Oltre la destra e la sinistra

Quando si lotta contro un sistema totalizzante e oppressivo che sembra avere il potere di schiacciarci, di toglierci ogni spazio disponibile, che ci identifica con il “male assoluto”, che non esita, nonostante le sue ripetute professioni di liberalismo, democraticità, presunto rispetto per le idee altrui, a usare nei nostri confronti i mezzi più sleali e spietati, è facile avere un’idea di contro che cosa si lotta. Avere una reale comprensione di per che cosa si lotta, lo è francamente meno, anche perché tutte le “maniglie culturali” sono nelle mani di un establishment che fa corpo unico con quello politico.

Tuttavia, e nonostante tutte le difficoltà, avere le idee chiare non è solo utile, è necessario. In questo scritto, nella persuasione di dare un contributo non irrilevante alla causa, vorrei vedere di fare chiarezza, ripassando, per così dire i fondamentali.

Riguardo alla questione se dobbiamo considerarci “di destra”, “di estrema destra” o che altro, qualcuno faceva notare che, essendo “destra” e “sinistra” termini riguardanti le collocazioni parlamentari, ed essendo noi estranei ed avversi al sistema democratico-parlamentare, definirsi “di destra” o del resto “di sinistra” non ha alcun senso, che rispetto a noi questi termini sono inapplicabili, sempre ammesso che ancora oggi conservino di per sé un qualche senso.

La questione a mio avviso, però, è un po’ più complessa di così.

Julius Evola ha dedicato uno dei suoi libri a esaminare Il fascismo dal punto di vista della destra o, a seconda delle edizioni, Il fascismo visto da destra. E’ chiaro che con il termine “destra” riferito al proprio pensiero, Evola non intendeva nulla che avesse a che fare con il parlamentarismo.

Sul fronte opposto, esaminiamo per un momento qualche spezzone della storia infinita anche se in gran parte ancora ignorata delle atrocità comuniste.

Come è noto, nel corso della seconda guerra mondiale, l’Armata Rossa staliniana trucidò migliaia di ufficiali polacchi prigionieri i cui corpi furono poi ritrovati dai Tedeschi nella grande fossa comune di Katyn. Ancora, in epoca più vicina a noi, dopo aver preso il potere in Cambogia e trasformato la sfortunata nazione asiatica in un immenso gulag, i khmer rossi di Pol Pot massacrarono tre milioni di persone (un terzo della popolazione) in tre anni. Fra l’altro, i khmer rossi si accanirono verso tutti coloro che portavano occhiali, sospettati per ciò stesso di essere degli intellettuali.

A parte il fatto che il concetto marxista di dialettica applicata alla storia si identifica in concreto con il bagno di sangue, noi riconosciamo subito nell’intento di voler riformare un Paese decapitandolo delle sue élite reali o potenziali (gli ufficiali polacchi, i presunti intellettuali cambogiani) qualcosa di tipicamente di sinistra a prescindere da qualsiasi dialettica parlamentare, in entrambi i casi chiaramente fuori questione.

Allora bisogna riconoscere che questi due termini “destra” e “sinistra”, hanno finito col tempo per assumere un significato più ampio che trascende il dibattito parlamentare.

Non credo sia errato, ed è perlomeno un’utile semplificazione (anche se sono conscio che volendo si potrebbe cavillare all’infinito) identificare il concetto di “destra” con quello di conservazione sociale e il concetto di “sinistra” con quello di egualitarismo.

Non è solo perché ci sentiamo estranei al parlamentarismo, che non possiamo considerarci “di destra” non meno che “di sinistra”, ma proprio considerando “destra” e “sinistra” in queste due accezioni allargate, diventa visibile che entrambe queste (suddi)visioni si fondano sul medesimo errore simmetrico e speculare.

L’errore o perlomeno la falsa alternativa, la presunzione che non esista altro tra il privilegio e l’uguaglianza forzata. Entrambe equivocano allo stesso modo su quello che è il punto reale della questione, la differenza fra le posizioni che le persone occupano effettivamente in un dato contesto sociale, e quelle che avrebbero potuto (potrebbero) raggiungere in base alle proprie capacità con un confronto su basi eque con tutti gli altri; in altre parole l’incapacità di considerare la vera alternativa elitaria che si riassume nell’idea dell’“uomo giusto al posto giusto”, la vera uguaglianza che consiste nell’equità: “Iustitia est suum cuique tribuere”, giustizia è dare a ciascuno quello che gli spetta, come già insegnava Cicerone.

