Paesaggi di rovine. Sulla decadenza e il nuovo inizio

Il mistero della decadenza

Testo capitale del Settecento illuminista, Le rovine di Volney sono un gigantesco esorcismo: di fronte alle antiche rovine di Palmira, il viaggiatore (che è poi lo stesso Volney) non si abbandona ad amare, desolate riflessioni sulla storia come immane successione di catastrofi o sul senso irreparabile di caducità che traspare dalle umane cose. Il destino futuro dell’uomo non conoscerà più paesaggi di rovine, perché un secolo nuovo farà sì che ciò non avvenga, il secolo dell’illuminismo e della rivoluzione francese (l’opera di Volney è del 1791). Ora è il progresso, ossia il costante miglioramento dell’umanità illuminata, a guidare la storia, per cui alla domanda cruciale del capitolo XIII (il vero centro del libro), ovvero “il genere umano migliorerà mai?”, verrà data una risposta entusiasticamente positiva[1]. In altre parole, il vero nemico delle Rovine, il suo scoperto bersaglio polemico, è l’idea di decadenza e caduta delle grandi civiltà. Le rovine vanno dunque esorcizzate, le memorie delle passate catastrofi rese inoffensive. Al loro posto, il proscenio della storia sarà ora occupato da un’umanità rigenerata dai Lumi e dalla rivoluzione, e protesa, fiduciosamente, verso l’avvenire.

Eppure la storia trova sempre il modo di prendersi la rivincita, a volte brutale, a volte ironica, su coloro che tentano di ‘imprigionarla’ in un destino già scritto. Perciò anche l’idea di decadenza riemergerà dalla marginalità in cui l’aveva relegata il diciottesimo secolo. Ad esempio, in un libro famoso e famigerato, il Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane del conte de Gobineau. Qui la decadenza è causata innanzitutto dal tralignamento razziale delle stirpi ‘ariane’, dovuto a devastanti commistioni e meticciamenti, in una parola, alla perdita di purezza razziale. Per cui, come ricorda Ingravalle[2], è negli incroci razziali che per de Gobineau andrà cercata la risposta all’angosciante domanda “perché le culture decadono?”. Tuttavia, il discorso è, a mio parere, più complesso, in quanto de Gobineau, con ogni probabilità in maniera inconsapevole, coglie un punto essenziale e massimamente aporetico sin dall’ouverture della sua opera fondamentale: “di tutti i fenomeni della storia, il crollo delle civiltà è allo stesso tempo il più sorprendente e il più oscuro. Nel lasciare sgomenti, questa sventura racchiude qualcosa di così misterioso e di così grandioso, che il pensiero non finisce di considerarlo, di studiarlo, di aggirarsi attorno al suo segreto”[3]. Insomma, quella che de Gobineau definisce “l’inevitabile morte”[4] di ogni civiltà, rappresenta un segreto, un mistero, una sfida per la comprensione umana.

Nondimeno, se è indubbio che per de Gobineau il mistero viene presto svelato col rimando al decadimento frutto degli incroci razziali, resta il fatto che il conte francese mi sembra abbia, seppur confusamente, intuito la verità, ossia la reale difficoltà di ‘afferrare’ per davvero il significato della decadenza, e quindi la sua in fondo radicale inspiegabilità. Detto altrimenti: alla domanda “che cos’è la decadenza?” si può certo rispondere che si tratta di un declino progressivo e inarrestabile, dalla durata plurisecolare, destinato a condurre, de Gobineau dixit, a una morte inevitabile. Ma, al contrario della crisi[5], che è circoscritta nel tempo e s’inscrive senza problemi in un contesto segnato dall’imprevedibilità e dalla contingenza, in una parola, dalla libertà storica, la decadenza richiede il soddisfacimento di presupposti assai impegnativi, che a mio parere non trovano riscontro nel concreto divenire storico. In estrema sintesi, non si danno processi lunghi secoli, in grado di condurre all’inesorabile crollo di imperi e civiltà, come se il divenire storico fosse paragonabile al rotolare di un grave lungo un piano inclinato. Di conseguenza, l’idea di decadenza, in definitiva, non spiega nulla, è un’idea vuota, cui non corrisponde alcun oggetto concreto, e il suo rifiuto, piuttosto che condurci ad abbracciare una qualsiasi ideologia ‘progressista’, potrà lasciare spazio all’idea, ben più feconda, di crisi[6]. Tutto ciò vale anche per l’impero romano, probabilmente l’esempio più famoso di declino e caduta di un’intera civiltà. A testimoniarlo non ci sono soltanto il contributo, già ricordato, di Mazzarino, o quello, bellissimo, di Momigliano[7]; in pratica è tutta l’odierna storiografia a rigettare l’idea di decadenza[8] e a parlare addirittura di nuovo inizio, rispetto alla crisi del III secolo, in relazione all’età dioclezianea[9], e così via. Un nuovo inizio, ed è lo snodo davvero decisivo, alla lettera impossibile, se pensato all’interno di un processo dominato da una decadenza irreversibile e fatale, che procederebbe senza deviazioni di sorta, e per più secoli, sino al tragico esito finale.

