Nicola Cusano e il gioco della palla

Il cardinale Cusano rappresentato nelle Cronache di Norimberga
Il cardinale Cusano rappresentato nelle Cronache di Norimberga

«Il movimento della vita perenne e indefinita è simboleggiato da un moto circolare», scriveva il cardinale Nicola Cusano nella sua operetta-dialogo Il gioco della palla che ha pubblicato recentemente Città Nuova, a cura di Federica Federici Vescovili, in occasione del sesto centenario della nascita.

«In ogni movimento circolare dev’esserci la rotondità la quale fa sì che tale movimento si svolga su se stesso. Né il concetto né la natura del movimento circolare o della perennità possono essere conosciuti o posseduti in altro modo se non come prendendo come principio il centro intorno al quale il movimento continuo si muove, tanto che se esso (il centro) non esistesse, non potrebbero essere conosciuti o esistere né la durata né il movimento perenne della vita che trova il proprio riferimento nell’eguaglianza fino all’identità; in questo modo si comporta il centro che è il Cristo rispetto a tutte le circolazioni».

L’uomo tende a quel centro lanciando una metaforica palla il cui movimento è somigliante al suo peregrinare terreno: movimento che devia spesso dalla retta via a causa della sua “terrestrità”, come quello della palla che incontra sul percorso ostacoli o deformazioni. Il tema del gioco della palla e della rotondità, di cui sono citate alcune applicazioni, si sviluppa in un dialogo spiraliforme dove il pensiero del Cusano più maturo viene esplicitato per metafore che richiedono al lettore non pochi sforzi, perché il suo linguaggio funambolico e ricco di neologismi non è facile da percepire immediatamente. Ma l’arricchimento spirituale e culturale che se ne ricava merita lo sforzo perché Cusano è di una straordinaria modernità, come hanno rilevato nel secolo scorso anche Cassirer, Jaspers e il teologo luterano Dietrich Bonhöffer, pur isolando dal più ampio contesto alcuni aspetti della sua riflessione filosofica e teologica. Si pensi, ad esempio, alla sua visione di Dio in cui tutto si annulla e coincide, Non-Altro dell’altro, punto indivisibile, luogo inconoscibile dove tutte le contraddizioni si annullano nella sua infinita onnipotenza.

Nicola Cusano, così chiamato perché nato nell’agosto del 1401 a Cues (oggi Bernkastel-Cues), era figlio di un battelliere benestante, Giovanni Criffts o Kreves, che corrisponde a Krebs, gambero: per questo motivo sulla sua tomba in San Pietro in Vincoli, a Roma, si vede scolpito un gambero. Protetto dal conte Ulrico di Manderscheid, che ne aveva intuito il talento, studiò a Heidelberg e a Padova, dove conseguì il titolo di doctor decretorum. Poi si recò a Colonia per seguire gli studi di filosofia e teologia del neoplatonico Eimerico di Campo, che lo avviò alla lettura di Proclo e dello Pseudo Dionigi. Grazie a queste diverse frequentazioni spaziava agevolmente dal diritto alla scienza, dalla teologia alla filosofia.

Consacrato sacerdote, s’impose a poco a poco come una delle figure più autorevoli della Chiesa anche per la sua tendenza conciliatrice ed ecumenica. Proprio nel 1438, mentre su una nave accompagnava a Roma il patriarca ortodosso e i padri greci per il concilio dell’Unione, che purtroppo non portò alla riunificazione delle due Chiese, ebbe l’intuizione della «dotta ignoranza» che avrebbe ispirato l’omonimo suo scritto. Capì che ogni conoscenza che acquistiamo è accompagnata dalla consapevolezza della nostra ignoranza perché il conoscere dell’uomo non è mai definitivo e preciso, così come i gradi di approssimazione alla verità sono infiniti.