Un concetto che non risponde solo a un’idea etica di giustizia, ma è anche, per usare un neologismo, un concetto funzionale, perché, premesso che questo ideale non è pienamente realizzato, e certo non in base a un progetto consapevole, da nessuna parte, noi vediamo comunque che le società a maggiore mobilità sono quelle più prospere per l’ovvia ragione che quanto più la capacità e il merito sono riconosciuti, tanto più esse sono meglio amministrate, e questo coincide in definitiva con l’interesse, “il bene” di tutti, anche di coloro che si ritrovano in posizioni subalterne (scherziamo, pensate che sia la stessa cosa essere “non abbienti” in Finlandia o nella Germania Federale, o esserlo in India o in Brasile?).

Diciamo le cose come stanno, “la destra” e “i moderati” il cui progetto sociale coincide con la conservazione, l’immobilità, una mistura non troppo insopportabile di ingiustizie e privilegi magari temperate da un riformismo col contagocce, “governare l’esistente” secondo un’espressione cara a quello che fu il partito di maggioranza e il perno del sistema politico in Italia dal 1946 al 1991, non avrebbero avuto partita se non fosse stato per i disastri dell’egualitarismo.

Questi disastri sono stati evidenziati in maniera estremamente chiara da quello che è stato il fallimento dell’esperienza storica comunista. Un concetto che si sentiva ripetere spesso a titolo di giustificazione quando questi regimi erano in auge prima del tracollo dell’Unione Sovietica, era che questi regimi non avrebbero creato povertà ma si sarebbero semplicemente affermati dove esistevano società già povere “di loro”. Non era così. Si pensi che prima della rivoluzione bolscevica la Russia era “il granaio d’Europa”, e dopo di essa è stata costretta all’importazione di derrate per tutto il periodo sovietico, e lo è ancora adesso a più di vent’anni dalla fine di questa tragica esperienza. La Cecoslovacchia fra le due guerre mondiali e la parte orientale della Germania, quella che andò volente o nolente (senz’altro molto più nolente che volente a formare la DDR) erano fra le regioni più industrialmente avanzate d’Europa e furono sprofondate dal comunismo in un abisso di miseria. Quell’immenso mondo umano, quasi un pianeta a sé stante, che è la Cina ha conosciuto gli aspetti perversi dell’egualitarismo comunista in maniera ancora più tragica, quando Mao, “il grande timoniere”, per sbarazzarsi di una fazione interna del partito comunista cinese, impose la “rivoluzione culturale”, un egualitarismo da formiche alla lettera, che ebbe il potere di sprofondare l’immenso Paese nel caos e contemporaneamente di riportare lo sviluppo economico a una situazione di arretratezza pre-industriale, “la follia di dieci anni” (1962-1972), dalla quale i dirigenti cinesi riuscirono in qualche modo a uscire solo per la morte del “grande timoniere” e, dopo essersi sbarazzati dei suoi più stretti collaboratori (“la banda dei quattro”, e uno dei quattro era la vedova di Mao su cui furono fatte ricadere tutte le responsabilità del marito), adottare un sistema di liberismo in economia e autoritarismo in politica che finora sembra reggere.

Di fronte ai ripetuti insuccessi del comunismo che dovunque sia stato applicato non ha mai prodotto altro che miseria e oppressione, noi sentiamo ripetere dagli adoratori di questa perversa religione che, sembra strano ma ne esistono ancora, “quello non era (non è) il vero comunismo”, si tratti di quello sovietico, di quello jugoslavo, di quello cinese, per non parlare di quello cambogiano o etiope che sono stati i più atroci. Costoro hanno semplicemente riformulato le loro credenze in modo che la realtà non possa interferire con esse, violando quello che Karl Popper chiamava il principio di falsificazione, e che potremmo semplificare così: alle idee capita la stessa cosa che succede agli uomini, devono essere disposte a correre qualche rischio per dimostrare di valere qualcosa.

Il semplice fatto del quale non ci si vuole rendere conto, è che l’egualitarismo è un’astrazione che non ha fondamento nella realtà, e nessun sistema fondato su di esso funzionerà mai, perché gli uomini, che non sono formiche, sono tutti diversi: ci sono i geni e gli imbecilli, i coraggiosi e i vigliacchi, i responsabili e gli inaffidabili, gli onesti e i delinquenti.

Il concetto egualitario che è alla base dell’ “idea” comunista è il classico letto di Procuste che taglia le gambe agli alti e stira le membra ai bassi e in definitiva storpia tutti e tutto. La nostra opposizione ad esso, tuttavia, non può essere di tipo conservatore, perché non vi è alcun dubbio che le stratificazioni sociali come esistono oggi in qualsiasi società sono profondamente ingiuste, in alcuni casi di più, in altri di meno, ma noi se guardiamo all’Italia di oggi di certo non abbiamo molto da rallegrarci: siamo in una situazione migliore delle immobili società del Terzo Mondo ma sappiamo tutti che le qualità personali per fare carriera, per avere uno status sociale corrispondente alle proprie capacità, contano infinitamente meno della posizione di famiglia, delle raccomandazioni, amicizie, della buona parola di qualche monsignore, della tessera di partito, magari dell’appartenenza a qualche clan mafioso. Da questo punto di vista siamo messi nettamente peggio della media delle società euro-occidentali.