Decadenza e cospirazionismo

Decadenza e cospirazionismo ovviamente non costituiscono una vera e propria endiadi; non c’è, in breve, un legame costitutivo, strutturale che le tiene assieme. Si danno infatti teorie della decadenza del tutto slegate da qualsiasi accenno, richiamo o riferimento al cospirazionismo, come, ma è un esempio tra i tanti, nel caso di Spengler[10]. Ma non vale il contrario, nel senso che non si danno teorie cospirazioniste che non abbiano un qualche legame con una teoria della decadenza.

Ora, prima d’indagare questo nesso, qualche notazione preliminare: al contrario dei singoli complotti, storicamente sempre esistiti ma ovviamente delimitati nel tempo e nello spazio, il cospirazionismo pretende di essere una vera e propria teoria in grado di spiegare se non l’intero corso della storia, sicuramente alcuni suoi fondamentali ‘segmenti’ plurisecolari, così da poter rintracciare il filo rosso che collegherebbe tutta una serie di avvenimenti tra loro apparentemente slegati.

Adesso: è evidente che una tale teoria non può non incentrarsi su di una causa o su di un ‘attore’ metastorici, proprio perché solo facendo ricorso a una spiegazione metastorica sarà possibile dar conto di processi di lunga durata, letti e interpretati in chiave compattamente unitaria. Detto altrimenti, la necessità di ridurre o drasticamente rimuovere l’imprevedibilità della storia, e al contempo di fornirne una rassicurante spiegazione che ne colga il senso ultimo e complessivo, tipica delle teorie cospirazioniste, va di pari passo con l’individuazione del grande regista metastorico che muoverebbe le fila degli eventi, scavalcando i secoli.

In tal modo, si mette in atto quella che, prendendo a prestito un’espressione di Ernesto De Martino, può essere chiamata una destorificazione del divenire, essendo quest’ultimo appunto sottratto alle sue caratteristiche più ‘inquietanti’ (contingenza, imprevedibilità, libertà), per essere consegnato a una spiegazione atemporale e consolatoria, dove tutto è opera di una sola ‘fonte’, inevitabilmente smascherata dal dottrinario cospirazionista. Giusto a titolo d’esempio, non desterà stupore lo scoprire che una organica teoria cospirazionista, capace di fungere da paradigma esplicativo del reale, abbia fatto la sua prima comparsa con la caccia alle streghe[11], queste ultime intese come strumenti di un complotto diabolico, dato che proprio “il diavolo può essere considerato il modello originario di cospiratore”[12]; modello che a sua volta, nel corso della storia, sarà in seguito sostituito da altre figure di cospiratori egualmente ‘diaboliche’, quali l’ebreo o il massone.

