Prospettive per un completamento della teoria della regressione delle caste nella ricostruzione evoliana

L’interazione osmotica tra Terza e Quarta Casta alla base del declino nell’ultima fase dell’era oscura

Nell’ambito del pensiero tradizionale riveste un ruolo particolarmente importante la teoria della cosiddetta regressione delle caste, presentata, tra gli altri, da Julius Evola, con un primo cenno in Imperialismo pagano (1928) ed un successivo maggiore sviluppo in Rivolta contro il mondo moderno (1934) nonché, nello stesso anno, nell’articolo Sulla caduta dell’idea di Stato (apparso su “Lo Stato”, V, 2 febbraio 1934, e poi inserito nella raccolta di scritti evoliani L’Idea di Stato, per le edizioni Ar, edita per la prima volta nel 1970). Dell’argomento si sono poi occupati, in forma estesa e sistematica, René Guénon (Autoritè spirituelle et pouvoir temporel, 1929) e, seppure in via molto autonoma e, secondo lo stesso Evola, con esagerazioni estremistiche, da H. Berls (Die Heraufkunft des fuenften Standes, 1931).

Secondo questa teoria, com’è ampiamente noto ai lettori, si ha nel corso della storia una discesa progressiva ed irreversibile nell’attribuzione del potere, e, conseguentemente, nel tipo di civiltà che ne deriva, dall’una all’altra delle quattro caste tradizionali (capi sacrali, nobiltà guerriera, “borghesia” mercantile e servi), corrispondenti peraltro alle quattro funzioni degli organismi umani, in connessione gerarchica tra loro (spirito, volontà, sistema della vita vegetativa, sistema delle energie indifferenziate e prepersonali della pura vitalità)[1].

La teoria della regressione delle caste è strettamente connessa con la dottrina, altrettanto tradizionale ed altrettanto nota, delle quattro età[2], secondo la quale la storia, all’interno di ogni ciclo cosmico, è soggetta ad un processo involutivo di decadenza spirituale, egualmente progressivo ed irreversibile, che conduce, in quattro sequenze temporali di durata più o meno ampia, da un’età primordiale dominata dagli stati superiori dell’Essere e dai princìpî di verità, stabilità, solarità e gloria in senso trascendente, emanazioni di una legge tradizionale di origine non umana (l’età di Saturno della tradizione romana, l’età dell’oro della tradizione ellenica, iranica ed eddica, il satyâ-yuga o krtâ-yuga della tradizione induista) ad un’età finale interamente condizionata e dominata dall’elemento umano sconsacrato e de-spiritualizzato, e di conseguenza fondata sugli stati inferiori del divenire e sui princìpî antitradizionali del materialismo, del relativismo, dell’individualismo, dell’egualitarismo livellatore ed antigerarchico, della commistione di caste e funzioni. Un’età caratterizzata dal caos e dal disordine, dall’empietà, dalla violenza, dall’ingiustizia e da un generalizzato decadimento di ogni facoltà dell’essere umano, ormai abbandonato a sé stesso, senza alcun riferimento trascendente di ordine superiore, ed in cui le stesse religioni si presentano con tratti abbondantemente decadenti e per lo più, necessariamente, essoterico-soteriologici (l’età del ferro della tradizione greco-iranica e romana; il kali-yuga o età nera, oscura della tradizione induista; l’età del lupo della tradizione eddica).

Questa intima relazione tra le due suddette dottrine quadripartite si stabilisce, secondo la ricostruzione evoliana, per una doppia via: in primo luogo, in virtù della concezione che del tempo e del trascorrere degli eventi aveva l’uomo tradizionale, una concezione ciclica svincolata dall’elemento meramente quantitativo e fondata invece sull’organicità, che consentiva di sviluppare corrispondenze analogiche fra grandi e piccoli cicli, e così tra un ritmo quadripartito a carattere più universale, come quello che si ritrova nella dottrina delle quattro età, ed uno a carattere più storico e ristretto, come quello sviluppato nella dottrina della regressione delle caste.

In secondo luogo, in virtù del fatto che nella gerarchia tradizionale delle quattro caste possono ritrovarsi cristallizzati ed ordinati, secondo l’immutabile legge dell’Essere, come “strati sovrapposti del tutto sociale”, quei caratteri e quelle forze che, attraverso la dinamica regressiva del divenire storico, avrebbero caratterizzato ciascuna delle quattro età o generazioni del ciclo storico più ampio[3].

Partendo da queste premesse, chi scrive vuole tentare di offrire un contributo, che tale vuole essere e nulla più, per completare la maestosa opera che Julius Evola sviluppò con Rivolta contro il mondo moderno, studiando più da vicino l’interazione articolata ed osmotica della terza e quarta casta, nel contesto dell’attuale fase finale della quarta età del nostro ciclo cosmico. Analisi che nella costruzione evoliana rimase necessariamente monca a causa della scomparsa del grande maestro avvenuta nel 1974, quando si era ancora in piena guerra fredda e il gigante sovietico non solo continuava a rappresentare una seria minaccia per l’Europa ed il mondo intero, ma si ergeva anche a modello di riferimento della civiltà dello “schiavo da fatica e dell’uomo-massa”, come la definì Evola stesso, la civiltà dell’ultima casta, “con conseguente riduzione di ogni orizzonte e di ogni valore al piano della materia, della macchina e del numero (…)”, in cui ”il nuovo ideale è quello ‘proletario’ di una civiltà universale comunista[4], del “servizio anodino all’ente collettivo socializzato” e sorge “l’etica universale proletaria del lavoro (…), con degradazione di ogni forma umana superiore di attività appunto in assunzioni sotto specie di ‘lavoro’ e ‘servizio’, cioè di quel che solo era il ‘dovere’, il ‘modo d’essere’ dell’ultima delle caste[5].

Già nelle edizioni più recenti di Rivolta, in una delle tante nota esplicative ed integrative inserite, in sede di revisione, a cura di Gianfranco de Turris, si sottolineava come la teoria della regressione delle caste nella ricostruzione di Evola non fosse contraddetta dalla crisi dei regimi di socialismo reale dopo la caduta del muro di Berlino; ciò non solo perché la crisi suddetta non avrebbe necessariamente rappresentato la vittoria definitiva dell’ideale liberale-liberista di cui è portatrice la “casta dei mercanti”, ma anche e soprattutto perché Evola stesso ha sempre insistito sul fatto che americanismo e bolscevismo altro non rappresentavano se non la faccia di una medesima medaglia[6].

Da questo punto occorre riprendere e sviluppare il discorso.