Non la conservazione deve essere il nostro obiettivo, ma la rivoluzione elitaria.

I sociologi distinguono fra lo status ascritto, ossia la condizione cui un essere umano appartiene “per diritto di nascita” e lo status acquisito, cioè la condizione raggiunta grazie alle proprie capacità. Nel nostro modello di società gli status ascritti devono quanto più possibile sparire.

Forse il più antico tentativo di dare vita a un elitismo funzionale è stato compiuto in India già millenni fa con il sistema delle caste in base a un presupposto semplicissimo: i figli dei sacerdoti (bramini) sono i più adatti a diventare bramini a loro volta, i figli dei guerrieri a fare i guerrieri, i figli degli artigiani e i commercianti, gli artigiani e i commercianti, i figli dei servi i servi e via dicendo. Un sistema simile avrebbe potuto funzionare se gli uomini si riproducessero per talea come le viti o i gerani, se i figli fossero geneticamente identici ai genitori, ma questo non si verifica.

Contrariamente alla fede professata da tutti i riformatori e gli educatori democratici – e per questo lato la democrazia è un mito egualitario aberrante alla stessa stregua del comunismo – è probabile che tutte le attitudini umane importanti abbiano una forte componente genetica, ma ciascuna di esse ben difficilmente potrebbe dipendere da un singolo gene come gli occhi neri o gli occhi azzurri, quanto piuttosto da costellazioni genetiche complesse che potrebbero non ritrovarsi dopo quella roulette che è il rimescolamento genetico prodotto dall’unione sessuale (che potrebbe invece magari determinare altre attitudini e qualità), e questo tanto più in quanto di solito nelle società tradizionali esse venivano di solito “testate” su uno solo dei due sessi, quello maschile, in più esiste e dev’essere sempre esistita la possibilità anche in una società come quella indiana la possibilità di accoppiamenti clandestini fra persone di casta diversa. Inevitabilmente, all’interno delle diverse caste saranno nati individui privi delle qualità necessarie ai compiti che la casta era chiamata a svolgere, e la rigidità del sistema ha impedito che costoro si spostassero o fossero costretti a spostarsi in una posizione sociale più conveniente. Alla lunga, il sistema delle caste diventa il metodo migliore per disperdere a casaccio lungo la scala sociale attitudini e competenze, per far sì che “l’uomo giusto al posto giusto” diventi un’utopia irrealizzabile o un puro caso sul tipo di un tredici al totocalcio.
Il sistema delle caste non ha posto l’India alla testa della civiltà umana, al contrario, ne ha fatto per lunghissimo tempo un abisso di arretratezza e miseria.

Teniamo presente questo fatto, così come dobbiamo tenere presente che poiché l’egualitarismo è pura utopia, di fatto tutte le società esistenti si muovono in una “banda di oscillazione” i cui estremi sono costituiti dalla società di élite a mobilità sociale elevata e la società di caste a mobilità sociale bloccata o comunque scarsa. Teniamo anche presente che, poiché il mito egualitario è in effetti irrealizzabile, tutte le volte che si sono imposti sistemi teoricamente egualitari come i regimi comunisti, o comunque utopie egualitarie come la ventata sessantottesca che ha cancellato la selettività della scuola italiana, in concreto, allontanandosi dalla società di élite, si riduce la mobilità sociale e ci si avvicina (o ci si avvicina maggiormente) alla società di caste, e quindi allo spreco delle intelligenze e dei talenti che sono la risorsa più preziosa di una società.

La “parola magica” è selezione, la messa alla prova che va ripetuta a ogni generazione e per ciascuno. In questo – sia chiaro – non c’è nulla di nuovo, è un pensiero politico risalente a cinque secoli prima di Cristo, a un pensatore il cui nome è stato talvolta esaltato attraverso le epoche con lo stesso impegno che si è messo nell’ignorare la parte più vitale della sua opera, stiamo parlando di Platone che nella Repubblica ha spiegato che “i guardiani” hanno il compito di vigilare sulle nuove generazioni, e se qualcuno di stirpe aurea o argentea nasce fra coloro che sono di stirpe bronzea, è loro dovere portarlo alla posizione che gli spetta. In un certo senso, potremmo dire che la nostra visione politica discende direttamente dal pensiero di Platone.