Alla luce di quanto detto sinora, il legame tra cospirazionismo e decadenza emerge in tutta la sua evidenza, nel duplice senso che grazie al cospirazionismo non solo si riesce a spiegare la decadenza, ma si chiarisce pure perché quest’ultima è apparentemente così oscura e misteriosa. Infatti, nel momento in cui si marginalizza o addirittura si elimina l’imprevedibilità della storia, ovvero la più radicale obiezione all’idea di decadenza, si rende quest’ultima intelligibile e dotata di senso, in quanto esito di un piano diabolicamente orchestrato. A tal punto che persino gli eventi che sembrano smentire l’incedere della decadenza, che paiono arrestarla o perlomeno frenarla, una volta interpretati alla luce delle cosiddette ‘tattiche della guerra occulta’, si rivelano essere in realtà altrettante tappe del medesimo processo di caduta rovinosa, ulteriori prove del fatto che l’azione delle ‘forze della sovversione’ procede senza soste, inarrestabile e incessante.

Soprattutto, il ricorso al cospirazionismo è essenziale per mostrare come mai l’idea di decadenza sembri così sfuggente ed evanescente. Perché, è la risposta a questo punto scontata, chi provoca, causa, determina la decadenza, agisce appunto dietro le quinte della storia, nascondendosi quindi alla vista dei più (tranne, s’intende, che allo sguardo vigilissimo del cospirazionista). Parafrasando Schopenhauer, si potrebbe dire che la decadenza appare un fenomeno meramente illusorio, una semplice rappresentazione svuotata di significato reale, solo finché non si sia lacerato il ‘velo di Maya’ che la ricopre, occultandone la ratio profonda. Un compito cui è chiamato il dottrinario cospirazionista, l’unico a possedere gli strumenti atti a ‘decifrare’ quella ‘terza dimensione’ (al di là dunque delle usuali ‘categorie’ di tempo e spazio) dove agiscono i veri protagonisti della storia.

Evola, la decadenza e il nuovo inizio

Nell’opera evoliana è presente un problematico intreccio di tutti i motivi sinora analizzati. Innanzitutto, nonostante sia palese in Evola il rapporto tra cospirazionismo e decadenza, testimoniato, ad esempio, dai rimandi alla Guerra Occulta di Malynski, dall’introduzione ai Protocolli e dal tredicesimo capitolo de Gli uomini e le rovine, il quadro d’insieme è molto più complicato e contraddittorio.

Infatti, se si fa perno sulla dottrina ciclica, vengono meno ruolo e funzione del cospirazionismo, perché, essendo la decadenza già inscritta nel procedere ciclico, non si comprende a cosa possa servire l’azione delle ‘forze occulte’, se non, al massimo, ad accelerare un decadere comunque ineluttabilmente già previsto dalle leggi che ‘governano’ i cicli. In altre parole, la funzione delle forze occulte non sarebbe per nulla decisiva, e di certo non in grado di influenzare, e men che meno determinare, alcunché, stante il procedere ciclico che, ripeto, prevede già in sé, per sua legge fatale, il decadere.

Ma non solo, perché Evola pare avvedersi della problematicità dell’idea stessa di decadenza. Lo confermano due suoi scritti, entrambi intitolati appunto “Il problema della decadenza”, il primo uscito sulla rivista Lo Stato nel 1938, il secondo (una versione ridotta e rimaneggiata del precedente) in Ricognizioni. Uomini e problemi, nel 1974.

Nello scritto del ’38 Evola, richiamandosi proprio a de Gobineau, parla esplicitamente di “mistero della decadenza”[13]. Mistero che a suo dire è reso ancor più impenetrabile dal “dualismo” di civiltà, ossia dalla netta contrapposizione tra la civiltà tradizionale e la civiltà moderna[14]. E in effetti è così, ma non certo nel modo in cui l’intende Evola (ossia, com’è possibile degeneri ciò che è gerarchicamente superiore). Il punto cruciale è piuttosto un altro: come può l’idea di decadenza  accordarsi, in linea teorica e pratica, con lo ‘scontro di civiltà’? Come spiegare la radicalità, la decisività del conflitto tra due tipologie di civiltà fra loro irriducibilmente antagoniste (essendo la civiltà moderna la totale negazione di ogni civiltà tradizionale), alla luce di una teoria che presuppone un plurisecolare decadere? Così come mi sembra, parimenti, assai difficile conciliare l’urto frontale tra la civiltà tradizionale e la civiltà moderna con la dottrina dei cicli, che da parte sua non comporta cesure o fratture di sorta, ma solo una infermabile regressio.