Se ancora negli anni Settanta il modello di riferimento per la compiuta realizzazione della civiltà (o, per meglio dire, sottociviltà) della quarta casta era quello del comunismo sovietico, si può osservare come oggi tale modello sembra essere inequivocabilmente quello attuato attraverso l’operare del capitalismo globalizzatore giunto al suo livello più estremo, in cui si supera la dimensione puramente economica in senso stretto, propria al liberismo individualistico delle origini, quello del laissez-faire, laissez passez e della mano invisibile di Adam Smith, per approdare ad un contesto in cui l’intera società è plasmata dagli anti-valori del materialismo nella sua accezione più ampia, comprensiva dunque non solo del produttivismo e del consumismo, ma anche del monadismo, dell’edonismo, del relativismo, del laicismo, del progressismo evoluzionistico, dello scientismo, della sessualità mercificata e degradata, dell’egualitarismo livellatore, della massificazione e così via.

L’attuale società si presenta dunque come una sorta di “prodotto” ulteriore ed estremo (la scelta dei termini “società” e “prodotto” non è casuale, ma correlata alla mentalità materialistica ed economicistica moderna[7]) dell’esasperazione e della traslazione degli effetti del dominio della terza casta, traslazione come si diceva da un piano economicistico di partenza ad un piano materialistico più generale. La realizzazione del dominio della casta dei servi si realizza in tal modo in maniera ancor più compiuta di quanto non sia avvenuto attraverso l’opera dei regimi comunisti, poiché la massificazione, la standardizzazione, l’elevazione a regola delle condotte e degli istinti più inferiori attinenti ad una sfera biologico-vitalistica di ordine pre-personale si sta realizzando spontaneamente come effetto dell’(indotto) trionfo del democratismo, più che come effetto forzatamente provocato da un totalitarismo che si manifesti sotto le insegne della falce e del martello[8].

La sotto-civiltà della quarta casta rappresenta in effetti il trionfo delle moderne democrazie che ruotano, ipocritamente, intorno al totem del popolo-demos, massa informe da indottrinare ed inquadrare come collettivistica ma allo stesso tempo atomizzata ed artificiosa entità, frutto della riunificazione forzata di tanti frammenti dispersi: gli individui abbandonati a sé stessi, convinti che il proprio microcosmo e la propria esistenza sia il fine ultimo di ogni cosa. Monadi apparentemente autosufficienti, perdute in un eterno presente fatto di stacanovismo produttivistico e materialistica sopravvivenza, di piaceri artificiali e nuove dipendenze. Individui senza passato né futuro, terrorizzati dal senso della “durata” e del radicamento, immersi in una realtà da vivere sempre alla massima velocità, in perenne attesa del fine-settimana (o alla ricerca ossessiva di un “ponte” infrasettimanale o qualche ora di tempo negli infernali ritmi lavorativi moderni) per poter raggiungere una qualunque forma di appagamento e di benessere, il più immediato ed intenso possibile, e quindi inevitabilmente il più superficiale e materialistico possibile (non fanno eccezione le esperienze mistico-caricaturali in stile “new-age” o naturistico, da vivere sempre come esperienze “a tempo”, emozioni da fine-settimana, parodie da neo-spiritualismo guenoniano o seconda religiosità spengleriana), per sfuggire alle soffocanti schiavitù moderne. In tal modo, da una schiavitù si cade in un’altra, in un continuo, irrisolvibile circolo vizioso[9].

Non c’è scampo per chi, come l’individuo moderno, ha reciso ogni legame esterno di tempo o di spazio, per chi ha smarrito completamente la percezione di archetipi assoluti, ormai nascosti negli antri più bui del proprio inconscio collettivo, come direbbe Jung, quali la spiritualità, la gerarchia, la stirpe, la comunità organica, il senso d’appartenenza.

Queste monadi sperdute sono altresì convinte di poter racchiudere in sé qualunque potenzialità, non hanno il “senso del limite”, dell’autocontrollo, né la consapevolezza di essere soltanto parti di un tutto; credono, invece, di essere un tutto rinchiuso e limitato in una “parte”, cioè in un contesto (sociale, culturale, ecc.) soffocante e di poter perciò legittimamente ambire a raggiungere qualunque (materialistico) traguardo personale, persi in una sorta di delirio di onnipotenza frutto di una ipertrofica esplosione del proprio ego, “pompato” dagli ormoni del democraticissimo livellamento orizzontale (inevitabilmente verso il basso) di tutto e tutti.

Esattamente l’inverso di quanto avveniva nelle comunità tradizionali, in cui il senso del limite e della durata, la concezione ciclica ed analogica del tempo, la sacralità e la ritualità dell’esistenza scandivano la vita degli uomini; comunità in cui gli ordinamenti civili erano concepiti come un corpo unitario, dalla salde fondamenta spirituali, in cui i singoli erano organicamente inquadrati in un ben preciso sistema gerarchico e funzionale (non forzoso, ma naturale) che comportava un’adesione spontanea e consapevole di ogni soggetto, che cessava perciò di essere un mero singolo per diventare persona, armonicamente inquadrata e realizzata in un contesto più ampio e perfettamente strutturato.

Attilio Mordini descrisse molto bene queste due opposte concezioni della comunità/società: ”Dalla concezione di un’universalità come corpo mistico, si passa a quella di una collettività come meccanismo (…). Si tratta perciò di una vera e propria inversione di valori. Il corpo vivo e organico muove sempre dall’unità (…): il contrario avviene invece per la macchina, la cui fabbricazione muove dai singoli pezzi che hanno poi da esser montati in una pseudo-unità. E così la rivoluzione francese, con il suo individualismo, porta a compimento l’opera iniziata dalle forze del male con il Rinascimento sì da presentarci ciascun individuo come un pezzo singolo; e subito dopo, la rivoluzione socialista di incaricherà di montare il meccanismo dello stato proletario. Fino alla rivoluzione francese, le potestà del male si son date metodicamente a distrugger l’ordinamento civile tradizionale, mentre con la rivoluzione socialista inizia la fase pseudopositiva del falso ordine (…)[10]. E ancora: “L’uomo ha una storia proprio perché non è soltanto continuità, quasi esasperazione nel tempo, ma è prima di tutto spiritualità, e quindi eternità. L’uomo è soprattutto Verbo; e quando cessa di sentire il simbolo del Corpo Mistico (di cui il Cristo è Capo) come unità del suo ordinamento civile, quando al simbolo del corpo si sostituisce lo schema meccanico dello stato moderno, una pietosa inversione s’è operata nel suo linguaggio, nel suo pensiero, nelle sue aspirazioni. Infatti, mentre l’unità dell’organismo precede, nel feto che attende di venire alla luce, il profilarsi s’ogni membro e d’ogni arto, nel meccanismo son i singoli pezzi che precedono il montaggio dell’intero … e così dagli individui usciti dalla Rivoluzione francese del Terzo Stato, monta il suo complicato macchinario il Quarto stato della Rivoluzione comunista. L’individuo è materia segnata di quantità (n.d.s. – si tratta della materia signata quantitate di cui parla San Tommaso D’Aquino), e individualismo è già materialismo; massa e individuo sono due concetti da porsi sullo stesso piano[11]. Si può osservare come anche Mordini faccia riferimento proprio alla rivoluzione socialista come tassello finale del quadro decadenziale moderno, come fase che avrebbe completato la costruzione del “meccanismo” dai singoli pezzi svincolati e quindi, fuor di metafora, avrebbe costruito la sotto-civiltà materialistica del livellamento de-spiritualizzato e della tirannia delle masse anonime e mostruose, come direbbe Adriano Romualdi: è evidente l’analogia col pensiero evoliano circa il domino finale dell’ultima casta tramite la società proletaria dello schiavo da fatica e dell’uomo-massa sopra citata. Interessante è poi il punto d’approdo finale (“individualismo è già materialismo; massa e individuo sono due concetti da porsi sullo stesso piano”), che si riallaccia sia al discorso fatto poc’anzi circa l’idea del popolo-demos come collettivistica ma allo stesso tempo atomizzata ed artificiosa entità, sia, quindi, all’osservazione di Evola circa la sostanziale equipollenza di fondo tra individualismo americano e collettivismo sovietico, su cui si tornerà.