A proposito delle interpretazioni moderne del pensiero politico di Platone (dei suoi moderni fraintendimenti che stanno solo alla pari di quelli medievali con la Chiesa cattolica che si è servita di un pezzo qua di una scheggia là del suo pensiero come di quello di Aristotele per costruire la sua teologia fraintendendo del tutto entrambi), poiché egli sosteneva che i sapienti e i guardiani avrebbero dovuto mettere in comune le proprietà e le donne, non è parso vero a qualcuno di iscrivere Platone fra gli antenati del comunismo, senza avvedersi che questo comunitarismo riservato alle élite perché potessero agire verso il corpo sociale in uno spirito di totale disinteresse personale, somiglia piuttosto a quello di un ordine monastico e non ne fa affatto il profeta di una società egualitaria; al contrario, il nucleo del suo pensiero è quello di uno stato elitario che assegni a ciascuno un ruolo corrispondente alle sue attitudini, capacità e meriti.

Per capire come in realtà funzionino le cose, forse è meglio partire da un esempio al contrario, un esempio che purtroppo ci tocca molto da vicino.

È largamente provato che il cosiddetto movimento del ’68 che toccò il mondo giovanile e studentesco in Europa verso la fine degli anni ’60 non fu per nulla un fenomeno spontaneo: era nato per imitazione dei moti di protesta scoppiati nei campus americani e a loro volta ispirati da nessun altro sentimento più nobile che la fifa dei giovani yankee che temevano di essere spediti a combattere in Vietnam, ma i servizi segreti sovietici e dei Paesi satelliti avevano presto avuto la loro parte nell’alimentarlo, sostituendo con l’aggressione ideologica quella marcia verso Gibilterra dei tank con la stella rossa che “l’ombrello nucleare” americano rendeva impossibile.

Tuttavia, se quella che altrove fu solo una stagione, da noi durò un decennio e oltre, fino alla “coda” rappresentata dal terrorismo brigatista, è perché si saldava a nostre situazioni interne di una precisa rilevanza.

In Italia il sessantotto ha avuto una nascita bicefala attraverso il convergente egualitarismo marxista e cattolico, ha avuto il suo modello, il suo “esperimento pilota” nella scuola di Barbiana di Don Milani dalla quale è uscito Renato Curcio e nella Lettera a una professoressa dello stesso Don Milani il suo manifesto.

La cosa che più sorprende, andando a rileggere oggi quel documento, è la cecità che esprime, frutto senza dubbio di un’intossicazione ideologica in cui marxismo e cristianesimo sono intrecciati molto più strettamente di quanto si potrebbe pensare a prima vista.

Perché una menzogna o un errore possano funzionare, non essere subito riconosciuti come tali a colpo sicuro, devono contenere un minimo di elementi reali: è senz’altro un fatto che nella scuola pre-sessantotto, la scuola gentiliana che bocciava e selezionava, i figli di papà dei ceti abbienti avevano un vantaggio rispetto ai ragazzi delle classi subalterne, perché crescevano in un ambiente più acculturato e ricco di stimoli, perché se non avevano voglia di studiare erano più facilmente disponibili le ripetizioni private, le pressioni sui docenti, i calci nel fondoschiena. Si trattava però pur sempre di svantaggi che i giovani di origini non abbienti potevano rimontare; certo, il sistema non era perfetto, ma dubito che vi possa essere qualcosa di umano che lo sia.

La Lettera a una professoressa e il modello della scuola di Barbiana ci permettono di leggere in controluce anche qualcos’altro, la convinzione che qualsiasi superiorità sia riconducibile al privilegio, il mito egualitario condiviso in tutta la sua assurdità e falsità da cristianesimo e marxismo allo stesso titolo e allo stesso modo.

La scuola egualitaria, la scuola che non boccia, non seleziona e in definitiva non insegna (ogni essere umano tende a essere pigro quanto gli è concesso di esserlo), la scuola dei tutti somari e tutti diplomati, alla fine non distribuisce che inflazionati pezzi di carta che non garantiscono minimamente l’accesso al lavoro, né tanto meno una posizione sociale, la selettività che si è cacciata dalla scuola rimane nella società, affidata a meccanismi di gran lunga più iniqui: raccomandazioni, amicizie familiari, tessere di partito, aggregazioni mafiose, è il trionfo dello status ascritto. Distruggendo la scuola gentiliana creata dal fascismo, la contestazione ha cancellato un importante strumento di promozione sociale.

È possibile che coloro che hanno manovrato la contestazione in quegli anni che l’ex leader studentesco Mario Capanna ha definito “formidabili” e molti altri invece “miserabili”, fossero all’oscuro di ciò? Lasciando stare i gregari, gli utili idioti, quelli che si fanno incantare dagli slogan, a livello di capi, la cosa non è per nulla credibile.

Riflettiamo su quali erano le condizioni dell’Italia di quel tempo, che, giunta tardivamente allo sviluppo industriale, aveva conosciuto il grosso boom economico proprio nel decennio precedente, e proprio in quegli anni conosceva un incremento esponenziale della scolarità, estesa sempre più verso i ceti subalterni, delle scuole medie e superiori.