Eppure, andando a Rivolta contro il mondo moderno, il quadro si complica ancora di più. In quest’opera, pur rimanendo all’interno della dottrina ciclica, Evola si allontana da Guénon su un punto essenziale. Per il tradizionalista francese la decadenza è inarrestabile. Bisognerà soltanto attendere la fine del ciclo. In breve, è del tutto evidente che una simile concezione della storia è nient’altro che una forma di hegelismo rovesciato, dove il ‘mito’ del progresso viene sostituito dal ‘mito’ del regresso. Eguale rimane la visione deterministica e necessitata della storia. Insomma, “per Guénon la discesa ciclica non ammette nessuna esteriore risalita. La manifestazione ciclica è sempre discendente dal principio alla fine”[15]. Di conseguenza, nessun nuovo inizio  è ammesso, non si dà alcuna possibilità di ‘intervenire’ nella storia per mutarne il corso. La ‘discesa agli inferi’ è ineluttabile, fatale. La storia segue un progressivo percorso unidirezionale, dal più al meno, dalla pienezza dei tempi all’età oscura, e niente e nessuno potrà anche solo arrestare tale continuum regressivo. La storia, per Guénon, non prevede strappi o rotture ma solo un progressivo decadere. Per cui il tempo, all’interno di ciascun ciclo, si ‘distende’ in modo pressoché lineare, impedendo ogni ‘deviazione’ dall’esito pre-fissato.

Al contrario Evola disarticola la dottrina ciclica, inserendovi, come un cuneo l’età eroica. Evola, in breve, ha contemplato la possibilità di ‘invertire la rotta’ del decadere ciclico attraverso un nuovo inizio, appunto l’età eroica, in grado di ricollegarsi all’origine. La storia smette così di avere un corso unico e prestabilito per divenire nuovamente aperta. Viene a mancare la passiva aspettazione della fine del ciclo, sostituita dall’eventualità di un sempre possibile, e imprevedibile, ‘sbocco eroico’. Per Evola, in definitiva, rispetto a Guénon, è dunque possibile sorprendere la storia, metterne in discussione gli esiti ‘inevitabili’. Questo perché l’età eroica è appunto “il tentativo di restaurare la tradizione delle origini”[16]. Ma certo stupisce constatare come in Rivolta un aspetto così essenziale dell’intera ‘architettura’ dell’opera resti sostanzialmente inspiegato. Ed essenziale, perché, a tacere del Medioevo, ultima risorgenza eroica del mondo ‘occidentale’, sia l’Ellade arcaica che la Roma ‘apollinea’ e virile, cioè due momenti assolutamente centrali della ‘morfologia della storia’ evoliana, rientrano a pieno titolo in quello che lo stesso Evola chiama ciclo eroico-uranio occidentale.

In effetti, al di là di un generico e frettoloso rimando all’esiodea età degli eroi[17], non è dato trovare in Rivolta alcuna spiegazione di questa ‘provvidenziale’ trasgressione della dottrina ciclica, che ha permesso a Evola di giustificare la funzione positiva e la grandezza della civiltà greco-romana e finanche del Medioevo, pur in presenza di un moto di caduta già avviato da tempo immemore. Questa impossibilità di ‘dire’ le ragioni del nuovo inizio, questo silenzio, in fondo necessario, di Evola, a mio parere si spiega, da un lato, con l’implicita presa d’atto che una rigorosa teoria della decadenza non tollera ‘deviazioni’ di sorta, dall’altro, con l’estrema consapevolezza che il nuovo inizio, per sua ‘natura’, e-viene, appare in modo subitaneo e imprevedibile, in quanto possibilità che può darsi nella storia o può invece negarsi nella sua stessa impossibilità.

marzo 2017

Note

[1] Si veda C.-F. Volney, Le rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 127-133.

[2] Cfr. F. Ingravalle, Mito del regresso e nichilismo politico, Edizioni di Ar, Padova 2013, p. 37.