Cusano si era posto anche il problema della molteplicità delle tradizioni religiose, che non si poteva risolvere decretando semplicisticamente che tutte erano false rispetto al cristianesimo. Una celebre pagina del De docta ignorantia spiega a questo proposito che i pagani chiamavano Dio con vari nomi secondo le relazioni varie con le sue creature: Giove per la sua mirabile bontà; Saturno per la profondità dei suoi pensieri e per le scoperte nel campo delle cose necessarie ai bisogni della vita, e così via. «Tali nomi – spiegava – sono esplicazioni di quell’unico nome ineffabile che complica tutti i nomi».

Successivamente, nel De pace fidei, il Cusano riprendeva il suo metodo filosofico a favore dell’unità delle religioni spiegando, a proposito delle differenze tra il monoteismo puro di ebrei e musulmani e quello trinitario dei cristiani, che Dio in quanto creatore è uno e trino, ma come essere infinito non è trino né uno né altra cosa formulabile con il nostro linguaggio; e osservava che i nomi attribuiti a Dio sono in realtà desunti dalle creature, mentre Egli è in sé ineffabile. Nel 1448 veniva nominato cardinale e due anni dopo vescovo-principe di Bressanone e legato pontificio per la predicazione del giubileo in Germania, dove si sarebbe trattenuto fino alla Pasqua del 1552 promuovendo riforme nella liturgia, nei costumi e nella disciplina ecclesiastica in senso rigoristico. Era infatti molto preoccupato dello stato di decadenza morale della Chiesa.

Dopo la sfortunata esperienza di vescovo-principe, che si era conclusa con la rivolta dei monasteri della zona, irritati per il suo desiderio di disciplinarli, e con la sconfitta subita nella guerra che gli aveva mosso il conte di Tirolo per alcuni territori di confine, Nicola Cusano tornò a Roma impegnandosi senza successo in un’opera di riforma della Curia e del governo temporale che forse avrebbe evitato il futuro scisma luterano. Un giorno – si era nel 1461 – sfiduciato e stanco aveva pregato Pio II di lasciarlo partire: «Se ti senti di ascoltare la verità – gli diceva – ti dirò che non mi piace niente di ciò che si fa in questa Curia. Tutto è corruzione. Nessuno soddisfa al suo dovere; né a te né ai cardinali sta a cuore la Chiesa. Quale osservanza dei canoni c’è qui? Quale riverenza per le leggi? Quale diligenza nel culto divino? Tutti seguono l’ambizione e la cupidigia. Se qualche volta in concistoro parlo di riforma vengo deriso. Qui sono del tutto inutile…». E scoppiò a piangere. Ma il Papa lo obbligò a restare nella Curia rimproverandolo ingiustamente: «Tutta la tua irrequietudine ha origine in te stesso. Dovunque andrai, il tuo animo ti suggerirà nuove ragioni di turbamento, in nessun luogo sarai tranquillo».

Non sopravvisse a lungo a quell’immeritata umiliazione. Morì l’11 agosto 1464 a Todi mentre stava viaggiando verso Ancona per raccogliere e imbarcare le truppe dell’Italia centrale che avrebbero dovuto partecipare al tentativo di crociata contro i Turchi. Fu sepolto, secondo la sua volontà, a Roma, ma significativamente senza il cuore che aveva destinato alla natia Cues, dove venne sistemato nella cappella dell’Ospizio dei Poveri da lui fondato.

Nonostante i suoi meriti filosofici e letterari – diventò uno degli ispiratori dell’umanesimo cristiano – la sua fama fu legata per secoli quasi esclusivamente alla sua attività pastorale e diplomatica. Oggi è giunto il momento di riprenderne le intuizioni e le argomentazioni per riproporre in chiave contemporanea quel suo umanesimo cristiano che, secondo Mircea Eliade, sapeva coniugare le esigenze della scienza del misurabile con quelle della teologia e del linguaggio simbolico.

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Originariamente pubblicato con il titolo Cusano passa la palla a Dio su Avvenire del 19 giugno 2001.

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