I giovani contestatori di allora erano pressoché tutti di estrazione altoborghese e guarda caso, la loro azione politica coincideva con i loro interessi di classe, perché la combinazione di scolarità di massa e di scuola gentiliana-selettiva avrebbe loro reso molto difficile e certo non automatico come nel passato riprodurre la condizione sociale-professionale dei loro genitori. Si trattò di un’operazione di conservazione sociale travestita da rivoluzione.

Fra questi Metternich in sedicesimo travestiti da Robespierre e la sinistra si stipulò di fatto una sorta di pactum sceleris: i partiti di sinistra diedero all’operazione il loro avallo ideologico, quello che ci guadagnavano era una robusta iniezione di ideologia marxista in tutti i gangli della società, una classe di futuri apparatcik di partito, posizioni strategiche nella scuola, nell’informazione, nella magistratura, nella cultura, man mano che i giovani “rossi” avrebbero immancabilmente sviluppato le loro carriere professionali. Chi ci rimetteva di netto erano innanzi tutto i lavoratori sfacciatamente presi per il naso, i loro figli che si vedevano di fatto negato il futuro, e l’Italia nel suo complesso che si vedeva privata una volta di più di una futura classe dirigente dotata di capacità e competenza.

Io credo che l’infausta vicenda sessantottesca e la triste deriva che ne è conseguita negli ultimi quarant’anni ci offrano un perfetto esempio al contrario di quella che dovrebbe essere la nostra azione politica, ma a questo punto c’è un’importante obiezione che va considerata: una volta rimosse le barriere, gli ostacoli, le tare che impediscono una corrispondenza fra capacità, meriti e ruolo sociale, non sarebbe più semplice lasciar fare alla dinamica del mercato che interessa gli uomini non meno delle merci e dei servizi, a quella competizione che a detta di molti è l’analogo della selezione naturale darwiniana? In altre parole, che dire del liberalismo, rappresenta un’opzione valida?

Per quanto possa sembrare strano, storicamente, è piuttosto il darwinismo come teoria naturalistica ad essere nato basandosi sull’analogia con la società liberale, piuttosto che il contrario. Sebbene finisse per scegliere poi soluzioni autoritarie per imporlo, il primo teorico del liberalismo è stato nel XVII secolo il filosofo inglese Thomas Hobbes. Dietro le apparenze di una convivenza civile e armoniosa, in realtà la società, egli sosteneva, è un “bellum omnium erga omnes”, una guerra di tutti contro tutti, e lo stato è stato istituito come “patto sociale” per dettare le regole di questo conflitto e renderlo incruento. E’ visibile che il concetto darwiniano di lotta per la sopravvivenza è stato modellato su questa idea di “guerra di tutti contro tutti”. “Liberalismo” è una parola che evoca connotazioni positive, eppure, ridotta all’osso, è la concezione socio-politica più brutale che ci possa essere.

Quello che più conta, però, è che quest’analogia che è stata così importante per lo sviluppo delle scienze biologiche, è in ultima analisi falsa. A spiegarcelo è proprio uno scienziato evoluzionista, il padre dell’etologia Konrad Lorenz. Occorre distinguere, egli ci spiega, la selezione naturale interspecifica, cioè quella che avviene tra le specie, dalla selezione intraspecifica, cioè all’interno di una stessa specie; la prima è il motore dell’evoluzione, la seconda produce effetti per lo più mostruosi.

Stiamo parlando, sia chiaro, della selezione non coscientemente orientata, ma di quella lasciata al libero gioco casuale delle forze in campo, e “selezione naturale intraspecifica non orientata nella specie umana” è in definitiva ciò che potremmo tradurre con un termine oggi molto in voga, “mercato”. Che “il mercato” produca effetti mostruosi, è qualcosa che abbiamo smesso di notare solo perché abbiamo sotto gli occhi lo spettacolo orrido delle conseguenze delle politiche dirigistiche ispirate all’egualitarismo, alle atrocità politiche e allo scempio economico che sono stati perpetrati per mezzo secolo oltre quella che un tempo è stata la Cortina di Ferro, ma provatevi soltanto a chiedervi che senso abbiano la ricchezza economica e il prestigio sociale che si attribuiscono a figure parassitarie come i grandi capitalisti e i loro lacché politici, nonché ad attrici, cantanti, calciatori, top model, escort, mentre l’intelligenza creativa, la ricerca scientifica, il talento soprattutto dei giovani vengono scoraggiati e umiliati in tutti i modi, e si veda lo stato miserrimo in cui oggi sono lasciati la ricerca scientifica e i giovani ricercatori costretti a una vita da precari in Italia.

