Mozzare le mani ai naufraghi

Dal libro di Antonino Trizzino Sopra di noi l’Oceano (Milano, Longanesi & C., 1962, 1967, pp. 201-214):

«[Il grosso piroscafo inglese “Laconia”] ha imbarcato milleottocento italiani delle divisioni “Trieste”, “Sabratha”, “Brescia”, “Pavia”, “Trento” e “Ariete”, caduti prigionieri durante il mese di luglio [1942] negli accaniti combattimenti davanti a El Alamein.

Sono coperti, tutti, di onorati stracci: uniformi impolverate e strappate, uscite così dai campi di battaglia. Qualcuno, più fortunato ha con sé un fagottello, qualche proprietà personale salvata all’ultimo minuto.

Gli inglesi preferiscono lasciare ad altri l’incarico di carnefici e aguzzini. Scelgono, perciò, centosessanta soldati polacchi arruolati nell’Ottava Armata britannica per fare il mestiere di carcerieri: e quelli sbraitano, vociano, sospingono con le cane dei fucili i prigionieri italiani che, di ponte in ponte, una scala dopo l’altra, scompaiono nel ventre della nave.

Sono divisi in tre stive, chiusi dietro grate di ferro ben inchiavardate.

La sera del 12 agosto il “Laconia” salpa da Suez.

Durante la traversata del Mar Rosso, sotto il sole di agosto, il termometro segna quarantacinque gradi all’ombra in coperta. Nelle stive è molto peggio. I prigionieri grondano sudore, si sentono soffocare, urlano, protestano. Come sono emotivi questi latini, commentano in coperta. Però nessuno può dire se gli ottocentoundici passeggeri anglosassoni, che occupano cabine arieggiate di prima e seconda classe, conserverebbero la loro flemma una volta trasferiti nelle stive infuocate.

Una ciotola di brodaglia nella quale annega qualche raro grano di legumi, due di acqua sporca battezzata come tè, due fettine di pane: questa è la razione giornaliera per i sepolti vivi del “Laconia”, ai quali è concessa a malapena un’ora d’aria la mattina e una la sera. Ma non tutti i giorni e non a tutti.

Si sente attraverso le griglie odor di tabacco? Tutti quelli della stiva sono puniti: pane secco e acqua per tre giorni. Ai prigionieri non è permesso fumare. Aver aspirato qualche boccata, passandosi l’un l’altro qualche sigaretta gettata attraverso le griglie da mani pietose, è considerata infrazione così grave da meritare la severa punizione collettiva.

Primo scalo Aden. Poi Mombasa. Nell’emisfero australe la temperatura si è fatta rigida. Qualche prigioniero non si sente invogliato a farsi annaffiare al mattino dall’acqua gelida, sotto una tinozza bucherellata che serve da doccia. Vorrebbe essere esentato. Ma questi italiani hanno una vera fobia per l’acqua! Si commenta. Chi riposa tra lenzuola, dispone in cabina di acqua calda e fredda, si ristora con una buona colazione, non può certo capire che un disgraziato, ridotto pelle e ossa per la gran fame e dopo aver dormito giorni e giorni sulle lamiere, possa non avere ancor molta inclinazione per la toletta. Intervengono allora le iene polacche in uniforme, che a spintoni, con i calci dei fucili e un’innata malagrazia riducono alla ragione gl’italiani recalcitranti.

Finalmente il transatlantico inglese giunge nell’Oceano Atlantico e fa rotta in direzione nord per completare il periplo dell’Africa.

È trascorso un mese esatto, un mese ben duro per i prigionieri, ormai ridotti in condizioni pietose, quando la sera di sabato 12 settembre, alle otto, il “Laconia” è colpito da due siluri, al largo dell’isola di Ascensione. Dopo un’ora si inabissa.

Più tardi l’U-Boot 156, che ha fatto il colpo, si accosta alla massa di naufraghi, per catturare, com’è uso, il comandante e il direttore di macchina della nave affondata. Incuriosito dalle invocazioni di soccorso in una lingua che non gli è del tutto sconosciuta, il comandante del sommergibile, Hartenstein, fa tirare a bordo due naufraghi aggrappati a un relitto.. Sono entrambi italiani.