Proseguendo il discorso circa l’esasperazione e la traslazione degli effetti del dominio della terza casta da un piano economicistico di partenza ad un piano materialistico più generale, si può notare come questa operazione di assemblaggio del meccanismo, dopo essere stata avviata dalle rivoluzioni dei regimi di socialismo reale, laddove essi hanno trovato concreta attuazione, viene portata a compimento in modo globale proprio dalla “dittatura del democratismo” e, conseguentemente, del relativismo: espressione solo apparentemente contraddittoria, perché il realtà il democratismo viene imposto, né più né meno che qualunque altro sistema politico, con i suoi dogmi laicisti e materialistici, le sue perversioni, le sue censure, il suo innaturale livellamento anti-gerarchico di tutto e tutti verso il basso, salvo poi avviare negli individui così materialisticamente “deificati”, come accennato in precedenza, un processo spontaneo di de-spiritualizzazione, auto-esaltazione (che conduce poi ad un egocentrismo narcisistico ed a quella sorta di delirio di onnipotenza di cui si parlava poc’anzi), massificazione, standardizzazione, elevazione a regola delle condotte e degli istinti più inferiori e meccanicistici dell’uomo.

La sotto-civiltà della quarta casta trova così nel democratismo il suo trionfo: in un quadro di “autogestione” ed autosufficienza dei singoli individui in ogni ambito della “società” (economico, sociale, culturale, etico e così via), secondo i dettami del liberalismo più estremo, in cui lo Stato viene ridotto a mero garante ed arbitro del libero ed eguale manifestarsi delle suddette libertà, anche il potere politico viene (ipocritamente) attribuito, non si sa bene in virtù di quale principio a monte e da chi, al popolo-demos, il quale elegge i propri “rappresentanti” delegando loro l’esercizio concreto del potere medesimo, ormai totalmente sconsacrato e burocratizzato. La legittimazione all’esercizio di questo potere politico totalmente materializzato proviene dunque dal basso, il superiore (da un punto di vista teorico, ma che concretamente non può più essere tale nell’epoca moderna) viene fatto derivare dall’inferiore, la classe dirigente è quella scelta dalla volontà della massa anonima, irrazionale, incostante e soggetta al plagio ed all’influenza di fattori o di forze esterne di varia natura. Il che genera un pericoloso, incontrollabile ed imprevedibile manifestarsi dell’elemento demonico pre-personale lasciato libero e non più correttamente inquadrato in un sistema organico e gerarchico. Si rovescia dunque completamente la prospettiva tradizionale delle origini, in cui il potere civile (e spirituale allo stesso tempo) veniva esercitato tramite l’azione di re e capi sacrali che traevano la loro legittimazione direttamente dalla sfera divina, dunque dall’alto e non dal basso, esercitando un potere che aveva anch’esso, necessariamente, un carattere spirituale e metafisico, fondandosi su princìpî di origine non umana.

In questo contesto, si assiste alla definitiva imposizione a tutti i livelli, nell’ambito di una società materializzata, delle caratteristiche e degli anti-valori dell’uomo-individuo che rappresenta appunto l’archetipo della quarta casta al potere, dominus incontrastato del mondo moderno, materia signata quantitate, come diceva San Tommaso d’Aquino, nuovo “eroe” e punto di riferimento.

Ed è così che oggi i veri “modelli” da seguire sono proprio coloro che in sé racchiudono in modo più compiuto la summa degli anti-valori dell’uomo-massificato e dell’uomo-individuo, e che quindi agli occhi di questo (sotto)tipo di uomo rappresentano l’optimum da raggiungere. Questi modelli di riferimento costituiscono, pertanto, una sorta di re al contrario, di “primi tra gli ultimi”, di leaders della contro-iniziazione, che traggono appunto legittimazione, potere e gloria dal basso, dalla materia sconsacrata ed inanimata.

Questo trionfo è indotto dalla traslazione di cui si parlava, per cui il capitalismo globalizzatore moderno estende i suoi princìpî fino ad affermarli quali regole generali in una dimensione completa ed onnicomprensiva. Si pensi ai metodi manageriali della concorrenza e del libero mercato, tipici dell’impresa privata, che si vorrebbe applicare ad altri dominî esterni a quello puramente economico-produttivo: la struttura delle università e della scuola, la nuova Pubblica Amministrazione, il sistema sanitario, e così via[12]. Ovviamente già nell’epoca dei mercanti i princìpî sottesi all’attività economica cominciavano a manifestarsi in altri ambiti, dato che inevitabilmente, per usare parole evoliane, “la regressione quadripartita non ha solo carattere politico-sociale e psicologico, ma è anche quella di una data etica in una inferiore, di una data concezione della vita in una inferiore[13]. Tuttavia, si può osservare che la completa realizzazione di questa inevitabile “invasione di campo” che, in ogni epoca, fa sì che i dettami propri di un dato ambito di riferimento (diffusione della tensione dello spirito dall’ambito politico-sacrale nella prima età; diffusione del potere libero che muove dal corpo, dall’ambito eroico-guerriero nella seconda età; diffusione di forze sub-personali della compagine corporea dall’ambito dapprima mercantile nella terza età e poi demonico – nell’accezione classica e non moderna del termine- nella quarta) si riversino negli altri dominî delle attività e delle facoltà umane, avviene proprio nell’ultima fase.

E’ interessante notare che questa traslazione trasfigurante ed inglobante è stata indotta proprio dall’avvento e dal successivo superamento dei regimi di socialismo reale, il cui ruolo e funzione, in quest’ottica così osmotica ed interattiva, assume un colore del tutto particolare.

In effetti, i regimi comunisti, ad un dato momento, nascono e si sviluppano sino a raggiungere un certo apice, fino a porsi in lotta frontale col “nemico” capitalistico, su un piano di mero materialismo economico che rappresenta la matrice comune di entrambe le dottrine: infatti ad un dato momento determinate istanze, già presenti nella storia sotto diverse forme e spesso agenti in dominî di svariata natura, hanno trovato forma compiuta e finale nel XIX secolo, a seguito della rivoluzione industriale, incanalandosi in un contesto strettamente economico (salvo le prime “invasioni di campo” cui si accennava), proprio dell’epoca della terza casta, dapprima nel capitalismo e poi nel comunismo, che nasce solo formalmente quale risposta opposta e contraria alle deviazioni del capitalismo (pur sempre ed unicamente su un piano materialistico-economicistico). Dietro l’apparenza, infatti, si nasconde una matrice e quindi una natura comune che rende nulle le differenze sostanziali e che giustifica l’avviamento, tramite quell’apparente scontro frontale, di un processo assimilabile a quello che costituisce la struttura portante del sistema filosofico dell’Idealismo hegeliano: un processo dialettico che si svolge attraverso tre fasi, in cui la tesi può essere rappresentata dal fenomeno capitalistico giunto al suo apice, l’antitesi dai regimi comunisti storicamente manifestatesi, la sintesi finale dal trionfo dei princìpî alla base del capitalismo e più in generale del materialismo stesso, che come detto traslano su un piano più generale rispetto a quello meramente economico, sviluppandosi ipertroficamente e globalmente su tutti i piani della realtà attuale e contribuendo alla piena realizzazione della sottociviltà dell’ultima casta.

In effetti, per rimanere in un ambito proprio allo schema della triade dialettica hegeliana, la tesi è il mercantilismo individualistico che si autodefinisce realizzandosi compiutamente e storicamente nell’epoca della terza casta, assumendo forme e relazioni che ne definiscono la dimensione del proprio essere e della propria (anti)funzione storica. Nell’antitesi il materialismo economicistico proprio al capitalismo si aliena a sé stesso, si esteriorizza nella propria antitesi (a = non a), cioè nel comunismo, che infatti, ricordiamolo ancora, ha la sua medesima natura[14].

Proprio l’identità di natura consente di seguire la stessa logica dei contrari o degli opposti che è sottesa alla dialettica hegeliana anche in questo contesto. Superata questa fase, la sintesi finale è proprio la definitiva espansione di tutti gli elementi negativi emersi nella terza epoca, che consentono la piena realizzazione del dominio della casta dei servi nella quarta: gli elementi antitradizionali emersi nella terza fase, nel ritornare a sé, si fanno coscienti e trasparenti a sé stessi nella consapevolezza del proprio processo dialettico e si espandono ipertroficamente occupando ogni spazio della vita delle comunità moderne. Si assiste così ad una sorta di passaggio, per riprendere un linguaggio guenoniano, da una fase a carattere meramente negativo (antitradizione) ad una a carattere positivo (controtradizione): è una sorta di risveglio e di irruzione di forze elementari subumane che, attraverso le strutture del mondo moderno, assumono una loro autonomia sganciandosi dagli uomini che le hanno evocate e trascinando questi ultimi verso il disfacimento.

E’ da notare come l’applicazione dello schema della triade hegeliana al nostro caso sembra trovare una sua logica da un punto di vista, si potrebbe dire, ontologico, dal momento che l’Idealismo è una tipica filosofica del divenire, contrapposta com’è noto alle filosofie dell’Essere. In un’ottica di analisi del puro divenire storico (pur con tutte le implicazioni metafisiche ad esso sottese), l’utilizzo di questo modello risulta probabilmente molto efficace; l’effetto può risultare poi ulteriormente amplificato laddove tale modello venga utilizzato per studiare realtà fenomeniche che si verificano in una fase come quella odierna, cioè la fase finale di questo ciclo o periodo cosmico, dove il divenire inevitabilmente prevale sull’Essere.

Ovviamente non può passare inosservato il fatto che il metodo dialettico hegeliano è proprio di una filosofia immanentistica come quella dell’Idealismo, e che Marx ed Engels lo ripresero per sviluppare le fondamenta concettuali della propria costruzione filosofica (elaborando il cd. materialismo dialettico, che è alla base del materialismo storico).

Tuttavia ciò non deve necessariamente influire negativamente sulla possibilità di utilizzo di questo metodo, laddove si osservi in primo luogo che esso si riallaccia ad una visione triadica che, ripresa da Hegel, ha delle radici antichissime e quindi una sua validità intrinseca che prescinde dall’uso, anche improprio, che concretamente ne può essere stato fatto[15].

Inoltre, la ripresa del metodo dialettico da parte di Marx ne comportò, com’è noto, un’alterazione notevole, dal momento che nell’accettarne la valenza dinamica, che era funzionale, nella sua interpretazione, a giustificare determinate istanze rivoluzionarie nella storia, il filosofo di Treviri si rifece all’interpretazione della cosiddetta sinistra hegeliana ed in particolare al pensiero di Feuerbach che, rovesciando di fatto il sistema hegeliano, ridusse la teologia ad antropologia materialistica ed individuò, nell’esaltazione del tema della coscienza infelice, la genesi dell’alienazione religiosa. Non a caso Marx disse: “Occorre rimettere sui piedi ciò che Hegel ha posto sulla testa”, riconducendo così ogni aspetto della realtà umana solo ed unicamente alle condizioni materiali di vita dell’uomo: idee, istituzioni, pensiero, spiritualità avevano dunque un fondamento reale solo in quanto espressione di oggettive strutture sottostanti (economiche e sociali). Il metodo dialettico, che nello schema hegeliano era fondato sullo Spirito, visto come entità alla base del divenire storico, veniva così rovesciato da Marx, che lo fondò sulla supremazia della materia, di cui i fenomeni spirituali o comunque sovra-materiali nell’essere umano erano un mero prodotto, una sovrastruttura priva di una sua autonomia ontologica.

E’ evidente che questa alterazione del pensiero hegeliano fa sì che l’uso fatto in questa sede del metodo dialettico sia scevro da tali implicazioni materialistiche.

La dialettica nel sistema di Hegel, d’altronde, pur avendo un carattere immanentistico (l’Idealismo costituisce l’impianto filosofico del Romanticismo), concepiva il divenire eterno del mondo come il riflesso dell’ininterrotta attività creatrice dell’Io universale, e la stessa religione, pur al di fuori di dogmatismi e confessionalità, quale manifestazione, rappresentazione oggettiva dello Spirito Assoluto: pur trattandosi di forme spirituali immanentistiche, si trattava pur sempre di forme spirituali, e l’interpretazione strettamente materialistica marxista non ne è, appunto, che un rovesciamento, una contraffazione.

Potrebbe dunque risultare interessante studiare le possibili applicazioni del metodo dialettico, nell’accezione suesposta, ad altre situazioni storiche, modulandone l’uso in relazione alle diverse fasi della storia: se ne potrebbe ipotizzare un uso più piano e lineare man mano che ci si avvicina all’epoca odierna, ed un uso più esemplificativo, analogico e, si potrebbe dire, allegorico, con riferimento ad epoche in cui il mero divenire non aveva ancora assunto una posizione preminente rispetto all’immutabilità dell’Essere. Tutto questo richiederebbe ovviamente uno studio a parte, da valutare e verificare.

Lo stesso Evola si soffermò in qualche modo sul peculiare fenomeno cui si è accennato[16], sottolineando tra l’altro come all’atomismo in cui era precipitato l’uomo moderno, a seguito dello sgretolamento progressivo della visione tradizionale, in virtù della legge di azione e reazione doveva seguire una “limitazione collettivistica”, che a parere di chi scrive trova compiuta realizzazione attraverso il processo dialettico suddetto, che mediante l’antitesi del collettivismo comunista fa approdare l’uomo moderno al collettivismo anonimo, inorganico e caotico della società moderna, ormai estesosi in modo compiuto a tutti i dominî: “il senza-casta, il servo emancipato e il paria glorificato – l’ ‘uomo libero’ moderno – ha di contro a sé la massa degli altri senza casta, epperò, alla fine, la bruta potenza del collettivo. Per questa via, il crollo si continua, dal personale si retrocede nell’anonimo, nel branco, nella pura, caotica, inorganica quantità. (…) Così i moderni hanno cercato di supplire all’unità, che nelle società antiche era data dalle tradizioni viventi e dal diritto sacro, con una unità esteriore, anodina, meccanica, nella quale gli individui sono costretti senza aver più fra di loro nessun rapporto organico e senza poter scorgere alcun principio o figura superiore, grazie a cui l’obbedire sia anche un consentire e la sottomissione sia anche un riconoscimento e una elevazione[17]. E si ritorna anche a quanto detto sopra, con riferimento alle osservazioni di Attilio Mordini ed al discorso del popolo-demos moderno, definito da chi scrive come “massa informe da indottrinare ed inquadrare come collettivistica ma allo stesso tempo atomizzata ed artificiosa entità”.

D’altronde lo stesso Evola aveva in qualche modo ben presente che l’operare della terza e della quarta casta assumeva connotati osmotici nel processo decadenziale, al di là del discorso sulla comune base materialistica tra capitalismo e comunismo: “Separare la caduta lungo le vie dell’oro (era dei mercanti) da quella lungo le vie del lavoro (era dei servi) non è agevole, perché le due cose sono interdipendenti”, scrive infatti Evola, aggiungendo in linea con quanto si accennava che “è possibile distinguere approssimativamente una fase in cui la volontà di guadagno di singoli individui che vanno ad accentrare la ricchezza e quindi il potere, è il motivo centrale, fase che corrisponde propriamente all’avvento della terza casta, da una fase ulteriore in sviluppo, caratterizzata da una economia sovrana quasi indipendente o collettivizzata (avvento dell’ultima casta)[18]. Ed infatti si è sottolineato come nelle società attuali l’economia (d’impronta capitalistica) abbia nettamente soppiantato la politica, imponendosi come modello assoluto, entità ormai resasi indipendente e sovrana, in grado di imporre le proprie regole tecnico-meccanicistiche a tutti gli altri dominî della realtà, materializzandoli e svuotandoli d’ogni residuo di ordine superiore, fosse anche ormai ridotto a mera convenzione o consuetudine, e creando appunto il presupposto per il passaggio da un individualismo atomistico ancor prevalentemente di tipo economico, per quanto già in via di diffusione negli altri dominî (individualismo liberale proprio del capitalismo della prima fase), ad un collettivismo dapprima con le stesse caratteristiche, e cioè prevalentemente economico ma già particolarmente e maggiormente esteso in altri ambiti, in virtù di un processo di accelerazione connesso ai processi decadenziali che attraversano la storia ed alla dialettica tesi-antitesi secondo la logica degli opposti (collettivismo comunista), e, successivamente, di tipo disorganico, anonimo, materialistico, subumano, secondo quanto si osservava prima, esteso ad ogni settore della società e totalizzante (collettivismo “atomistico” proprio del capitalismo della seconda fase e della società materializzata odierna).

Il passaggio ulteriore sarà, presumibilmente, quello del definitivo crollo[19], della fine del ciclo o periodo attuale, perché è evidente che, giunti all’odierno livello di anonimato disorganico e subumano di cui si è parlato, non esiste un grado più basso cui scendere (si potrà solo continuare la caduta fino a toccare i punti più infimi di questo livello): questa massa caotica, magmatica ed informe dovrà probabilmente costituire la materia prima da cui ricreare e riplasmare un nuovo mondo organico e spirituale, una realtà che dovrà necessariamente, in forme a noi ormai sconosciute ed inaccessibili, attingere ancora alle inestinguibili fonti dell’Essere, al fine di, a seconda della tesi sposata, sancire l’inizio di un nuovo ciclo o la definitiva conclusione dell’esperienza umana e la sua riassunzione in seno al Divino.

Note


[1] Come specificato dallo stesso Evola, questa quadripartizione ha carattere realmente “tradizionale” in quanto essa, oltre nella civiltà induista, si riscontra, in forma più o meno completa, in varie altre civiltà: Egitto, Persia, Ellade, Messico, fino al Medioevo europeo (dove si ebbe una suddivisione tra servi, borghesia, nobiltà, clero). “Qui si tratta di applicazioni più o meno complete, ora in sede di classi, ora in sede di caste vere e proprie, di uno stesso principio, il cui valore è indipendente dalle sue realizzazioni storiche e che, in ogni modo, ci presentano uno schema ideale atto a farci comprendere il vero senso dello sviluppo storico-politico dalla soglia dei cosiddetti tempi storici fino ai nostri giorni” (L’Idea di Stato, Padova, 1994, p. 28). Tuttavia è bene ricordare che, secondo la nota ricostruzione di Georges Dumézil, l’elemento caratterizzante in particolare le popolazioni indoeuropee è la tripartizione funzionale; “la scoperta, cioè, del fatto che non solo e non tanto i nostri progenitori praticassero una «divisione del lavoro» in tre ordini, o ripartissero la società e il loro pantheon in tre classi, ma che più in generale avevano definito, teorizzato questa divisione facendone (…) una concezione globale dell’universo e dell’uomo e delle forze e tendenze che li creano e li sottendono, una riflessione sugli equilibri, le tensioni e i conflitti necessari al buon funzionamento del mondo come della città, del popolo degli dèi come di quello degli uomini” (Stefano Vaj, Radici indoeuropee dell’Europa, su http://www.uomo-libero.com/images/articoli/pdf/46.pdf ). Le tre funzioni individuate da Dumézil (nella nota opera L’ideologia tripartita degli indoeuropei) sono esattamente da ricondurre alla prime tre caste della quadripartizione di cui sopra: sovranità regale e sacerdotale, nobiltà guerriera, mercanti. Ancora Stefano Vaj nota come la tripartizione, “presente nell’uomo come nell’ordine cosmico”, i cui echi storici arrivano molto in profondità nella storia (fino alla suddivisione tra oratores, bellatores e laboratores nel Medioevo ed ai tre Stati della Francia prerivoluzionaria), abbia trovato un’espressione compiuta oltre che nella civiltà indiana (nella quale arriva fino ad oggi, inevitabilmente decaduta, “in forma fossile sotto l’aspetto di una serie di tabù e di usanze vagamente ereditarie”), dove trasse origine dalla divisione degli invasori indoeuropei nelle classi dei brahmini, degli kshatrya, dei vaiçia, anche nelle altre civiltà di ceppo indoeuropeo: in Persia (dove il leggendario re Jamsed aveva istituito le classi degli arâsvan, arteshtar, vâstryôsh, affidando ad esse compiti e privilegi secondo il suddetto modello), presso i Celti (dove troviamo i druidi, i flaith -aristocrazia militare- ed i bo airig –uomini liberi possessori di buoi-), nel mondo latino (“dove, anche se è discussa l’esistenza storica di una tripartizione sociale, ritroviamo cenni di questa struttura nella tradizione delle tre tribù che hanno originato Roma: i Ramnes, i compagni di Romolo. i Luceres, i guerrieri etruschi di Lucumone, i Titienses, ovvero i sabini di Tito Tazio, ricchi allevatori di bestiame e vittime del ratto delle Sabine: ancora all’epoca della stesura dell’Eneide, d’altra parte, Virgilio dà un significato trifunzionale abbastanza trasparente ai popoli che si uniranno nella fondazione di Alba, assegnando ad Enea e al nucleo troiano la prima funzione, agli etruschi la seconda, ai latini la terza”) ed in Grecia (dove “l’ideologia tripartita, ben presente nei miti”, trovò “una delle più esplicite teorizzazioni etiche, politiche e psicologiche nell’opera di Platone”, in cui, suggerisce Evola, –Rivolta contro il mondo moderno, Roma, 2007, pag. 135- “le caste corrispondevano a poteri dell’anima e a determinate virtù: ai dominatori, arkontes, ai guerrieri, fùlakes o epikouroi, e agli operai, demiourgoi, corrispondono così lo spirito, nous, e la testa, l’animus, thumoeidés, e il petto, la facoltà di desiderio, epithumetikòn, e la parte inferiore del corpo: sesso e nutrimento. Così l’ordine e la gerarchia esterna corrispondono ad un ordine e ad una gerarchia interna, secondo giustizia”  (…). Continua S. Vaj: “A parte le applicazioni cosmogoniche, cosmologiche e religiose, alle tre funzioni si lega una teoria antropologica -uomini d’oro e d’argento, di ferro e di bronzo in Platone-, una teoria fisiologica -cervello, cuore e sistema digerente-, una teoria dei colori -bianco, rosso e nero-, una teoria psicologica improntata alla dottrina delle “tre anime”- anima razionale, irascibile e concupiscibile, che del resto corrispondono a dharma, kâma e artha-”.

Alla luce di quanto esposto, la quarta casta va dunque considerata come residuale rispetto alle tre principali; si tratta di una “categoria” comprendente evidentemente la massa anonima, la componente “demonica” dominata e percorsa da energie proprie di un vitalismo sub-personale potenzialmente molto pericoloso che doveva essere costantemente tenuto sotto controllo ed incanalato grazie all’articolazione organica e gerarchica delle varie componenti sociali (al riguardo Evola ricorda, in L’idea di Stato, cit., p. 26-27, che “uno degli autori moderni citati (…), il Berl, parte da una concezione dinamico-antagonistica della gerarchia tradizionale, quasi di lotta fra cosmos e caos: l’aristocrazia sacrale incorporerebbe il “divino” nella sua funzione olimpica di ordine, e la massa il “demonico” –non nel senso morale cristiano, ma nel senso di puro elemento naturalistico-: l’uno tenderebbe a trascinare con sé  l’altro, e ciascuna delle forme intermedie corrisponderebbe a una data mescolanza dei due opposti elementi”). In tal senso questa quarta casta residuale non veniva neppure menzionata accanto alle altre tre componenti più ontologicamente strutturate ed autocoscienti, per così dire. D’altronde, nella civiltà induista, come ricorda ancora S. Vaj, secondo quanto riferito dal Rig-Veda, alle tre caste principali “si aggiungeva”, come appunto un corpus residuale, la casta dei çudra, formata dalle popolazioni autoctone rispetto all’invasore indoeuropeo, che non aveva altra funzione se non quella di «servire gli arii».

[2] Quella delle quattro età è la suddivisione tradizionale più nota all’interno del singolo ciclo cosmico (Manvantara), rappresentante a sua volta lo sviluppo totale dell’umanità nell’ambito di un Kalpa (il ciclo totale di un mondo); tuttavia, come ci insegna Gaston Georgel nella sua fondamentale opera Le quattro età dell’umanità – introduzione ad una concezione ciclica della storia, esistono anche altre possibili suddivisioni: binaria, ternaria e quinaria (la suddivisione nei cd. cinque “Grandi Anni”).

[3] Cfr. J. Evola, L’Idea di Stato, cit., pagg. 24-25.

[4] Cfr. J. Evola, Rivolta cit., pag. 371.

[5] Cfr. J. Evola, L’Idea di Stato, cit., pagg. 38-39.

[6] Cfr. nota 4, pag. 371, in J. Evola, Rivolta, cit., nonché nota 6, pag. 39, in J. Evola, Cavalcare la tigre, Roma, 2009.

[7] Alla Gesellschaft, la società, intesa come insieme slegato ed atomistico di individui, frutto del razionalismo e del contrattualismo illuministico-liberale applicati alla vita di gruppo, si contrappone la Gemeinschaft, la comunità organica tradizionale, corpo vivo ed unitario articolato gerarchicamente in membra funzionalmente ed inscindibilmente connesse tra loro e quindi all’organismo cui appartengono, fondato su retaggi ancestrali, archetipi, legami e radici culturali ed antropologiche comuni; in poche parole, su un senso unitario d’appartenenza di natura sovrarazionale. Si veda al riguardo la fondamentale opera di Ferdinand Toennies Gemeinschaft und Gesellschaft, del 1887 (ora pubblicata in italiano dall’editore Laterza), nonché, tra gli altri, Claudio Bonvecchio, in Europa degli eroi, Europa dei mercanti, Roma, 2004, pp. 24-25.

[8] Per una identica conclusione si veda J. Evola, Rivolta, cit., pag. 397: “… sarebbe facile andar oltre nella constatazione di analoghi punti di corrispondenza, i quali permettono dunque di vedere in Russia e America due facce di una stessa cosa, due movimenti, che, in corrispondenza coi due più grandi centri di potenza del mondo, convergono nelle loro distruzioni. L’una, realtà in via di formarsi, sotto il pugno di ferro di una dittatura, attraverso una completa statizzazione e razionalizzazione. L’altra: realizzazione spontanea (quindi ancor più preoccupante) di una umanità che accetta di essere e vuole essere ciò che è, che si sente sana, libera e forte e giunge da sé agli stessi punti, senza l’ombra quasi personificata dell’ ‘uomo collettivo’, che pur l’ha nella sua rete, senza la dedizione fanatico-fatalista dello slavo comunista”.

[9] Cfr. Marcello Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, cap. IV, Vivere anziché pensare, pp. 49 ss.

[10] Cfr. A. Mordini, Il cattolico ghibellino, Roma, 1989 (in particolare tratto da La tradizione e la genesi del tradizionalismo attuale), p. 34.

[11] Cfr. A. Mordini, Il cattolico ghibellino, cit., (in particolare tratto da Significato tradizionale dell’uomo e della persona umana), pagg. 50-51.

[12] E’ molto indicativa, tra le tante, la recente analisi di Alain De Benoist: “Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l’equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia facente dell’individuo un essere avente come obiettivo permanente il suo migliore interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli ‘uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici’. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d’acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata.

È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l’umanità propria dell’uomo” (…). Si tratta di finirla con la dittatura dell’economia, il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili. Si tratta di decolonizzare l’immaginario” (cfr. A. De Benoist, Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo, tratto da http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=38661 e ripreso, tra gli altri, da https://www.centrostudilaruna.it/decolonizzare-limmaginario-dallutilitarismo.html).

[13] Cfr. Evola, L’idea di Stato, cit., pag. 38.

[14] Risultano fondamentali alcune considerazioni di Evola al riguardo: ricordando la figura di Metternich e la sua lungimiranza nell’analisi delle forze sovvertitrici operanti nella sua epoca, egli così chiosa: “l’intera rivoluzione liberale del Terzo Stato non servendo altro che a spianare le vie a quella del Quarto Stato, destinata a scalzare inesorabilmente i rappresentanti della prima insieme al loro mondo non appena essi abbiano assolto il loro compito di avanguardie apritrici di breccia” (Rivolta, cit., pag. 382), citando poi le inequivocabili parole di Friedrich Engels: “Questi signori … spianano solo la via a noi democratici e comunisti, per esser subito dopo scalzati … continuate pure a lottare …, cari signori del capitale. Voi dovete toglierci di mezzo i resti del Medioevo e la monarchia assoluta, dovete distruggere il patriarcalismo, dovete centralizzare, dovete trasformare tutte le classi meno ricche in veri proletari, in reclute per noi; … dovete fornirci la base materiale necessaria al proletariato per la sua liberazione. Come mercede, vi sarà concesso di regnare per un breve tempo … ma non dimenticatelo: il carnefice sta dietro la porta ad aspettare” (Rivolta, cit., nota 4 a pag. 382). Si rimanda poi all’intero capitolo 16 di Rivolta, intitolato Il ciclo si chiude, dove si analizza in profondità la comune matrice sostanziale dell’individualismo americano e del collettivismo sovietico (si veda anche quanto citato nella precedente nota 8).

E’ illuminante anche quanto osservato da Massimo Fini nell’introduzione al suo Manifesto contro la modernità (http://www.massimofini.it/): “Il marxismo si è rivelato incapace di contenere e di sconfiggere il capitalismo. Perché non è che una variante inefficiente dell’Industrialismo. Capitalismo e marxismo sono due facce della stessa medaglia. Nati entrambi in occidente, figli della Rivoluzione industriale, sono illuministi, modernisti, progressisti, positivisti, ottimisti, materialisti, economicisti, hanno il mito del lavoro e pensano entrambi che industria e tecnologia produrranno una tale cornucopia di beni da far felice l’intera umanità. Si dividono solo sul modo di produrre e di distribuire tale ricchezza. Questa utopia bifronte ha fallito. L’Industrialismo, in qualsiasi forma, capitalista o marxista, ha prodotto più infelicità di quanta ne abbia eliminata. Per due secoli Capitalismo e Marxismo, apparentemente avversari, in realtà funzionali l’uno all’altro, si sono sostenuti a vicenda come le arcate di un ponte. Ma ora il crollo del marxismo prelude a quello del capitalismo, non fosse altro che per eccesso di slancio”. Su quest’ultimo punto si rimanda alla fine del presente articolo ed alla nota 19.

D’altronde, è facile notare che il comunismo, come concretamente realizzatosi nei cd. regimi di socialismo reale, altro non è stato se non una forma di “capitalismo di stato” che si rivela, in ultima analisi, come sottolineato da Massimo Fini, nient’altro che un industrialismo inefficiente, in cui lo Stato si sostituisce ai capitalisti privati nella conduzione dell’economia, acquisendo coattivamente la proprietà dei mezzi di produzione e creando un gigantesco sistema tentacolare fondato su schemi, strutture, regole e dettami ideologici propri sempre di un materialismo economico onnicomprensivo, che estende le regole dell’economia e della produzione oltre il loro ambito naturale, finendo per investire ed inglobare ogni aspetto della vita del popolo, de-spiritualizzandolo, piegandolo alle regole del meccanicismo produttivistico e relegando al grado di mera sovrastruttura tutto ciò che a tale ambito non può ontologicamente essere ridotto.

[15] Questa impostazione triadica si ricollega di fatto al “ciclo nascita-crescita-morte con rinascita: questo il segreto dell’essere che vive e si rinnova in natura. E questo anche il riposto motore delle ritornanti epifanie della storia” (cfr. Luca Lionello Rimbotti, Le origini misteriche della razza padrona, su Linea, 29 agosto 2008, e su https://www.centrostudilaruna.it/le-origini-misteriche-della-razza-padrona.html). Nel filosofo greco Proclo (412-485), ultimo grande esponente del neo-platonismo, ne troviamo una peculiare elaborazione, in cui la realtà consiste nel permanere in sé (moné), nel procedere fuori (proódos) e nel ritorno al principio (epistrofé). Tale sarebbe  la natura dell’essere in generale e di ogni ente in particolare: come il tutto ha un principio (un’unità che è un permanere in sé), un essere molteplice che ne emerge e un’unione finale come rivolgimento della molteplicità all’unità, così ogni ente in sé è un’unità, una molteplicità e un’unione. Inutile sottolineare l’assoluta corrispondenza di questa concezione con quella, propria del pensiero tradizionale e delle religioni regolari, che contrappone l’Unità, iniziale ed assoluta, suprema essenza del Divino (permanere in sé), alla dualità (maschio/femmina, giorno/notte, ecc.), alla frammentazione, al relativismo, elementi attraverso i quali si manifesta il mondo visibile nel divenire (procedere fuori), che dovranno essere riassunti nell’Unità che si rimanifesterà alla fine dei tempi a seguito della riunificazione (ritorno la principio). Lo schema triadico sarà poi utilizzato in molti altri modi e contesti [“Si richiamano così i conosciuti riflessi che questo schema ebbe in epoca rinascimentale, nella filosofia ermetica neo-pagana (ad esempio Ficino)”, L.L. Rimbotti, Le origini misteriche, cit.].

[16] Cfr. Evola, Rivolta … cit., pagg. 363-64, con riferimento anche all’esperienza della Rivoluzione Francese, e pag. 371.

[17] Cfr. Evola, Rivolta … cit., pag. 363.

[18] Cfr. Evola, Rivolta … cit., pag. 375.

[19] Risultano ancora profetiche e decisive le parole di Massimo Fini al riguardo: “Un modello di sviluppo atroce, sfuggito dal controllo anche di chi pretende di governarlo, ci sta schiacciando tutti, uomini e donne di ogni mondo. Proiettandoci a una velocità sempre crescente, che la maggioranza non riesce più a sostenere, verso un futuro orgiastico che arretra costantemente davanti a noi – perché è lo stesso modello che lo rende irraggiungibile – crea angoscia, depressione, nevrosi, senso di vuoto e inutilità. In occidente questo modello paranoico è riuscito nell’impresa di far star male anche chi sta bene (566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci). Esportato ovunque, per la violenza dei nostri interessi e quella, ancor più feroce, delle nostre buone intenzioni, il modello occidentale ha disgregato popolazioni, distrutto culture, identità, specificità, diversità, territori, tutto cercando di omologare a sé” (Manifesto contro la modernità, cit.). Ancora: “L’esigenza essenziale oggi per il modello di sviluppo imperante, in cui sono entrate anche Cina e India (la Russia c’era già da tempo, ma sub specie marxista, cioè di un industrialismo inefficiente) non è più, come nell’Ottocento, di accaparrarsi le materie prime o preziose (rame, ferro, zinco, oro, diamanti e così via) ma le fonti di energia, petrolio e gas, per sostenere e aumentare la sua iperproduttività (…). Poiché l’Occidente (…) non può ammettere di fare delle guerre di conquista, cerca di salvarsi l’anima chiamandole con altri nomi: operazioni di polizia internazionale, operazioni di “peace keeping”, missioni a difesa dei “diritti umani”. Ma non salverà l’anima e nemmeno la pelle. Quasi certamente l’attuale modello di sviluppo, di cui gli Stati Uniti sono la punta di lancia, riuscirà a occupare e omologare a sé l’intero esistente. Ma, raggiunto il suo scopo, crollerà. Non tanto perché, come teme, verranno meno le fonti di energia, la Tecnologia può sempre trovare qualche soluzione alternativa. Ma perché la sua iperproduttività gli cadrà letteralmente sui piedi. Dopo aver preteso dalle popolazioni del Primo e del Terzo Mondo disumani sacrifici umani, in termini di lavoro, di fatica, di stress, di angoscia, di nevrosi, di depressione, di infelicità, non saprà più a chi vendere ciò che produce. E un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, nel momento in cui non potrà più crescere imploderà su se stesso. Sarà uno Tsunami economico planetario” (Da “La Voce del Ribelle”, 10 aprile 2011). Tsunami cui, unitamente ad altri eventi, seguirà probabilmente la conclusione dell’epoca attuale. Da notare come la strana simbiosi tra capitalismo e comunismo che caratterizza la Cina moderna, nuovo motore dell’industrialismo asiatico insieme all’India, come ricordato da Massimo Fini, sembra un’ulteriore conferma di questo particolare rapporto che lega le due facce del materialismo economicistico moderno, in quell’ottica hegeliana suesposta. Nello stesso senso può leggersi anche la lenta ma irreversibile penetrazione di elementi capitalistici a Cuba.

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2 Responses

  1. Paganitas
    | Rispondi

    Il Ragnarok si avvicina…

  2. Andrea Di Cesare
    | Rispondi

    UNITA’ DI PRODUZIONE BORGHESE

    1)
    L’Unità di Produzione Borghese è il risultato di un processo economico e culturale.
    Il processo culturale che ne sta alla base è il Consenso e l’Acquiescenza.
    Il processo economico è quello Capitalistico, o – oggi diremmo – post-capitalistico/apocalittico.

    Tale concetto è diviso in 3 parti:
    Unità
    Produzione
    Borghese.

    Il concetto di Unità, è relativo al singolo individuo, visto unicamente come Unità Produttiva.
    L’Unità Produttiva è confacente a un Mercato in cui chi produce è anche consumatore.
    L’Unità Produttiva, in un’ottica di competizione, di libero mercato, e di Darwinismo sociale, è anche consumatrice di altre Unità, oltre che di se stessa.
    L’Unità Produttiva Borghese divora e si auto-divora.

    Il concetto di Produzione è economicamente e storicamente determinato in chiave marxista.

    La Borghesia è la Classe di Mezzo, che non possiede la Virilità dei capi e dei potenti, non ne possiede nemmeno il valore e il coraggio, ma è sopra agli schiavi, ai servi: classe pericolosa, bifronte, ambigua, multiforme e inaffidabile. Servile da una parte, e vigliacca e arrogante coi deboli, dall’altra. Dalla borghesia non ci si può aspettare nulla di buono, se non l’espansione continua, costante, pervasiva, del Mercato, e delle Unità Produttive che stanno sotto il suo comando. La Borghesia, in verità, non comanda, ma esegue gli ordini dei Potenti, dei Capi (interiorizzandone servilmente i Valori, scimmiottandone i comportamenti, come conviene ai parvenu), e li indirizza con crudeltà verso i meno potenti, verso i servi e i sudditi. La Borghesia è la Classe di Mezzo su cui si regge l’intero mercato: essa ha i numeri, e la cultura (dell’acquiescenza e del servilismo) per garantire al Mercato la propria costante espansione.

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