L’equivalente, o meglio la proiezione del mercato nella politica è ciò che noi conosciamo come democrazia, e anche qui abbiamo un bellissimo nome per coprire una realtà spregevole. Il politico che ottiene il consenso, quello che finisce per avere nelle mani il destino di tutti, è quello che sa vendersi meglio, e tutti vedono le qualità che questo sistema tende a selezionare: furbizia, falsità, istrionismo, assenza di scrupoli, disinvoltura morale, disponibilità agli affari sporchi sottobanco, laddove intelligenza, competenza, comprensione dei problemi della collettività non hanno alcun ruolo.

Dovremmo ancora una volta, a venticinque secoli di distanza, ricordare l’ammonimento di Platone:

“I più adatti a esercitare il potere sono coloro che meno lo desiderano, coloro che vedono in esso un dovere verso la comunità e non un mezzo per realizzare ambizioni personali”.

Oggi l’ipocrisia del liberismo è più evidente che nel passato, di una “libertà” d’impresa e di mercato che non interessa la popolazione ma solo una fascia molto ristretta di magnati. Oggi “mercato” significa “mercato globale”, globalizzazione che saccheggia e colonizza i popoli e le realtà culturali e storiche del pianeta, immiserisce i più poveri per provocare flussi migratori verso le aree di maggiore benessere allo scopo preciso di cancellare le identità di popoli e nazioni per dare luogo a un mondo ibridato, un’ibridazione che equivale a una perdita di cultura, memoria storica, consapevolezza, cui si sottrae solo la casta dei signori del pianeta, la maggior parte residenti negli USA e di religione o calvinista o ebraica (e delle varianti che esistono di cristianesimo, il calvinismo è quello più vicino alle radici ebraiche della religione del “Discorso della Montagna”, quello che più radicalmente distingue fra i “predestinati alla salvezza”, della quale il successo negli affari non importa come conseguito, è il segno esteriore, e la massa dei dannati da un Dio crudele quanto i suoi fedeli).

E si vede quanto sia ipocrita l’inganno della democrazia, perché ai popoli viene surrettiziamente sottratto il diritto di decidere alcunché, nemmeno di preservare la propria identità.

Nel fascismo c’è sempre stata una componente “socialista”, “di sinistra” ma a questo riguardo le confusioni e gli equivoci si sono sprecati. Anche qui, bisogna ammettere che “il socialismo” è stato un movimento complesso, portatore di istanze diverse, in alcune delle quali ci possiamo riconoscere (facendone con ciò qualcosa di altro), in altre no. Senza dubbio ci riconosciamo nello spirito anticapitalista, con un’importante distinzione rispetto alla concezione marxista: l’imprenditore che lavora e dà lavoro non va messo sullo stesso piano del capitalismo finanziario e bancario che non crea nulla ma è semplicemente un’entità parassitaria che sposta grandi masse di denaro per il mondo trasformando il lavoro di molti nella ricchezza di pochi. Nell’internazionalismo si può vedere qualcosa da accogliere con molte riserve; anche noi dobbiamo cercare di essere quanto più possibile internazionali, collegarci con chi all’estero è simile a noi, perché è l’unico modo di combattere un nemico che trascende i limiti nazionali, ma l’identità di popoli e nazioni rimane per noi un prius, e non possiamo scordare che soprattutto per i comunisti “internazionalismo” significava in realtà subordinazione all’Unione Sovietica. Dell’egualitarismo abbiamo visto cosa si debba pensare, ma rimane la validità di quella che oggi in un clima di neoliberismo, di “liberalizzazioni”, di privatizzazioni sembra la peggiore delle bestemmie, ossia il principio dell’intervento dello stato nell’economia per avere i mezzi per orientare la vita di una nazione secondo finalità che non sono necessariamente quelle del “mercato”, soprattutto oggi che è chiaro che la “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith ci sta lentamente strozzando.

In questo senso non dobbiamo avere alcuna paura di essere “socialisti”, di contraddire i dogmi liberisti oggi vigenti nell’economia: lo stato ha non solo il diritto, ma il dovere di intervenire con misure autoritarie in campo economico quando si tratta di salvare i popoli dalla spoliazione di cui ne fanno oggetto le lobby del capitale internazionale.

Le capacità dell’essere umano, le attitudini sia intellettive sia caratteriali, la cui valorizzazione dovrebbe essere la cura di un sistema prodotto dalla rivoluzione elitaria, a loro volta, sono il prodotto dell’eredità o dell’ambiente, della natura o della cultura, dell’effetto combinato di entrambe e in che proporzione?

Il dogma democratico (e la democrazia è un sistema dogmatico dove l’esercizio della libertà di pensiero è ammesso solo se ci si muove entro limiti ben precisi) vuole che l’ambiente, la cultura, l’apprendimento siano tutto e che l’eredità, la base genetica, l’innato non contino assolutamente nulla. Qui riconosciamo il postulato di base dell’egualitarismo: siamo tutti potenzialmente degli zeri intercambiabili, non esistono geni o idioti, ma solo individui cui sono toccate in sorte migliori o peggiori opportunità educative.