[3] A. de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 59.

[4] Ivi, p. 60.

[5] Non a caso, nell’ultimo capitolo dello splendido libro di Santo Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Rizzoli, Milano 1995, pp. 186-195, significativamente intitolato “La critica all’idea di decadenza”, il grande storico siciliano  preferirà parlare appunto di crisi piuttosto che di decadenza.

[6] Sull’argomento si veda, da ultimo, G. Sessa, “La crisi e la ‘letteratura della crisi’”, appendice a R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 2015, pp. 209-225.

[7] Cfr. lo scritto “La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C.”, in A. Momigliano, Storia e storiografia antica, il Mulino, Bologna 1987, pp. 359-379.

[8] Finendo persino col rifiutare l’idea stessa di crollo e caduta dell’impero romano, a favore dei concetti di trasformazionetransizione e cambiamento, così da ‘annegare’ la fine di Roma in un tardoantico prolungato sino al VII-VIII secolo, una tendenza cui si sono giustamente opposti storici di valore quali Heather e Ward-Perkins. D’altronde, è evidente che “il termine ‘cambiamento’ diventa eufemismo” là dove l’impero romano è tramontato “in modo violento” (R. Pfeilschifter, Il Tardoantico, Einaudi, Torino 2015, p. 106).

[9] Si veda il primo capitolo del libro di H. Brandt, L’epoca tardoantica, il Mulino, Bologna 2005, pp. 11-18, dall’emblematico titolo di “Diocleziano e la tetrarchia (284-305): un nuovo inizio”. La ‘formula’ dioclezianea è ben compendiata da Roberto: “sul modello di Augusto, Diocleziano trovò il giusto equilibrio: innovò, presentandosi comunque come difensore della tradizione” (U. Roberto, Diocleziano, Salerno Editrice, Roma 2014, p. 48). Ma una netta inversione di rotta, sempre risalente agli ultimi decenni del III secolo, si trova già nell’opera gigantesca di Aureliano, su cui cfr. B.M. di Dario, Il Sole Invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso, Edizioni di Ar, Padova 2002. Anche la religio pagana, nel IV-V secolo e.v., lungi dall’essere in piena decadenza, come a volte si è falsamente sostenuto, era ancora vitale, tanto da scomparire solo “in seguito a una legislazione che la rese a tutti gli effetti impraticabile” (A. Fraschetti, “Principi cristiani, templi e sacrifici nel Codice Teodosiano e in altre testimonianze parallele”, in A. Saggioro, a cura di, Diritto romano e identità cristiana, Carocci, Roma 2005, p. 133).

[10] A proposito di Spengler, a me pare comunque evidente la natura equivoca del suo concetto di declino e tramonto delle diverse civiltà, almeno per quanto riguarda la Kultur occidentale. Ne fa fede il suo Anni della decisione, che rappresenta la smentita più netta di un crollo avvertito come ineluttabile.

[11] Cfr. M. Barberis, “L’ossessione del complotto tra rivoluzione e terrore”, in S. Forti-M. Revelli, a cura di, Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 59 nota 5.

[12] Ibid. Naturalmente, il demonio è l’‘attore’ metastorico per eccellenza, e la caccia alle streghe un esempio quasi archetipico di lotta ‘metafisica’ tra bene e male. Al contrario, l’ebreo o il massone possono prestarsi tanto a una lettura ‘metafisica’ (è il caso della polemica religiosa antigiudaica e antimassonica), quanto a una interpretazione in chiave secolare, terrena, intramondana, ma pur sempre in fondo astorica, vista la capacità delle presunte ‘forze della sovversione’ di sviluppare la loro azione attraverso i secoli, al di là, quindi, dei concreti contesti storici.

[13] Cfr. J. Evola, “Il problema della decadenza”, in Id., Lo Stato (1934-1943), Fondazione Evola, Roma 1995, p. 242.

[14] Ivi, p. 243.

[15] P. Di Vona, Metafisica e politica in Julius Evola, Edizioni di Ar, Padova 2000, p. 43 nota 2.

[16] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma 1998, p. 267.

[17] Ibid.

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