Poi altri italiani e altri ancora. ‘Affondato inglese “Laconia”. Disgraziatamente con milleottocento prigionieri italiani. Fino a questo momento ne ho ripescati novanta’, radiotelegrafa allora Hartenstein al comando supremo dei sommergibili inglesi a Parigi.

Tra Roma e Berlino in quel momento non fila tutto liscio come un tempo. La piega decisamente sfavorevole presa dalla guerra è causa di reciproche recriminazioni. La tragedia di un così gran numero di italiani, anche se provocata involontariamente da un sommergibile tedesco, potrebbe essere sfruttata per inasprire i rapporti tra i governi italiano e tedesco. Se non si dà prova almeno di sollecitudine nel cercar riparo al malfatto, il “Laconia” potrebbe diventare motivo di gravi complicazioni politiche. La mente pronta e acuta di Doenitz se ne rende conto la notte stessa, appena ricevuto il messaggio di Hartenstein, e subito l’ammiraglio tedesco si preoccupa di organizzare i soccorsi.

‘L’U.156 rimanga sul posto. Il “Cappellini” e due altri sommergibili tedeschi accorrano sul luogo del sinistro. Salvate quanti più italiani è possibile. I francesi hanno acconsentito a mandare da Dakar tre unità di superficie’: questi in sintesi i radiotelegrammi di Doenitz durante la notte e la mattina successiva.

In quel momento, mentre il “Barbarigo” incrocia davanti a Freetown in cerca del successo, che poi si chiamerà “Mississippi”, il “Cappellini” è più a est, quasi sull’equatore. Riceve l’ordine la mattina di domenica alle dieci e dieci. Più tardi riceve anche istruzioni sui segnali di riconoscimento da scambiare quando incontrerà tedeschi e francesi. La notte del 14 taglia l’equatore.

Continua verso sud per tutto il giorno 15, ma non scorge ancora nulla.

Finalmente la mattina del 16 avvista la prima imbarcazione. Inalbera una vela rossa, e dentro ci sono cinquanta inglesi. Al “Cappellini” che si è avvicinato, chiedono soltanto un po’ d’acqua, perché sono ben forniti di viveri, hanno una bussola e persino una radiolina trasmittente. Indicano dove potrebbero essere rintracciati altri naufraghi.

Dopo altre due ore circa, ecco una seconda imbarcazione. Qui madri disperate si sciolgono in lacrime, mostrano i bimbi che hanno in braccio, implorano pietà, temono di essere mitragliate, come hanno sentito dire dalla loro propaganda.

Il comandante del “Cappellini” rassicura le credule donne: siamo qui soltanto per aiutarvi. Fa distribuire viveri caldi, qualche bottiglia di vino, cioccolata, sigarette. Coperte in più non ne ha, diversamente le avrebbe fatte già passare sulla lancia. Vede bene da sé in che stato versano questi superstiti. E non può prenderli tutti a bordo: le donne e i bambini sì, se vogliono. Ma l’offerta non è gradita.

Di nuovo in ritta verso sud. Il punto segnalato da Bordeaux non dovrebbe essere ormai tanto lontano.

Infatti nel tardo pomeriggio dello stesso giorno 16 si avvistano altre quattro lance. Mano a mano che ci si avvicina, dal “Cappellini” si possono sentire sempre più distinte le invocazioni di soccorso: in milanese, in napoletano, in siciliano. Tutto intorno galleggiano cadaveri profondamente dilaniati dai denti degli squali. Altri hanno le mani staccate come con un colpo di ascia. Su un canotto un soldato italiano ride ebete, giocherellando con l’acqua come un bambino. Gli gettano una cima e lui la ributta via sghignazzando più forte: è impazzito.

Un milanese è tratto a bordo del “Cappellini” tra i primi. Ha i polpacci dilaniati: “Per fortuna era un pescecane piccolo”, si lamenta mentre è medicato e riconfortato. “Ne guizzavano tanti in mezzo a noi: addentavano un braccio, mangiavano a morsi una gamba. Altre bestiacce più grandi , orrende, trinciavano corpi interi. Che urla, e quanto sangue!”.