Questo dogma è suscettibile di diverse utilizzazioni come un coltello multiuso; guai ad accorgersi, per esempio, che esistono differenze di attitudini e intellettive non solo all’interno dei gruppi umani, ma fra di essi, che quella brutta, bruttissima cosa che chiamiamo razzismo trova il suo fondamento nella realtà, mentre è l’antirazzismo a non essere altro che utopia.

A cercare di dare un fondamento scientifico al dogma democratico-egualitario è stata fra gli anni ’20 e ’50 del XX secolo negli Stati Uniti (e dove sennò?) la scuola psicologica nota come comportamentismo (behaviorism), e per farlo ha adottato un riduzionismo incredibilmente semplicistico, riducendo tutta la vita psichica al fenomeno dei riflessi condizionati scoperti dal fisiologo russo I. P. Pavlov.

In termini scientifici, si tratta di assurdità allo stato puro: è semplicemente impensabile che i meccanismi della selezione naturale non abbiano modellato nel tempo le capacità intellettive e le attitudini comportamentali degli esseri viventi così come ne hanno plasmato i caratteri fisici. Konrad Lorenz, ricercatore di indubbia probità scientifica ha dedicato un suo libro, Evoluzione e modificazione del comportamento a rispondere alle mistificazioni e alle grossolanità dei comportamentisti, sottovalutando o ignorando però le implicazioni politiche del discorso, e in democrazia dove vige una tolleranza molto bassa per le idee anticonformiste, probabilmente per lui sarebbe stato pericoloso non farlo.

Anni fa, stavo tenendo una lezione proprio sul comportamentismo, e avevo appunto spiegato che fra le varie correnti psicologiche il comportamentismo è considerato quella più democratica precisamente per la sua esclusione dei fattori innati nella determinazione della personalità, laddove le psicologie europee, Jean Piaget, la teoria della Gestalt, Konrad Lorenz si portano dietro perlopiù la “macchia” dell’innatismo.

Un allievo alzò la mano e mi fece una domanda.

“Ma professore”, disse, “Cosa c’è di democratico in questo? Quello di poter modellare a piacere gli esseri umani come una creta molle, è il sogno di qualsiasi dittatore!”

Aveva ragione, ma io non avevo altro torto se non quello di dovermi attenere alla regola che non consente di fare dalla cattedra discorsi politici troppo espliciti. In effetti, non c’è alcuna contraddizione tra democrazia e spirito autoritario; oggi la censura democratica delle idee anticonformiste ha assunto il nome di political correctness.

Se un ricercatore ha un minimo di onestà e non cerca di falsare i fatti, la realtà delle cose salta fuori a dispetto delle sue intenzioni dichiarate. John B. Watson fondatore della scuola comportamentista sosteneva:

“Datemi un bambino, purché sano, e (attraverso la tecnica dei riflessi condizionati) ne farò quello che volete voi; se volete che ne faccia un delinquente, ne farò un delinquente, se volete che ne faccia il presidente degli Stati Uniti, ne farò il presidente degli Stati Uniti”.

(Prescindiamo ora dal fatto che alcuni presidenti degli Stati Uniti sono stati fra i peggiori delinquenti della storia, da Franklin Delano Roosevelt che ha ordinato durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti di massa sulle città europee, ad Harry Truman che si è assunto la responsabilità dei bombardamenti nucleari sul Giappone, a esempi recenti, tutte le volte che l’America ha deciso di “mostrare i muscoli” contro questo o quello stato facendo strage di civili inermi).

Si noti quel “purché sano” che fa rientrare dalla finestra l’innatismo cacciato dalla porta: chi è affetto dalla sindrome di Down, ad esempio, non possiamo certo pensare di avviarlo a una carriera accademica.

In maniera analoga il saggio del genetista di origine ucraina Theodosius Dobzhansky Diversità genetica e uguaglianza umana vorrebbe essere un testo fondamentale dell’antirazzismo, ma si lascia scappare alcune ammissioni interessanti; ad esempio riporta una tabella con i coefficienti di correlazione (in pratica le somiglianze) fra i quozienti d’intelligenza di persone con vari gradi di parentela, da cui apprendiamo che i gemelli monozigoti separati alla nascita hanno un coefficiente di correlazione del Q.I. del 75% mentre estranei allevati insieme lo hanno solo del 24%. Davvero occorre altro per capire che l’intelligenza è determinata per tre quarti da fattori genetici e per un quarto da fattori ambientali?

Io penso che non sia buona politica rispondere al fanatismo, alla cecità dogmatica, alla stupidità con altrettanto dogmatismo e stupidità, ma con l’intelligenza e l’aderenza alla realtà: alla cecità dogmatica dei democratici che vorrebbero negare qualsiasi peso all’ereditarietà nel determinare quello che noi siamo, non bisogna rispondere con una simmetrica e altrettanto stupida negazione dell’importanza dei fattori ambientali, della cultura, dell’educazione, che hanno un loro ruolo anche se non così onnipotente, ma con la rispondenza ai fatti.

