Federico II: teocrazia e messianesimo

Nel testo del diploma in cui è motivata la concessione della Medaglia d’Oro della Resistenza al Comune di Parma si possono leggere le seguenti parole: “Fiere delle secolari tradizioni della vittoria sulle orde di Federico imperatore, le novelle schiere partigiane rinnovavano l’epopea vincendo per la seconda volta i barbari nepoti oppressori delle libere contrade d’Italia…” Testuale.

Ha un bel dire il buon Franco Cardini, in un suo scritto su Federico II, che bisogna tenersi lontano dalle sirene devianti dell’ “attualizzazione” e dell’ “inattualità”. Per circa due secoli una certa “storia patria” confezionata ad usum Delphini ha cercato di propinare a generazioni di Italiani una vera e propria falsificazione: quella secondo cui la ribellione antimperiale dei Comuni avrebbe rappresentato l’alba della coscienza nazionale e avrebbe costituito il primo tentativo dell’Italia per spezzare il giogo impostoci dal “secolare nemico” tedesco. Non c’è da stupirsi più di quel tanto, dunque, se colui che Dante chiamò “ultimo imperadore de li Romani” (Conv. IV, 3, 6) è diventato, per gli aedi dell’epos resistenziale, il capo di un’orda barbarica; così come non c’è da stupirsi più di quel tanto per la popolarità conosciuta negli ultimi anni dalla figura (più leggendaria che storica) di Alberto da Giussano.

Ma, al di là delle “attualizzazioni” propagandistiche e demagogiche, vogliamo chiederci quale sia la realtà di questo grande Inattuale, il cui ottavo centenario è venuto a coincidere, qualche anno fa, con il centocinquantenario di un altro Inattuale, un altro Federico: Friedrich Nietzsche, che in una sua celebre pagina definì Federico II “grande spirito libero, genio tra gl’imperatori”.

Cerchiamo allora di gettare un rapido sguardo sullo scenario storico e di delineare, sullo sfondo di esso, l’idea federiciana dell’Impero.

E’ stato detto che la prima delle guerre europee fu quella che scoppiò all’alba del XIII secolo tra il re di Francia Filippo Augusto, paladino del papa Innocenzo III, e il re d’Inghilterra, Giovanni Senza Terra, alleato con Ottone IV, l’Imperatore sconfessato dalla Cattedra di San Pietro. L’Europa era dunque scissa in due campi contrapposti e il conflitto si risolse il 27 luglio 1214, con la battaglia di Bouvines: questo evento consacrava il destino del regno di Francia, ne salvava l’unità consolidandone la frontiera orientale, sottraeva all’Inghilterra gran parte dei suoi domini nel continente, umiliava l’Imperatore Ottone IV e rappresentava un trionfo per il Papa.

Che cosa poteva concretamente significare l’idea di Impero in un’Europa divisa tra Francia e Germania, sottoposta all’arbitrio del Papa, esposta alle ingerenze inglesi? Un’Europa nella quale, non dimentichiamolo, il Sacro Romano Impero era venuto ad affiancarsi all’Impero Romano d’Oriente, che da parte sua poteva vantare una ininterrotta continuità con l’Impero fondato da Augusto, dunque una legittimità certamente non inferiore a quella dell’edificio fondato da Carlo Magno. Non solo: nel grande spazio imperiale, in Europa e in Africa, erano sorte altre realtà politiche e civili che non guardavano più a Roma. Roma restava sì un simbolo grandioso, ma nell’Europa del Duecento si poteva benissimo prescindere dall’ideale romano: così nella nuova monarchia unitaria francese, così nella Spagna musulmana, così negli stessi Comuni italiani o nella Repubblica di Venezia.

Eppure l’Impero, nella nuova forma che esso aveva storicamente assunta, significava qualcosa di più: certo nulla di più dell’altro edificio imperiale, ma sicuramente molto di più di ogni altra entità politica dell’Occidente cristiano. Di ciò, Federico II fu ben consapevole; anzi, tra tutti gl’imperatori medioevali il più lucidamente consapevole del significato dell’Impero fu proprio lui.

Lungi dal corrispondere ad un’ambizione individuale, il concetto federiciano dell’Impero era profondamente religioso e sacrale. Federico attribuiva all’Impero non soltanto un’origine divina, ma anche uno scopo supremo, che consiste nella salvezza stessa degli uomini. Nella concezione di Federico, infatti, la sovranità politica è stata istituita a rimedio della natura decaduta e corrotta del genere umano e svolge quindi una funzione analoga a quella della Chiesa nell’operare per la salvezza eterna dell’uomo. Ora, se questo vale per i singoli sovrani, a maggior ragione vale per quell’autorità nella quale culmina l’intera gerarchia dei poteri. Questa autorità è l’Imperatore, il capo di tutti i sovrani: al di sopra di lui c’è soltanto Dio, dal quale l’Imperatore riceve il potere e la missione di governare il mondo. Sulla scia delle rivendicazioni formulate a suo tempo dal Barbarossa, Federico II sostenne sempre, col massimo vigore, l’origine esclusivamente divina della sovranità imperiale.