Gli infelici reduci dall’Africa settentrionale raccontano convulsi il loro martirio, imprecano, maledicono.

“Non ci hanno voluto far uscire nemmeno quando il piroscafo cominciava a sbandare. Quegli infami polacchi sparavano dentro le stive, infilzavano con le baionette i nostri compagni che si avvicinavano alle grate”.

“E voi, come avete fatto a salvarvi?”.

Il caporale Dino Monti narra che la stiva in ci si trovava sotto il fuoco dei polacchi era diventata una bolgia:

“Quelli che erano più vicini ala grata, appena i morti e i feriti stramazzavano a terra, ne prendevano subito il posto. La grata si torceva, si piegava sotto la loro pressione. E intanto ridevano come pazzi. Urlavano, gridavano, bestemmiavano. Io mi sono addossato alla parete, cercando di non vedere, di non sentire. Molti tentavano di uccidersi battendo la testa contro le pareti. Alla fine i nostri sforzi centuplicati dal terrore, dall’esasperazione, dalla follia collettiva ebbero ragione della grata. Calpestando i caduti ci lanciammo verso le scale. Nel buio completo urtavamo contro portelli chiusi, porte bloccate o così deformate dall’esplosione che era impossibile aprirle. Qualche scala cedette per il sovraccarico. Alcuni erano così affamati, che invece di pensare a salvarsi si aggiravano per la nave in cerca di cibo.

Fui letteralmente trasportato da questa massa sempre più folle. Ci precipitammo verso le scialuppe, ma fummo respinti a colpi di calcio di fucile. Allora mi tolsi le scarpe e mi tuffai”.

Quelli che erano nella stiva con il caporale Monti hanno avuto fortuna; nelle altre due stive le grate sono rimaste rigorosamente sbarrate, hanno resistito agli sforzi, e tutti gl’infelici prigionieri, oltre milleduecento, sono andati a fondo con la nave.

I superstiti sono terribilmente magri per il digiuno completo in cui sono stati tenuti per tanti giorni, e pieni di orrore per ciò che hanno patito e visto.

“Quanti eravate? Da Bordeaux ci hanno telegrafato che eravate millecinquecento”.

“Milleottocento tra ufficiali, sottufficiali e soldati!”, corregge un altro scampato. “Ci hanno contati a Suez, prima di farci salire sul “Laconia”, quindi non si può sbagliare. Ma nemmeno un terzo di noi si è salvato”.

“Ma come mai abbiamo visto galleggiare tanti corpi senza mani? Sembrerebbe che gliele avessero tagliate.”

“Ed proprio così. Quando si aggrappavano alle scialuppe quei maledetti gli recidevano i polsi perché non potessero più arrampicarsi. Urlavano come bestie sgozzate mentre scivolavano in acqua senza più mani. Vigliacchi, assassini, come hanno potuto far questo? L’acqua era rossa, tanto sangue scorreva”.

Un silenzio pieno di orrore, mentre i marinai del “Cappellini”, con gli occhi dilatati, fanno corona attorno ai superstiti. Poi un’altra domanda:

“Siete qui da sabato serra?”.

“No. Il sommergibile tedesco che ci silurò, dopo essersi caricato di naufraghi fin sopra la coperta, prese a rimorchio quattro lance in cui eravamo anche noi. Per quattro giorni i tedeschi ci aiutarono: distribuivano viveri e bevande calde a tutti. Non fu per colpa loro se questa mattina, poche ore prima che arrivaste, ci hanno abbandonati. Verso mezzogiorno abbiamo visto comparire un aereo diretto verso di noi. Dapprima abbiamo tirato un respiro di sollievo: credevamo che venisse in nostro aiuto. Il comandante del sommergibile ha anche fatto stendere sul cannone di prua un lenzuolo bianco con la croce rossa. Quando si è avvicinato abbiamo visto che era un quadrimotore americano, di quelli che chiamano “Liberator”.

“Be’, anche gl’inglesi hanno aerei di quel tipo”.

