nulla trasfigurata –  “titanica” – quale forse un Freud, un Adler, o qualche altro illustre cantore del mondo moderno poté concepirla. Anzi, portandosi un passo oltre e per avvalerci di una giusta deduzione di Otto Weininger, noi diremmo piuttosto: quale una donna – soprattutto una giovane donna moderna – può concepirla. Se già Nietzsche poté dire: “Misuro il valore di un uomo dalla capacità a lui propria di ritardare la reazione”, è di nuovo del Weininger la seguente espressione: “La volontà di chi brama la potenza non è libera, non parte da un atto, da una iniziativa pura”. È in un incondizionato atto, in quel genere di azione che nulla brama e nulla pretende con brutalità inquantoché, semplicemente, è – qui, per noi, risiede l’autentica scaturigine della virilità. Avendone avuta chiara coscienza, l’alta antichità a codesto carattere attribuì tratti e simboli ora olimpici, ora eroico-guerrieri.

Tale insieme di caratteri sta, propriamente, a differenziare un mondo intonato ai valori patriarcali. Di là da detta soglia, non si estende, praticamente, che l’orizzonte di una virilità isterica, già piegata al despotismo femminile. Quello dell’uomo “cacciatore”, dell’uomo che, onde dar prova della sua potenza, è chiamato a mostrarsi nei confronti del gentil sesso sempre “disponibile”, così come lo potrebbe essere una bestia nelle fasi apicali di fertilità riproduttiva, è un mito che non discende in alcun modo da una sfera di interessi raccolti sotto segno virile e paterno. Al contrario, l’orizzonte a cui purtroppo si arresta lo sguardo di molti sedicenti uomini d’oggi, è piuttosto quello di una virilità snaturata, reggentesi soltanto in virtù di un coefficiente biologico-materialistico più o meno attivo, ma a cui sono destinati a sfuggire nel modo più netto quei valori e quei crismi che, su di un altro piano, le potrebbero conferire un volto e uno spirito in vista di una rettificazione dei tipi.

Però, sull’altra sponda, non è che le cose stiano tanto diversamente. Non andremmo troppo lontani nel dire, che è all’ideale deteriore di virilità or ora accennato che la gran parte delle donne, specie se “femministe”, in linea di principio, pensa. Il punto vero è che allo sfaldamento e all’alterazione della linea virile in senso feroce e primitivistico, la donna attuale, in fondo, nulla di più alto sa e vuole opporre. Vi potranno essere qua e là delle eccezioni, ciò non lo neghiamo. Resta purtuttavia, come dato di fatto rilevabile da ognuno, la sconcertante acquiescenza del sesso femminile nei riguardi di quello stesso tipo brutale che, in altre circostanze, viene a rivelar la propria vera natura finendo per provocare distruzioni dalle conseguenze non di rado fatali. Ciò, lo ripetiamo, è qualcosa che investe un’epoca intera, attiene ad un cedimento tipologico, e sarebbe frivolo farne un presupposto impugnato in difesa di una generica lotta antivirile. È così che, in astratto, una donna, la quale eventualmente intendesse dar luogo ad un rivolta sì da invertire il moto discendente appena detto, dovrebbe iniziare col distruggere senza attenuazioni l’idea di uomo che essa, quale pallido simulacro di una più alta realtà, racchiude entro di sé. Ma questa può forse essere, in questi tempi di decadenza e di oscurità, null’altro che un’utopia?

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