Antonino De Stefano, uno studioso che ha messo in particolare risalto, contro certe diffuse distorsioni, il carattere eminentemente teocratico dell’idea imperiale di Federico II, pone in luce un aspetto interessante e significativo dell’analogia che intercorre tra l’elezione dell’Imperatore e quella del Papa: “Gli elettori, cui spetta l’alta responsabilità di eleggere il supremo esecutore della volontà divina nel dominio politico, ubbidiscono, secondo il concetto di Federico, nel momento dell’elezione, ad una ispirazione divina, paragonabile a quella che assiste i cardinali nell’elezione dei Papi” (A. De Stefano, L’idea imperiale di Federico II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, p. 50). Federico II ebbe perciò la convinzione profonda di essere l’eletto, l’unto del Signore, lo strumento della Provvidenza designato dallo Spirito. Si tratta, è superfluo rilevarlo, di una concezione inconciliabile con quel laicismo che molti hanno creduto di poter individuare nella visione politica federiciana. Inconciliabile perché, citiamo ancora il De Stefano, “la mentalità laica, che è la mentalità borghese, quale si esprime negli statuti comunali, nelle associazioni a base contrattuale e particolaristica (…) è come il terriccio in cui alligna ogni Stato democratico, costituito dall’accordo delle volontà individuali” (Op. cit., p. 54).

Non solo religiosa e teocratica, la concezione federiciana dell’Impero “tradisce un carattere quasi profetico e messianico. L’elemento religioso e cristiano – secondo il De Stefano – è non meno essenziale all’Impero federiciano di quello che lo era stato per l’antico Impero Romano l’elemento religioso e pagano. Ma più adeguata sarebbe forse l’analogia con l’Impero bizantino, cui la secolare tradizione attribuiva un carattere di santità inerente per diritto divino alla dignità imperiale, tradizione sia pure derivata a sua volta da quella romana e particolarmente da Diocleziano e poi da Costantino (…)” (Op. cit., pp. 55-56).

Secondo il De Stefano, “è evidente, in questa concezione, l’influsso dell’Oriente che tende a divinizzare la persona del sovrano e a cui nessun conquistatore occidentale, da Alessandro Magno in poi, poté sottrarsi. Questo elemento orientale – ribadisce il De Stefano – interviene a colorire la concezione imperiale di Federico, ma esso non è però così preponderante da tradursi in una divinizzazione della persona di Federico II”, sicché “bisogna escludere dalla mente di Federico ogni elemento idolatrico, (ma) non è men vero che egli si sente di essere più che ogni altro principe vicino al Signore, come il più alto e immediato esecutore della divina volontà” (Op. cit., p. 56).

Data questa concezione radicalmente religiosa del potere e data d’altra parte la necessità di superare quella dicotomia tra autorità spirituale e potere temporale che tendeva sempre più a diventare antagonismo tra Papato ed Impero, Federico II non poteva non guardare, come ad un modello ideale, all’istituzione islamica del Califfato. Ciò, oltre ad essere determinante ai fini della comprensione della concezione imperiale di Federico, dimostra ancora una volta quanto poco fondate siano le formule dell'”assolutismo laico” o addirittura del machiavellismo ante litteram, che spesso sono state applicate alla visione politica federiciana. In relazione a ciò, Raffaello Morghen ha svolto considerazioni che colgono nel segno. “Non si può parlare – egli scrive – di assolutismo illuminato, né tanto meno di paternalismo. L’assolutismo di Federico II era un assolutismo teocratico, attuato con criteri funzionali quanto si voglia, per quel che concerne l’amministrazione, ma di carattere prevalentemente orientale per quel che riguarda la sua prima ispirazione. A questo proposito – prosegue il Morghen – è significativa l’invidia che egli portava ai sovrani orientali che dominavano senza contrasto nei loro Stati, senza l’incomodo controllo del potere sacerdotale. E difatti lo Stato maomettano era essenzialmente uno Stato assoluto teocratico senza sacerdozio quale, senza dubbio, vagheggiava anche Federico II, non del tutto a torto detto dai suoi nemici ‘sultano battezzato’ ” (Medioevo cristiano, Laterza, Bari 1970, pp. 173-174).

Indubbiamente vanno respinti alcuni concetti e certa terminologia: assolutismo (perché l’assolutismo vero è quello che ripone nella stessa volontà del sovrano, anziché in Dio, la fonte della legge), orientale (perché l’Islam corrisponde, secondo le parole del Corano stesso, ad una “comunità mediana, centrale” e ad un Albero simbolico che non è “né orientale né occidentale”), maomettano (perché nella concezione islamica non è il Profeta Muhammad, ma Dio stesso, a disegnare le linee dell’organizzazione politica, così come d’ogni altro settore dell’esistenza umana). Nella sostanza, comunque, le osservazioni di questo storico sembrano costituire, nel panorama della storiografia federiciana, una delle poche eccezioni alla regola. Lo stesso Ernst Kantorowicz, che pure con un certo pathos romantico evocò “l’aura fatale dei califfi” (Federico II Imperatore, Garzanti, Milano 1976, p. 187) in rapporto all’autoincoronazione di Federico a Gerusalemme, non è stato altrettanto esplicito nel porre in risalto la connessione ideale individuata dal Morghen.

Il Kantorowicz si sofferma invece sull’interesse suscitato in Federico dal principio ereditario che veniva osservato nella successione califfale e riferisce a sua volta quello che lo storico arabo Ibn Wasil aveva narrato nei termini seguenti: “Mi è stato raccontato che l’Imperatore, stando in Acri, disse all’emiro Fakhr ed-Din ibn ash-Shaykh di felice memoria: ‘Spiegami cos’è questo vostro califfo’. Fakhr ed-Din disse: ‘E’ il discendente dello zio del nostro Profeta (che Dio lo benedica e lo salvi), il quale ha avuto la dignità califfale da suo padre e suo padre dal proprio padre e per questo il califfato rimane nella casa del Profeta e non esce dai suoi membri’. ‘Com’è bello questo!’ rispose l’Imperatore; ‘Ma questi uomini di poco senno – e intendeva i Franchi – prendono un uomo dalla fogna, senza alcun vincolo di parentela e rapporto con il Messia, ignorante e incapace di spiccar parola, e lo fanno loro califfo, vicario tra loro del Messia, quando non meriterebbe assolutamente tale dignità. Mentre il vostro califfo, pronipote del vostro Profeta, è davvero il più degno fra tutti nella dignità da lui rivestita!” (Storici arabi delle Crociate, Einaudi, Torino 1963, p. 275).

“Come sarebbe bello – disse una volta Federico – governare uno Stato islamico, senza papi e senza frati!” Questa frase, come l’esclamazione “O felix Asia!“, che sulle sue labbra aveva il medesimo significato, illustra bene quella che il Morghen ha chiamata l’ “invidia” dello Staufen per i sovrani del mondo islamico, così come conferma quella sua “inclinazione all’islamismo” che secondo Michele Amari gli procurò l’ammirazione dei musulmani, allorché egli, andando a Gerusalemme, “menò seco (…) il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie, tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di cUmar; ed anco l’Imperatore avea a grado quella cantilena, né s’adirava che si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati politeisti” (Storia dei Musulmani di Sicilia, Catania 1933, vol. III, pp. 659-660).

Tale “inclinazione all’islamismo”, la quale anche in seguito fece sì che la corte sveva d’Italia sembrasse musulmana “a tutti i buoni Cristiani dell’Occidente, secondo l’attestato di Carlo di Angiò, che appellava Manfredi il Sultano di Lucera” (ivi, p. 731) – tale “inclinazione all’islamismo” traspare ancora più chiaramente dalle lettere arabe della corrispondenza di Federico, che iniziano con la basmalah e terminano con il saluto islamico “wa as-salâm calaykum wa rahmat Allâh wa barakâtuhu“; ed è pure attestata dalle calligrafie che adornano la tunica indossata dall’Imperatore per il suo viaggio oltre la morte.

Federico II Hohenstaufen, è stato detto da un suo biografo, “riuniva in sé i caratteri dei diversi sovrani della terra; era il più grande principe tedesco, l’imperatore latino, il re normanno, il basileus, il sultano” (G. Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137). Ma è appunto quest’ultimo titolo a far risaltare quanto vi è di specifico nella sua idea imperiale: l’aspirazione all’unità di autorità spirituale e di potere temporale. Ed è proprio questa sua qualità di “sultano” a rendere possibile l’affermazione secondo cui “il coranico Re dei re, più che il Dio cristiano, (lo) aveva esaltato miracolosamente sopra tutti i prìncipi della terra” (R. Morghen, op. cit., p. 175).

Più in generale, l’Islam influì sull’orientamento spirituale di Federico, sulla sua formazione culturale, sui suoi interessi filosofici e scientifici. Anche se non si vuole ammettere, con il Niese, che lo Staufen abbia derivato da Avicenna la propria concezione della realtà, bisogna pur sempre riconoscere che il Maestro di Bukhara esercitò su di lui un influsso enorme. Negli scritti di Avicenna i fenomeni naturali acquistano trasparenza simbolica, rivestendosi di un significato spirituale per il soggetto che entra in contatto con loro nel viaggio spirituale verso la Luce divina. Nei suoi Racconti visionari “Avicenna, il naturalista, scienziato e filosofo, diventa il navigatore e guida attraverso l’intero cosmo, dal mondo delle forme più grossolane al Principio divino. Tutta questa vasta conoscenza, qui illuminata dalla visione intellettuale, gli serve da base su cui costruire con grande bellezza il panorama dell’universo su cui l’iniziato deve compiere il suo viaggio” (S.H. Nasr, Scienza e civiltà dell’Islam, Milano 1977, pp. 242-244). Ecco come le scienze della natura possono trasformarsi in strumenti per la conoscenza metafisica. La molteplicità degli interessi scientifici e la funzione che questa molteplicità viene ad avere ricollega dunque Federico ad Avicenna. Tra l’altro, per redigere il suo trattato di falconeria De arte venandi cum avibus Federico si avvalse, oltre che della sua personale esperienza in materia, proprio del compendio di zoologia di Avicenna, il De animalibus, resogli accessibile da Michele Scoto; e quest’ultimo, che fu il più celebre dotto della corte palermitana, non solo tradusse Avicenna, Averroè e Alpetragio, ma si giovò delle fonti musulmane per i suoi numerosi studi di filosofia, astrologia, alchimia, matematica, fisiognomica, mantica.

Ma gl’interessi di Federico non si limitavano alle scienze: altrettanto la sua attenzione fu attratta dalle questioni filosofiche. A tale proposito, leggiamo nell’opera monumentale dell’Amari osservazioni che mostrano ancora una volta quale importanza ebbe l’Islam nella formazione di Federico: “Il genio dunque dei tempi, l’adolescenza passata alla corte di Palermo, la quotidiana provocazione di papi ambiziosi e tracotanti, ed anco la sottigliezza del cervello germanico, disponean Federico alla metafisica. Si potrebbe supporre a priori ch’ei fosse stato educato alla scuola peripatetica degli Arabi, poiché l’Europa cristiana in quel tempo non soleva attingere ad altra fonte che quella. Cresce l’argomento col noto fatto ch’ei menò seco alla Crociata un musulmano di Sicilia, col quale aveva studiato già la dialettica” (M. Amari, op. cit., III, p. 720).

Che anche per le questioni filosofiche Federico cercasse le soluzioni presso i dotti dell’Islam, lo testimonia il codice arabo custodito ad Oxford e intitolato Quaestiones Sicilianae. Questo testo, del quale, dopo alcuni compendi e traduzioni parziali, ancora si attende una traduzione integrale in una lingua europea, contiene le risposte fornite da cAbd al-Haqq ibn Sabcîn, un filosofo musulmano d’origine visigota nativo di Murcia, ai quesiti rivoltigli dall’Imperatore circa la durata del mondo, lo scopo e i presupposti della teologia, il numero reale delle categorie (i dieci concetti fondamentali dell’essere enumerati nella Logica aristotelica: sostanza, qualità, quantità, relazione ecc.), la possibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima e, infine, il significato esoterico del hadîth secondo cui “il cuore del credente sta tra due dita del Misericordioso”. In un primo momento, Federico si era rivolto ai filosofi del Sultanato di Konya, poi a quelli dell’Iraq, della Siria, dell’Egitto e dell’Arabia; ma, essendo rimasto poco soddisfatto delle risposte che gli erano state date, si rivolse al califfo almohade Rashîd cAbd el Wâhid, che regnava sul Maghreb, e questi mise l’Imperatore in contatto con Ibn Sabcîn.

La familiarità di Federico II con l’Islam non si spiega soltanto coi rapporti privilegiati che egli intrattenne con il mondo arabo e turco-selgiukide, ma è dovuta anche al fatto che l’Islam non era una realtà estranea all’Impero. Consistenti comunità musulmane vivevano infatti su alcuni dei territori soggetti all’autorità imperiale: non solo nel regno di Gerusalemme, ma anche in alcune zone dell’Italia meridionale, dove l’Islam era ormai presente da quattro secoli; nella stessa corte di Palermo c’era un gruppo di arabi che svolgeva attività amministrativa ed esclusivamente di musulmani era costituita la guardia del corpo di Federico.

Siamo dunque di fronte a quella che potremmo chiamare una realtà multiculturale, se il termine non richiamasse inevitabilmente “attualizzazioni” indebite ed ambigue. Forse possiamo riuscire a capire qualcosa di più, se cerchiamo di vedere quale fosse il rapporto dell’Impero con le culture e con le nazioni.

E’ sempre Franco Cardini a osservare come costituisca un falso problema, in rapporto al tema dell’unità nazionale italiana, la discussione circa il ruolo svolto da Federico II nell’accelerarla o ritardarla. Infatti nella prospettiva di Federico, come più tardi in quella di Dante, l’Italia esisteva, indubbiamente; ma per loro non era certo una “nazione” nel senso moderno del termine. L’Italia, per gli uomini del Duecento, era una realtà storico-geografica: per dirla con Dante, era “il giardin dell’imperio”, la “serva Italia” trascurata dall’imperatore Alberto d’Absburgo, era quella stessa terra che al tempo di Roma fu “donna di province”. Ed era anche una realtà linguistica, l’Italia, perché sul suo territorio si parlava (a prescindere dalla frammentazione dialettale) quel volgare italico che Dante individuava come una filiazione unitaria della lingua latina – volgare italico che la scuola siciliana fiorita alla corte di Federico tenne per così dire a battesimo sotto il profilo letterario.

Ma né nella coscienza di Federico né in quella di Dante esisteva l’idea di uno Stato nazionale italiano. Il regnum Italiae sottoposto alla sovranità di Federico coincideva all’incirca con quei territori della nostra penisola che, arrivando a comprendere Emilia e Toscana, confinavano a est e a sud-est con il cosiddetto Patrimonio di San Pietro; coincideva cioè, il regnum Italiae, con quel regno longobardo che nel 774 era passato sotto i Franchi e che nel 952 era stato aggregato, da Ottone I, ai territori germanici. Quanto al regnum Siciliae, che dai confini meridionali del Patrimonio di San Pietro si estendeva fino alla Sicilia propriamente detta, Federico II cercò sì di unirlo al regnum Italiae, tentando di realizzare quella che Cardini chiama “una politica di personale Anschluss” tra questi due regni, dei quali egli cingeva ambedue le corone; ma un tale progetto non aveva niente di “nazionale” nel senso moderno del termine.

L’ideale politico medioevale, infatti, era l’Impero universale: la comunità dei re e dei principi, dei popoli e dei paesi sotto la guida dell’Imperatore romano, il quale non apparteneva a nessuna nazione, ma troneggiava su tutte. Secondo Ernst Kantorowicz, questa grande idea di un Impero romano che raccoglie in un’unica comunità tutti i popoli e tutte le stirpi, aveva la sua immagine storica, il suo riflesso, nella Germania, perché in Germania “si trovava quella molteplicità di stirpi e di principi, la quale sola corrispondeva a quella ideale comunità europea di re e di popoli” (E. Kantorowicz, op. cit., p. 391), tant’è vero che la Germania rimase sempre das Reich, l’Impero.

Forse sarebbe più corretto dire che la Germania fu una, ma non certo l’unica, delle immagini storico-geografiche nelle quali si rifletté l’idea dell’Impero inteso quale comunità di stirpi. Non bisogna infatti dimenticare che con Federico II la corte dell’Impero si sposta sul Mediterraneo e che l’Imperatore, nel 1229, estende la sua autorità effettiva su Gerusalemme e altri luoghi della Palestina. L’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed euroasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno (al quale Federico II venne paragonato dai Musulmani; e si tenga presente l’importanza che ha Alessandro Magno, il Bicorne di cui parla il Corano, nella cultura islamica). In quanto sovrano dei regni di Sicilia e di Gerusalemme in un’epoca in cui l’Impero bizantino era crollato sotto i colpi della IV Crociata e i poli politici del Mediterraneo erano il Califfato di Baghdad e il Sultanato d’Egitto, Federico II fu araldo di una politica di pace e di convivenza, mediatore fra culture e fedi religiose diverse, interprete di una realtà che aveva il suo centro nel Mediterraneo.

Dunque, se il Regno di Germania era un’immagine dell’Impero in quanto, dalle Fiandre alla Pomerania e dalla Borgogna e dal Regno di Arles fino a Vienna, offriva lo spettacolo di una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell’Impero federiciano presentava un quadro di differenze molto più profonde di quelle che caratterizzavano il panorama germanico.

Per quanto concerne il panorama etnico, nell’Italia meridionale e insulare troviamo popolazioni di origine latina, greca, longobarda, araba e berbera, normanna, sveva, ebraica. La situazione linguistica è ben rappresentata da quella celebre miniatura che si trova nel Cod. Bern 120 (riprodotta sulla copertina del libro di A. de Stefano Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981): le immagini dei notarii Greci, notarii Saraceni, notarii Latini ci rappresentano il trilinguismo della cancelleria imperiale. Lo stesso Federico II, d’altronde, era un poliglotta, che, oltre a parlare latino e volgare, tedesco e greco, arabo e provenzale, scrisse poesie in italiano, recando un contributo anche personale alla nascita della letteratura italiana, mentre suo padre Enrico e suo figlio Corradino poetarono in lingua tedesca.

Dal punto di vista religioso, abbiamo visto come nell’Impero di Federico II convivessero Cristiani (non solo cattolici, ma anche greco-ortodossi) e Musulmani. Ma c’erano anche, sui territori dell’Impero, molte comunità ebraiche. Nelle leggi da lui promulgate, Federico escluse gli ebrei da tutti gli uffici pubblici e dalle professioni liberali (il che non impedì che alla corte di Palermo fossero presenti alcuni dotti ebrei, come ad esempio Jacob ben Abbamari, traduttore dell’Almagesto di Tolomeo e del commento di Averroè ad Aristotele); impose loro tasse particolari come la jocularia (sulle feste di nozze allietate dai giullari) e la gabella fumi (su ogni capo di bestiame macellato); combatté l’usura limitando il tasso di interesse sui prestiti concessi dagli ebrei; stabilì che gli ebrei dovessero essere riconoscibili dall’abito, pena la confisca dei beni o l’impressione a fuoco di un marchio sopra la fronte. “Non per odio religioso, assolutamente, ma per necessità che l’ordine dello stato fosse mantenuto (…). Del resto, gli ebrei potevano, anzi dovevano vivere secondo i loro costumi, purché questi non venissero a detrimento dello stato” (p. 245). Così scrive Ernst Kantorowicz, lui stesso di origini ebraiche. (Lasciando l’Università di Francoforte nel 1933, il prof. Kantorowicz rivendicò orgogliosamente di essersi arruolato volontario nel 1914, di aver continuato a combattere contro i Polacchi, contro gli spartachisti di Berlino e contro la Repubblica dei Consigli di Monaco e, infine, di aver pubblicato un’opera che attestava i suoi “sentimenti per una Germania orientata in senso nazionale”, cioè la monumentale biografia Kaiser Friedrich der Zweite, che “raccolse le lodi entusiastiche di Hitler, Goering e Mussolini (…) le numerose riedizioni, fino al 1936, recavano in copertina la svastica che ornava la collana animata dal poeta Stefan George” (A. Boureau, Introduzione a: E. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi 1989, p. xiv).

Siamo molto lontani, evidentemente, da quel moderno e laico concetto di tolleranza che nasconde spesso un atteggiamento di indifferenza e si traduce talvolta in insofferenza, soprattutto nei confronti delle identità culturali di natura religiosa e tradizionale. Federico II invece ordina agli ebrei di vivere secondo i loro costumi e vuole che i musulmani vivano in maniera conforme alla propria tradizione in comunità cittadine governate da organismi autonomi: a Lucera, ad Acerenza, a Girifalco e altrove.

Un cronista siriano, Sibt Ibn al-Giawzî, racconta un episodio significativo, che illustra molto bene questo radicato amore di Federico per la molteplicità delle manifestazioni tradizionali. Il cadì che aveva consegnato Gerusalemme all’Imperatore temette che quest’ultimo potesse ritenersi offeso o infastidito udendo cinque volte al giorno l’adhân (l’appello alla preghiera rituale) dal minareto della moschea vicina alla sua residenza; ordinò dunque al muezzin di sospendere l’adhân per un riguardo all’illustre ospite. Federico se ne accorse e, quando seppe che il muezzin aveva taciuto perché si temeva di dispiacergli, disse al cadì: “Avete fatto male, o cadì; volete voi alterare il vostro rito e la vostra Legge e fede per causa mia? Se voi foste presso di me, nel mio paese, sospenderei forse il suono delle campane per causa vostra? Perdio, non lo fate; questa è la prima volta che vi troviamo in difetto” (Storici arabi delle Crociate, cit., p. 271).

Questa è la storia. Ma la figura di Federico non si esaurisce nella dimensione storica. Date le leggende che fiorirono intorno alla sua vita e alla sua morte, dato il ruolo quasi messianico ed escatologico che gli venne assegnato, date le connessioni coi centri spirituali che gli furono attribuite, Federico II è uno di quei personaggi storici che sono entrati nel mito.

I contatti di Federico con ordini iniziatici sia cristiani sia musulmani sono attestati da varie fonti. Si sa, ad esempio, che Federico intrattenne dei rapporti con l’organizzazione ismaelitica degli Assassini, la quale era sorta in Persia ed in Siria, nell’ambito della cosiddetta Scia “settimana”, dopo che il Saladino ebbe abbattuto (1171) la dinastia ismaelita dei Fatimidi, la quale per circa due secoli aveva regnato sull’Egitto e sul Nordafrica. (Generalmente il nome di “Assassini” viene fatto derivare da hashishiyyîn, “mangiatori di hashish“, ma secondo alcuni studiosi tale termine dovrebbe essere il plurale di un sostantivo arabo che significa “guardiano”, sicché gli Assassini sarebbero stati in realtà i “guardiani” della Terrasanta – titolo, questo, di cui si fregiava anche un’altra organizzazione iniziatica, quella dei Drusi, e in campo cristiano, lo stesso Ordine templare). Si parla dunque di uno scambio di lettere intercorso tra l’Imperatore e questa organizzazione, di un consenso espresso da quest’ultima in ordine all’acquisizione di Gerusalemme da parte dell’Impero, di un’elargizione di doni fatta da Federico agli Assassini. Il 22 luglio 1232 Federico avrebbe avuto come commensali, a Melfi, alcuni Assassini inviatigli come ambasciatori dal Vecchio della Montagna, il leggendario capo dell’organizzazione.

Furono parecchie le storie che fiorirono intorno a questi contatti di Federico con gli Assassini. Secondo una diffusa diceria, l’anno precedente gli Assassini avrebbero pugnalato il duca di Baviera per conto dell’Imperatore. Un’altra leggenda è stata raccolta dal Novellino e racconta addirittura di una visita che l’Imperatore avrebbe fatta al Vecchio della Montagna, al castello di cAlamût: “Lo ‘mperadore Federigo andò una volta infino alla montagna del Veglio e fulli fatto grande onore. Il Veglio, per mostrarli come era temuto, guardò in alto e vide due assassini. Presesi la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro incontanente”.

Ma nel Novellino si trova anche un’altra storia: quella “della ricca ambasceria, la quale fece lo Presto Giovanni al nobile Imperadore Federigo”. Il Prete Gianni – una figura di re-sacerdote cui ineriscono autorità spirituale e funzione di legislatore – volendo provare “se lo ‘mperadore fosse savio in parlare ed in opere, mandolli tre pietre nobilissime”, facendogli chiedere “quale è la migliore cosa del mondo”. L’Imperatore accolse il triplice dono, ma “non domandò di loro virtude”. Qualche giorno dopo, rispose agli ambasciatori del Prete Gianni: “Ditemi al signor vostro, che la miglior cosa di questo mondo si è misura”. Il Prete Gianni, udito il resoconto dei suoi messi, “lodò lo ‘mperadore, e disse che era molto savio in parola, ma non in fatto, acciò che non aveva domandato della virtù di così care pietre. Rimandò li ambasciadori ed offerseli, se li piacesse, che ‘l farebbe siniscalco della sua corte”.

Quale che sia il significato di questa e di altre analoghe storie, è forse lecito formulare la seguente ipotesi: introducendo una figura come il Prete Gianni, che simboleggia la signoria universale e l’unità dei poteri, e presentando tale figura come un modello metastorico, esemplare e perfetto che viene proposto a Federico II, le leggende alludono al tentativo federiciano di ricomporre il dissidio tra autorità spirituale e potere temporale; contemporaneamente esse sembrano alludere al bisogno di Federico di giustificare il proprio potere con un’investitura proveniente da un’autorità superiore a tutte le autorità terrene: l’autorità emanante dal centro spirituale supremo.

Quanto ai rapporti storici di Federico con l’Ordine del Tempio, essi furono gravemente compromessi dalla scomunica che Gregorio IX fulminò il 28 settembre 1227 contro l’Imperatore. Quando Federico arrivò ad Acri, i Templari e gli Ospitalieri andarono a prosternarsi ai suoi piedi; ma ben presto giunse da parte del papa la proibizione di prestare obbedienza all’Imperatore, sicché i crociati si divisero in due fazioni, una a lui fedele e l’altra ostile. Tra coloro che gli rifiutarono obbedienza vi furono appunto i Templari, i quali richiesero che gli ordini non venissero più impartiti in nome dell’Imperatore, ma in nome di Dio e della cristianità. Con tale proposta i Templari intendevano probabilmente salvare la situazione: e Federico, desideroso di ristabilire l’armonia e l’unità, la accettò di buon grado. Ma le buone intenzioni degli uni e la moderazione dell’altro furono vane di fronte all’ostinazione e all’accanimento del papa, il quale arrivò al punto di istigare i Templari affinché prospettassero al Sultano la possibilità di catturare e magari di uccidere l’Imperatore; col risultato, però, che al-Kâmil denunciò a Federico il tradimento che si preparava contro di lui. La rottura coi Templari era ormai netta; e quando l’Imperatore entrò in Gerusalemme per cingere la corona di Goffredo di Buglione, l’Ordine templare disertò la cerimonia. Tornato in Sicilia, Federico incamerò i beni dei Templari e li restituì solo dopo che Gregorio IX ebbe revocata la scomunica.

Bisogna anche dire, però, che il disaccordo verificatosi tra l’Imperatore e i Templari apparve privo di senso ad alcuni di questi ultimi, come ci è testimoniato dalla lettera che un cavaliere del Tempio inviò a Federico, per informarlo che “tanto i cristiani quanto i saraceni erano dell’avviso che la Crociata non avrebbe mai avuto un tale esito, se l’ombrosità del papa non gli avesse impedito di partecipare all’impresa” (E. Kantorowicz, op. cit., p. 680). Scriveva testualmente il Templare: “E veramente le nostre speranze riposano nel seno di Federico”. D’altronde, se vogliamo stare a sentire quello che scrive Evola, “non è il caso di idealizzare tutto l’Ordine Templare nella sua concretezza storica, specie quando esso assunse vaste dimensioni (…) Fra i loro membri vi furono di certo uomini che non erano all’altezza dell’idea ed erano privi di capacità” (J. Evola, Il mistero del Graal, Ceschina, Milano 1962, p. 146).

Molto migliori furono invece i rapporti di Federico II con l’Ordine Teutonico, costituito ad Acri verso la fine del XII secolo e destinato ad accogliere nei propri ranghi solo tedeschi di nobile famiglia. Il Gran Maestro dell’Ordine, Ermanno di Salza, eseguì importanti missioni diplomatiche per conto dell’Imperatore e fino alla morte di quest’ultimo restò il suo più fidato consigliere. “Per Federico – scrive Eberhard Horst – l’incontro con quest’uomo della Turingia, di venticinque anni più anziano di lui, costituì un colpo di fortuna eccezionale” (p. 119).

Ma se volessimo ricostruire integralmente il quadro dei rapporti di Federico con gli ambienti iniziatici del suo tempo, non dovremmo trascurare quella corrente spirituale che è stata detta dei Fedeli d’Amore, la quale ebbe i suoi primi esponenti proprio nei poeti della scuola siciliana. Luigi Valli, che nel suo studio su Il linguaggio segreto di Dante e dei “Fedeli d’Amore” sottopose ad un attentissimo esame la poesia fiorita alla corte di Palermo e gli stessi componimenti attribuiti all’Imperatore, ritenne che i poeti della corte siciliana (Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Jacopo Mostacci, Giacomino Pugliese, lo stesso Federico II e altri) parlassero un linguaggio simbolico influenzato dalla Provenza e dall’Oriente islamico.

E’ il caso di riferire un paio di brani poetici di Federico II, nei quali non sarà difficile cogliere la dichiarazione dell’Autore di voler conquistare la simbolica “rosa” (quella rosa che egli stesso chiama “fiore d’ogne fiore” e “fior di Soria”, cioè di Siria), nonché la sua professione di totale fedeltà e dedizione nei confronti della altrettanto simbolica Donna.

Della rosa fronzuta

diventerò pellegrino;

ch’io l’aggio così perduta.

Perduta non voglio che sia,

né di questo secolo gita,

ma l’uomo che l’ha in balia,

di tutte gioie l’ha partita.

L’altro brano:

Dat’agio lo meo core

in voi, madonna, amare,

e tuta mia speranza

in vostro piacimento;

e no mi partiragio

da voi, donna valente,

ch’eo v’amo dolzemente

(…)

ed ò fidanza ne lo mio servire,

e di piacere a voi, che siete fiore

sovra l’altre, e avete più valore.

Valor sor l’altre avete,

e tuta caunoscenza (…)

Si è accennato, più sopra, a un ruolo pressoché messianico ed escatologico che venne attribuito a Federico II.

Federico morì sub flore, come gli era stato predetto: non a Fiorenza, come egli aveva pensato interpretando la predizione, ma nel castello svevo di Fiorentino, la notte del 13 dicembre 1250. Morì a cinquantasei anni, come Cesare, come Dante, come Nietzsche e come altri grandi Europei: ché cinquantasei anni, secondo Macrobio, dura normalmente la vita degli uomini grandi. Morì la notte di Santa Lucia: quella stessa santa cui Dante assegnerà, nella Commedia, una funzione salvifica. Tra l’altro sarà proprio Lucia ad apparirgli in sogno nelle sembianze di un’aquila (aquila d’altronde è quasi un anagramma di Lucia) e a trasportarlo vicino all’ingresso del Purgatorio.

Ebbene, furono molti a non credere alla morte di Federico. “L’Imperatore non è morto: – cantava una saga – dorme circondato dai suoi cavalieri in una grotta inaccessibile del Kyffhäuser, aspettando l’ora in cui i corvi abbiano finito di volare intorno alla cima del monte e in cui il pero nano comincerà a fiorire nella valle…”. Quella sarà l’ora in cui germoglierà la “pianta dispogliata” vista da Dante nel Paradiso terrestre e rifiorirà l’Albero Secco situato da Marco Polo nel paese del Gran Khan: il risveglio di Federico e la rinascita dell’Impero segneranno la fine del nostro ciclo d’umanità.

Questa sensazione di un ruolo rigeneratore e decisivo connesso alla figura di Federico II e alla sua discendenza non si espresse soltanto nell’attesa popolare di un vaticinato Federico III; nell’avvento di un ordine nuovo, di una nuova età dell’oro, si sperò già quando era vivo e regnante Federico II, il quale, proprio in rapporto a tale aspettativa, venne chiamato innovator saeculi, immutator saeculi, signore dell’aurea aetas.

La figura di Federico II quale Re-Messia (non era nato il 25 dicembre?) e quale nuova apparizione di Augusto era stata preparata dai presagi formulati dall’Archipoeta al tempo del Barbarossa; ma sullo sfondo dei fermenti ereticali contemporanei l’immagine messianica del nipote del Barbarossa risaltò con un vigore incomparabilmente più grande. Roma diu titubans, variis erroribus acta, – corruet et mundi deficiet esse caput: questo oracolo dal tono apocalittico, attribuito a Federico II stesso, è emblematico dell’atmosfera che caratterizzò lo scontro dell’Imperatore con Gregorio IX, atmosfera che si saturò di aspettative circa la rovina dell’istituzione papale.

“Specialmente Federico II – osserva Gioacchino Volpe a questo proposito – era in grado di eccitare tali speranze, egli circondato da quei Saraceni che le voci del tempo facevano amici e aiutatori di Catari ed Albigesi; egli che si proclamò cooperatore di Dio, immagine visibile dell’Intelligenza celeste. Pier delle Vigne è suo Apostolo, nuovo Pietro e vero Vicario, cioè giusto Vicario, a differenza di quello di Roma. Sopra questa pietra, sarà edificata la ‘Chiesa imperiale'” (Movimenti religiosi e sette ereticali, Sansoni, Firenze 1971, p. 132).

Mohammed Y. Boudjada, Helmut Lammer, Enigmi di pietra. I misteri degli edifici medievali All’età dell’oro annunciata da Federico si connette il regno della pace e della giustizia, perché egli pone pax e iustitia a fondamento della propria idea imperiale, quasi a volere impersonare quegli attributi che al momento della sua nascita un misterioso maestro costruttore di cattedrali affiliato alla corporazione dei Magistri Comacini, Benedetto Antelami, raffigurava accanto al simbolo della fides (la fedeltà “feudale”), su quel medesimo Battistero di Parma che reca ancor oggi l’immagine eloquente del Veltro ghibellino.

E’ infatti con l’immagine di un veltro che termina lo zooforo antelamico, cioè la sequela di settantanove figure che circonda l’edificio e che ci presenta, tra i vari “animali fantastici”, anche quei tre in cui si imbatterà l’Alighieri: la lonza, il leone, la lupa. Dante, come è noto, si smarrisce nella “selva oscura” oltre un secolo dopo; ma sia gli animali che ostacolano il suo cammino sia il Veltro preannunciatogli da Virgilio sono già presenti sul Battistero parmigiano.

Del rapporto che intercorre tra l’opera dell’Antelami e la dottrina del Santo Impero ci siamo già occupati altrove (1). Qui vorremmo invece ricordare come negli ambienti ghibellini del territorio compreso tra Parma e Reggio l’antroponimo Veltro sia attestato fin dal 1246: lo portò (e lo trasmise a uno dei suoi figli) il libero signore del Castello e della terra di Vallisnera, condomino nelle Valli dei Cavalieri, quel Veltro da cui discendono i rami dei Vallisneri fino ai giorni nostri (2). D’altronde, la figura di un veltro compare nello stemma della famiglia, che viene descritto così: “D’oro alla fascia di rosso caricata dal veltro corrente d’argento, collarinato d’oro, accompagnata in capo da una stella rossa” (3).

Non è dunque il caso di insistere ulteriormente sul rapporto del Veltro con l’idea dell’Impero e col ghibellinismo. Se mai, ci si può interrogare circa le basi su cui tale rapporto si fonda.

Aroux, che identifica il Veltro con Can Grande della Scala, spiega che il nome Can “si prestava a una duplice allusione, nel senso di cane da caccia, veltro, nemico della lupa romana, e nel senso di Khan dei Tartari” (4). Scrive altrove questo medesimo autore:

“Questi Tartari, sempre secondo Yvon (di Narbona, n.d.r.), consideravano i loro monarchi come degli dèi, principes suorum tribuum deos vocantes (…) Secondo lui, questi stessi Tartari, ai quali all’epoca ci si interessava tanto, “avevano scelto come capo uno dei loro, che fu innalzato su uno scudo ricoperto con un pezzo di panno, su un povero FELTRO fu levato, e chiamato Kan (…) fu chiamato Cane, che in lor linguaggio significa imperadore. (…) Non bisogna dunque stupirsi troppo dei nomi bizzarri di Mastino e Cane, dati a quei Della Scala che dominavano sulla Lombardia e che i ghibellini riconoscevano come loro capi. Quello di Veltro non è che un sinonimo (…)” (5).

Marinus Gout, Il simbolismo nelle cattedrali medievali Riprendendo l’interpretazione di Aroux, Guénon aggiunge che, “in diverse lingue, la radice can o kan significa ‘potenza’, il che si collega ancora allo stesso ordine di idee” (6); inoltre Guénon fa notare (7) che al titolo turco-tataro di Khan equivale quello latino di Dux, applicato al Veltro dallo stesso Dante:

…un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia

con quel gigante che con lei delinque. (Purg. XXXIII, 43-45)

.

Trasformato in Cane e quindi in Veltro, il titolo di Khan venne dunque trasferito tanto sulla figura archetipica del monarca universale quanto su alcuni personaggi storici di parte ghibellina.

Come il Veltro dell’Antelami e di Dante, come Carlo Magno, come Federico Barbarossa, come Artù, come Alessandro “il Bicorne”, come tutti quei personaggi ai quali le diverse escatologie tradizionali riservano un ruolo decisivo verso la fine dei tempi, così anche Federico II ha legato il proprio nome alla reparatio temporum e alla renovatio imperii.

* * *

1. C. Mutti, Simbolismo e arte sacra. Il linguaggio segreto dell’Antelami, Parma 1978; Idem, L’Antelami e il mito dell’Impero, Parma 1986.

2. G. Vallisneri, I Vallisneri: da Veltro ai nostri giorni, Parma 1996.

3. M. De Meo, Le case longobarde dei Platoni e dei Vallisneri, “Malacoda” (Parma), 76, gennaio-febbraio 1998, p. 19.

4. E. Aroux, Clef de la Comédie anti-catholique de Dante Alighieri, Paris 1856; rist. Carmagnola 1981, p. 40.

5. E. Aroux, Dante. Hérétique, revolutionnaire et socialiste, Paris 1854; rist. Bologna 1976, pp. 119-120.

6. R. Guénon, L’esoterismo di Dante, Roma 1971, p. 62.

7. Ibidem.

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