“Ma questo era propria americano: portava dipinta la stella. Ne abbiamo visto tanti in Africa. Mica ci possiamo sbagliare. E poi, quando era a non più di cento metri, abbiamo visto aprirsi i portelli delle bombe sotto la fusoliera. Ha fatto quattro giri sopra il sommergibile, e a ogni passaggio, sempre così basso, ha lanciato due bombe. La prima lancia è volata in aria con noi dentro come un fuscello. Anche il sommergibile è stato colpito. Subito i tedeschi hanno tagliato il cavo di rimorchio, poi hanno sbarcato quelli che avevano a bordo, comprese le donne e i bambini, e se ne sono andati. Non si può dar torto al comandante Hartenstein. Non aveva fatto sparare neanche un colpo contro l’aereo, mentre avrebbe potuto facilmente abbatterlo data l’altezza alla quale passava e ripassava sopra di noi. Aveva a bordo e cercava di portare in salvo parecchi cittadini inglesi. Non poteva mettere a repentaglio la sua nave e il suo equipaggio se gli americani la prendevano in quel modo. A tutto c’è un limite. Anche all’umanitarismo e alla buona volontà. E così siamo finiti in acqua un’altra volta”.

Il “Cappellini” ha ricoverato sottocoperta quarantanove italiani. È un ospedale senza medici, ma tutto l’ospedale si prodiga a ricoverare i feriti, a confortare e a rifocillare gli scampati. Ah, la delizia di una pastasciutta nostrana dopo tutte quelle brodaglie senza sostanza e senza sapore. Purtroppo alcuni non sopravvivono; i loro corpi, chiusi in sacchi, sono seppelliti in mare. Ammassati dietro la torretta ci sono inglesi e anche polacchi, quanti se ne sono potuti raccogliere.

Durante la notte, in attesa della nave francese che deve arrivare da Dakar, il sommergibile si lascia scarrocciare. Un gran numero di cadaveri si addensa attorno allo scafo. La mattina successiva, di tutti i salvati che erano in coperta non ne rimangono che diciannove, tremanti di freddo e e inzuppati d’acqua. Gli altri sono stati portati via dalle onde. Ma non c’era più posto all’interno per metterli al riparo.

Per tutta la giornata di venerdì le vedette scrutano l’orizzonte… L’unità francese non compare, soltanto relitti e cadaveri cullati dalle onde, a perdita d’occhio.

La notte, ecco una nave illuminata. Forse è l’unità francese in cerca del “Cappellini”. Ma non risponde ai segnali con il proiettore. Non è possibile raggiungerla.

L’incontro avverrà, invece, alle otto di domenica 20 settembre. La nave attesa è la cannoniera “Dumont d’Urville”, comandata dal capitano di corvetta Madelin.

Il trasbordo dura tre ore. Quarantadue italiani sono trasferiti sulla cannoniera, che si allontana. Il sommergibile fa rotta per Bordeaux.

Il giorno stesso gl’italiani passeranno su un’altra cannoniera francese, che il 27 settembre approderà a Dakar. Qui è già arrivato l’incrociatore “Gloire” con a bordo trecenosettantatré Italiani e alcune centinaia tra inglesi e polacchi, in parte raccolti direttamente, in parte prelevati dai due sommergibili tedeschi mandati in soccorso assieme al “Cappellini”, l’U.506 e l’U.507.

Al processo di Norimberga l’affondamento del “Laconia” sarà poi condensato in cifre. Morti: milletrecentocinquanta italiani su milleottocento, contro undici inglesi su ottocentoundici.

Il 27 settembre il “Cappellini” arriva a Bordeaux dove sbarca gli ultimi sette italiani, un tenente pilota neozelandese e un tenente della marina britannica. Ma l’equipaggio ha imparato, ormai, che la guerra sfoggia la grinta dei carcerieri polacchi, ha adottato lo spirito del pilota americano che bersaglia i naufraghi.

Lo sguardo limpido e la cavalleresca generosità che tanto avevano impressionato il comandante Caudron, appartenevano a gente e a un’epoca destinati a scomparire».

Questa volta abbiamo scelto di presentare un brano non di un’opera letteraria in senso stretto, ma di un libro che rievoca una pagina poco conosciuta della seconda guerra sul mare: l’epopea dei sommergibilisti italiani nell’Oceano Atlantico, con base a Bordeaux.

E lo abbiano deciso perché questo brano mostra come a volte la realtà sia più avventurosa di un romanzo e più drammatica di una tragedia teatrale. Anzi, bisogna dire che la descrizione dell’inferno scatenatosi nelle stive del «Laconia», allorché la nave viene silurata e i carcerieri polacchi negano ai prigionieri italiani la possibilità di accadere ala coperta, presenta delle scene che fanno impallidire i versi dell’Inferno dantesco.

Eppure, si tratta di eventi realmente accaduti: è tutto vero, purtroppo, anche se si stenta a credere che la bestialità umana e il feroce istinto di conservazione possano arrivare a simili livelli. Quei prigionieri che si precipitano con la testa contro le pareti, per sottrarsi al terrore dell’annegamento con la certezza di una morte immediata; quelle grate prese d’assalto da una folla impazzita dalla paura, e attraverso le quali gli aguzzini sparano nel mucchio e sferrano colpi di baionetta; quei milletrecento prigionieri che periscono nell’affondamento della nave, annegando nella loro inesorabile prigione di metallo, senza nemmeno aver potuto vedere un pezzetto di cielo; e quei naufraghi attaccati e mangiati vivi dagli squali, che cercano di afferrarsi alle zattere, ma che vengono respinti a colpi di scure che troncano loro le mani: sono scene così potenti e così orrende che a stento ci si capacita siano realmente accadute e non appartengano alla fantasia un po’ troppo cupamente sbrigliata di qualche romanziere di avventure.

In genere si ricorda l’eroismo dei soldati polacchi in Italia, le loro gesta nella battaglia di Cassino e altrove, e li si ringrazia per il contributo offerto alla «liberazione» del nostro Paese; e la simpatia nei loro confronti aumenta, se si pensa al donchisciottesco episodio dell’insurrezione di Varsavia. Ebbene la pagina di Trizzino ci ricorda che la guerra è il catalizzatore dei peggiori istinti umani e che in una guerra, come quella che incendiò il mondo intero fra il 1939 e il 1945, non vi furono, né potevano esservi, i «buoni» da una parte e i «cattivi» dall’altra, ma che furono tutti, tutti indistintamente, «cattivi», compresi i Polacchi.

E che dire di quel pilota d’aereo (si faccia caso al nome del velivolo: «Liberator»!) che, pur vedendo i naufraghi sparse sulle onde e il lenzuolo bianco con la croce rossa, non si fa scrupolo di approfittare della situazione critica in cui si trova il sommergibile tedesco del comandante Hartenstein per attaccarlo ripetutamente con le bombe e cercare di affondarlo?

Ma non è il caso di soffermarsi sulla nazionalità di simili belve umane: perché la guerra è una fabbrica di mostri, e libera gli istinti sadici assopiti anche nel fondo degli uomini più mansueti; e quanti parlano di «guerre giuste» o, addirittura – come è venuto in uso negli ultimi anni – di «guerre umanitarie», non sanno letteralmente quello che dicono.

Rimane una pagina di letteratura che è, anche, una pagina di storia vera, potentemente realistica e tuttavia non priva di qualche nota gentile, come la profonda umanità dimostrata dai marinai del “Cappellini”, la loro intensa commozione nell’ascoltare il racconto dei naufraghi, il loro prodigarsi per cercare di soccorrerli e confortarli.

Ma, come nota tristemente l’Autore alla fine del racconto (l’undicesimo capitolo de libro), la cavalleria dei primi tempi della guerra marittima era ormai tramontata per sempre: tempi bui e feroci si annunciavano, e il limpido sguardo dei marinai si era irrimediabilmente offuscato davanti allo spettacolo di tanta malvagità.

Antonino Trizzino, nato a Bivona (Agrigento) nel 1899, è stato pilota fino al 1938; poi, durante il secondo conflitto mondiale, è stato giornalista e critico militare su diversi giornali, fra i quali «Il Tevere» e «Il Tempo».

Nel dopoguerra ha pubblicato una serie di libri-inchiesta, dedicati particolarmente alle vicende della marina italiana nel periodo bellico: oltre a Sopra di noi l’Oceano, ha scritto: Navi e poltrone, dedicato ai supposti tradimenti negli alti comandi di Supermarina, come era denominato il ministero della Marina da guerra; Settembre nero, dedicato alla tragedia finale della nostra flotta, allorché ricevette l’ordine amaro di consegnarsi agli Alleati nella base inglese di Malta, in seguito all’armistizio dell’8 settembre; Gli amici dei nemici, dedicato alla ricostruzione della battaglia terrestre in Marmarica, nel 1941, corredato da circostanziate accuse alla condotta del generale Gambara, che avrebbe provocato l’inspiegabile ritirata di Rommel, avvenuta dopo una serie di continue vittorie sugli Inglesi.

Il libro che fece maggiormente scalpore fu Navi e poltrone, per le pesanti accuse rivolte ad alcuni ammiragli, e particolarmente al capo del S.I.S., l’Ufficio informazioni della Marina, Maugeri: il quale ebbe un’alta decorazione dal presidente americano Roosevelt a guerra ancora in corso, per i servizi resi alla causa alleata.

Trizzino si chiese se questi «servizi» fossero stati resi solo dopo l’8 settembre del 1943, o anche assai prima; e fece notare tutta una serie di strane coincidenze, per cui la flotta britannica sembrava sempre a conoscenza dei movimenti di quella italiana ed era in grado di agire, apparentemente a colpo sicuro, in circostanze sempre favorevoli, come se fosse stata preavvertita. La tesi di Trizzino diede luogo anche ad un processo per vilipendio delle Forze Armate, che si concluse – però – con la sua assoluzione.

Studi successivi, che hanno messo in risalto il ruolo svolto dalla macchina «Ultra» dei servizi segreti britannici nella decifrazione del codice «Enigma» – di cui si servivano i Tedeschi, credendolo perfettamente sicuro -, hanno gettato nuova luce sulle vicende della guerra nel Mediterraneo, senza tuttavia far cadere la tesi centrale di Trizzino: che, cioè, molti ammiragli italiani, amici degli Inglesi o addirittura sposati con donne inglesi, nonché legati alla Massoneria di rito inglese, abbiamo deliberatamente complottato per sabotare criminosamente lo sforzo bellico dei comandanti in mare e degli equipaggi, mandandoli sovente incontro alla morte.

Colpisce, in particolare, quanto scritto dall’ammiraglio Maugeri in un suo libro di memorie, pubblicato (significativamente) in lingua inglese, a New York, nel 1948, From the Ashes of Disgrace, ove tra l’altro afferma:

«L’inverno del 1942-43 trovò molti di noi, che speravano in un’Italia libera, di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo mai potuti liberare dalle nostre catene, se l’Asse fosse stato vittorioso. […] Più uno amava il proprio Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta nel campo di battaglia… Finire la guerra, non importa come, a qualsiasi costo.»

Più chiaro di così… Sarebbe veramente ingenuo, davanti a tanta franchezza (o davanti a tanta sfrontatezza?) immaginare che l’ammiraglio Franco Maugeri si sia limitato a «pregare» e che non abbia pensato di dare un piccolo aiuto all’opera della Provvidenza.

Del resto, non è la condotta del solo Maugeri a dare adito ai più sgradevoli sospetti: Trizzino, in Navi e poltrone, fra le altre cose, fa notare la stranezza della resa di Pantelleria e di Augusta, due fortezze che, teoricamente, avrebbero dovuto resistere a lungo all’offensiva anglo-americana, mentre, di fatto, cedettero di schianto (specialmente la seconda).

A Pantelleria, l’ammiraglio Pavesi offrì la resa senza che le formidabili opere difensiva in caverna, predisposte dal celebre architetto Pier Luigi Nervi, fossero state minimamente scalfite; e, prima di consegnare le armi, non provvide neppure a far saltare i depositi di munizioni e di provviste. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, intitolato La caduta di Pantelleria nel 1943 apre le porte all’invasione dell’Italia (consultabile sul sito di Arianna Editrice), per cui non insisteremo ulteriormente su quelle deplorevoli vicende, che tanto discredito hanno portato al buon nome della Marina e dell’Italia tutta, oltre ad aver affrettato e agevolato l’invasione alleata.

Perché la cosa peggiore che può accadere a una nazione non è quella di subire una sconfitta, ma di subirla senza dignità e senza onore.

Del resto, fra gli equipaggi delle navi italiane era il segreto di Pulcinella che quei comandanti dei trasporti diretti in Libia i quali, disubbidendo alle puntigliose disposizioni di Supermarina – un organismo tanto pletorico quanto accentratore -, seguivano una rotta improvvisata, diversa da quella loro assegnata, giungevano a destinazione e tornavano indietro sani e salvi; mentre quelli che eseguivano i movimenti prescritti, cadevano sistematicamente nella trappola degli aerei e dei sommergibili britannici. Una serie di semplici coincidenze anche quelle?

Quanto al libro Sopra di noi l’Oceano, Trizzino, con la sua puntuale ricostruzione della vicenda relativa al sommergibile «Barbarigo», ha avuto il merito di far riaprire il «caso» del comandante Grossi, il quale era stato privato della medaglia d’oro e dei gradi dalla sentenza di una corte d’inchiesta – formata in gran parte dagli ammiragli che tanto male avevano condotto la guerra navale – perché ritenuto millantatore di inesistenti successi contro navi nemiche in Atlantico. Se non altro, il libro di Trizzino è riuscito a rendere l’onore morale allo sfortunato comandante Grossi: la cui vera colpa, probabilmente, fu quella di aver aderito, dopo l’8 settembre, alla Repubblica Sociale Italiana, mentre gli ammiragli di Supermarina si erano affrettati a schierarsi col Regno del Sud e con gli Alleati, con i quali erano sempre stati in rapporti fin troppo amichevoli.

Ce ne vorrebbero altri, di saggisti come Trizzino e come Franco Bandini, oggi come allora: uomini animati da un sincero, antiretorico amor di Patria; e, più ancora, da uno scomodo, meraviglioso, indefettibile amore della verità.

Ma come è possibile far luce sulla palude degli eventuali tradimenti di Supermarina, se l’armistizio dell’8 settembre ed il successivo trattato di pace stabilivano testualmente (all’articolo 16) che «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà alcun cittadino italiano, specialmente gli appartenenti alle Forze Armate, per avere tra il 10 giugno 1940 e la data del presente trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate o aver condotto un’azione a favore di detta causa»?

Come si vede, l’Italia dei misteri (e della sovranità limitata) non incomincia – come tanti credono – nel dicembre del 1969, con la strage di Piazza Fontana, per proseguire poi con Piazza della Loggia a Brescia, con l’abbattimento aereo nei cieli di Ustica (ancori i generali e gli ammiragli!) o la bomba alla stazione di Bologna. E non comincia neppure con il caso Mattei e con la (ir)resistibile ascesa di personaggi come Gelli, Sindona e Calvi (ancora e sempre la Massoneria); ma incomincia molto prima.

Incomincia, per lo meno, durante le strane vicende della seconda guerra mondiale, allorché generali e ammiragli massoni, amicissimi degli Inglesi e degli Americani, ordinano strane ritirate o mandano allo sbaraglio le proprie navi, in bocca ai radar nemici, per poi ricevere alte decorazioni dai capi di Stato dei Paesi ex nemici.

Il tutto mentre i loro comandanti in subordine e i loro soldati e marinai, al contrario, si battono fino al limite delle possibilità umane e affrontano la morte, nella ferma determinazione di compiere interamente il proprio dovere.

* * *

Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

3 Responses

  1. sergio
    | Rispondi

    una grandissima pagina di storia, che un volta di piu' dimostra la codardia e la vigliaccheria della Regia Massonica Marina

    • francesco
      | Rispondi

      pensi di avere uno zio fatto prigioniero e che stava su quella nave ……._

  2. sinwan85
    | Rispondi

    L' AMMIRAGLIO TRIZZINO : UN GALANTUOMO !!!!!

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