Nel libro Intelligenza emotiva di Daniel Goleman si trova un’interessante ammissione. Dai test effettuati nelle scuole americane risulta che i ragazzi di origine asiatica, cinese e giapponese, hanno alla conclusione del ciclo di studi superiori, un quoziente intellettivo medio di 105, cioè uno scarto di cinque punti rispetto alla media della popolazione bianca. Tale scarto non sembra dovuto a fattori genetici, all’inizio del curriculum scolastico è inesistente e si accresce man mano col trascorrere del tempo (a differenza dello scarto verso il basso di 15 punti che separa i ragazzi di origine africana da quelli di origine europea, che appare non collegato a fattori ambientali e assolutamente incomprimibile).

Il genitore di origine asiatica, spiega Goleman, è più esigente di quello “bianco”, pretende che i ragazzi studino, facciano i compiti, non concede loro giustificazioni a cottimo e disponibilità a coprirli in ogni circostanza. Tutto ciò consente loro non solo di ricevere una cultura e una formazione professionale migliore, ma ha effetti positivi sullo sviluppo stesso dell’intelligenza. Dovremmo fermarci un momento a riflettere su cosa priviamo i nostri figli con un’educazione democratica, lassista, permissiva, che non solo non li prepara ad affrontare le difficoltà della vita, ma ha effetti deprimenti sul loro potenziale intellettivo.

Winston Churchill è stato una figura storica che non merita alcuna riabilitazione, è stato determinante nello svendere il futuro dell’Europa agli Stati Uniti; le conseguenze della sua politica le stiamo tuttora pagando tutti noi, tuttavia non posso citare senza almeno un po’ di simpatia il barlume di saggezza che dimostrò il giorno che uno straniero gli chiese:

“Perché voi Inglesi che siete così affettuosi con i vostri cani, siete così duri con i vostri figli?”
“Perché dei nostri cani”, rispose, “Non abbiamo alcuna intenzione di farne degli uomini”.

Lo scopo dell’educazione non è solo quello di trasmettere conoscenze e competenze, ma prima di tutto di forgiare il carattere.

Di uomini che sappiano davvero essere degli uomini, di questo ci sarà più che mai bisogno nelle lotte del futuro.

Condividi:

5 Responses

  1. Paganitas
    | Rispondi

    Casta e Rito sono Tradizione. Se li si abbandona si finirà inevitabilmente nell'egualitarismo.

  2. Fabio Calabrese
    | Rispondi

    Vorrei rispondere a Paganitas: mi pare chiaro che egli usa la parola "casta" nel senso della spiritualità indo-aria, per la quale io ho un grande rispetto come per tutte le forme di religiosità indoeuropee e non abramitiche. Io l'ho usato nel senso della sociologia, ossia quello di una classe dirigente che non ammette alcuna forma di cooptazione ma si riproduce solo attraverso il diritto di nascita.

    Questo è in contrasto, ad esempio, con la concezione romana; i senatori erano "patres et cum scripti", cioè non solo coloro che appartenevano alle "gentes", ma anche coloro che si erano guadagnati la posizione senatoriale per merito.

    Poiché gli uomini NON SONO uguali, di fatto, l'egualitarismo produce società a mobilità bloccata, come erano i "socialismi reali" dell'Europa dell'est, ossia niente altro che oppressione e miseria; "caste" nell'accezione negativa che la sociologia dà a questo termine, che è senz'altro diversa da quella a cui pensa Paganitas. Sono sicuro che, avendo la possibilità di confrontare meglio i nostri punti di vista, scopriremmo che differiscono molto meno di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

    Fabio Calabrese

  3. Paganitas
    | Rispondi

    La ringrazio per la risposta.

    Mi scuso per aver frainteso il termine. In effetti il mio commento è stato frettoloso, volevo dire Casta e Rito intesi tradizionalmente e non profanamente come semplici lobby di potere.

    Sicuramente sono certo di condividere in pieno le sue idee. Prova ne è la difesa strenua che ho fatto del suo articolo precedente attaccato dai soliti fanatici figli delle religioni abraminiche.

    Da parte mia in qualità di anonimo commentatore internettiano ha il mio completo appoggio.

  4. Fabio Calabrese
    | Rispondi

    Caro amico, grazie.

  5. W.Montecuccoli-Kuche
    | Rispondi

    Evola in ogni caso, non comprende a fondo il pensiero europeo quando parla di gerarchie, le sue gerarchie non sono quelle europee. L'idea di casta poi, è molto diversa nella prospettiva di tutti i pensatori europei.

Rispondi a W.Montecuccoli-Kuche Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *