Modo e ragione del rinnovamento operato dal Guinizelli

«Non vedi tu che (Dante) dice qui chiaro

che, quando l’amore dello Spirito Sancto lo

prira dentro al suo intellecto, che nota l’ispirazione

e poi la significa secondo che esso

Spirito gli dicta e dimostra?»

Petrarca

Nella poesia siciliana e in quella di Buonagiunta da Lucca non ritroviamo ancora quell’elevata spiritualità e quel dottrinarismo profondo che vedremo pervadere la poesia del dolce stil novo. In essa, se al posto della parola «Rosa» si deve mettere un’altra parola, meglio che la parola «Sapienza» bisogna mettere per lo più la parola «setta». La corte di Federico II carteggia con la setta (la Rosa) sotto le parole d’amore. Ma quella poesia non teoretizza, non cerca di determinare nella sua essenza mistica questa forza Amore-Sapienza che essa contrappone semplicemente (e soltanto quando le fa comodo) alla Chiesa di Roma. È un interesse politico più che un vero interesse religioso, quello che spinge l’Imperatore a dire alla «Rosa» che egli è fatto suo servitore e la «Rosa» gli risponde bellamente in rima per bocca di Arrigo Baldonasco che non gli crede affatto.

La poesia siciliana adoperò il gergo d’amore quasi unicamente per quelle poche parole che servivano alla vita settaria, non espresse la vera commozione mistica né la profonda speculazione intellettuale sull’«Intelligenza attiva». Essa è la manifestazione più semplice e pratica di tutta la simbologia segreta di questa tradizione. E una manifestazione di poco meno rozza della stessa tradizione si ritrova come ho già detto in Buonagiunta da Lucca, che parla sempre d’amore senza mai dir nulla di preciso, di profondo, di sentito, senza dare mai un nome alla donna che non sia quello di «Rosa». In lui anzi le formule del gergo diventano noiosamente e pericolosamente stereotipate. Dico pericolosamente perché il monotono abuso di queste formule rischiava naturalmente di renderle ormai troppo comprensibili. Ecco un esempio di quello a cui si era ridotta nella meccanicizzazione del gergo questa poesia. Si doveva celebrare al solito il «Fiore», la verità custodita dalla setta, quella che conserva ancora il bene nel mondo, quella della quale il poeta è fedele, quella dalla quale si attende il buon frutto della liberazione spirituale. Ecco la maniera grossolana e trasparente con la quale si esprime Buonagiunta da Lucca:

Tutto lo mondo si mantien per fiore: se fior non fosse, frutto non serìa [1]: per lo fiore si mantene amore, gioia e allegrezza, ch’è gran signoria. E della fior son fatto servidore, sì di bon core, che più non poria, in fiore ho messo tutto il meo valore; se il fiore mi fallisse, bem morria. Eo son fiorito, e vado più fiorendo: in fiore ho posto tutto il mio diporto: per fiore aggio la vita certamente. Com’ più fiorisco, più in fior mi ‘ntendo; se fior mi falla, ben seria morto: vostra mercé, Madonna, fiore aulente [2].

È questa una poesia d’amore? Lo creda chi vuole. Io non ci credo. Quella povera Madonna è appiccicata in fondo a prendere la qualifica di «fiore aulente», ma come non vedere che essa non c’entra per nulla e che essa non è una donna vera, se è quel «fiore» per il quale tutto il mondo si mantene, quel «fiore» che deve dare un certo frutto che non si nomina? Leggendo questa poesia si comprende come i «Fedeli d’Amore» sentissero il bisogno di cambiare questo «vecchio stile» e di creare uno «stile novo». E sommamente importante è il fatto che un tale cambiamento avvenne non per un lento sopravvenire di una moda, ma in certo modo di autorità, autorità di Guido Guinizelli il quale a un certo punto «mutò le maniere de li piacenti detti de l’amore» e sapete con quali argomenti sostenne la sua riforma e la necessità di questa riforma contro Buonagiunta da Lucca? Con argomenti che non hanno assolutamente nulla a che vedere né con l’arte né con l’amore, bensì col fatto che «ciò ch’uom pensa non de’ dire».

È Falsosembiante che ha fatto scuola e nulla è più istruttivo per intender che cosa fosse nella sua vera sostanza il dolce stil novo che seguire con una certa avvedutezza la polemica alla quale esso dette origine nel suo sorgere e la definizione sottilissima e significantissima che ne dette Dante dopo che esso fu fiorito. La poesia siciliana e la poesia di Buonagiunta erano, sì, pervase dall’intenzione di celebrare la setta dei «Fedeli d’Amore», la «Rosa» che la simboleggiava e con essa l’aspettazione del trionfo di questa «Rosa» o «Fiore», ma non avevano profondità di dottrina religiosa o filosofica e si erano stilizzate e meccanicizzate nelle formule, come abbiamo visto nel citato sonetto di Buonagiunta da Lucca.

Queste formule oltre a riuscire fredde e inefficaci rischiavano ormai di essere troppo trasparenti e Guido Guinizelli riformò sotto un doppio aspetto la poesia d’amore e cioè nella dottrina e nel gergo. Quanto alla dottrina egli riportò più direttamente e più vivamente la poesia a celebrare non solo la setta, la «Rosa» in forma vaga, ma a celebrare più direttamente e con sentimento più profondo la divina Intelligenza, la santa Sapienza, oggetto del culto della setta. Egli richiamò nella tradizione una forte corrente di profondo senso filosofico e religioso. Non solo, ma, mentre l’amore precedente, dirigendosi a una donna che non aveva nessun carattere preciso, usava a volte per esprimere l’idea mistica e settaria anche immagini volgari o sensuali che contrastavano con la sublimità, la purezza e l’altezza del vero oggetto amato, egli creò per simboleggiare la Sapienza santa, una figura di donna angelicata piena di virtù celesti, amata in puro spirito, con sembiante di angelo, la quale, pur avendo avanti al volgo e all’Inquisizione apparenza e nome di donna, mirabilmente si prestava a raffigurare nella poesia la santa Sapienza amata. Così la purezza, la bellezza, la perfezione della santa idea plasmò la purissima, bellissima, perfettissima donna celebrata nel dolce stil novo. Non fu una sola donna reale, bella e pura, Beatrice, che fece venire in mente a un poeta di simboleggiare in essa la santa Sapienza, fu la santa Sapienza amata e vagheggiata da secoli nell’antichità come perfezione divina, che per vestirsi degnamente e artisticamente informò di sé tutte queste vaghe e inafferrabili figure di donna.

E l’altra riforma di Guido Guinizelli consisté in questo, che invece di trattenere la poesia intorno a quella formula ormai vieta e a quel nome ormai abusato di «Rosa», «Fiore» dette genialmente a questa Sapienza santa il nome di una donna credibilmente viva e vera, diversa per ciascun amatore. L’Intelligenza attiva unica in sé e amata contemporaneamente da tutti i «Fedeli d’Amore» prese per ciascuno un nome diverso di donna. Lucia fu quello della sua donna: nome dell’Intelligenza attiva o Sapienza santa in quanto risplende all’adepto Guido Guinizelli, avviva il suo intelletto passivo e gli dà la vera vita. E gli altri seguirono. Giovanna è il nome della Sapienza santa in quanto risplende all’adepto Guido Cavalcanti, Beatrice il nome della Sapienza santa in quanto risplende all’adepto Dante Alighieri e così di seguito. E nuove parole furono aggiunte via via al vecchio gergo e la raffigurazione più adatta che si era creata nell’immagine della donna gentilissima suscitava similitudini più vive, si prestava a rappresentazioni nuove, più calde, più intime, scaldate dal fuoco d’un rinnovato fervore, illuminate dalla luce di un nuovo e più profondo senso d’arte, vestite soprattutto da forme assai più melodiose. Così «il vecchio stile» aspro e duro diventava il dolce stil novo, il quale aderiva meglio al suo oggetto vero, l’«amor sapientiae», e le penne dei nuovi scrittori, secondo l’espressione di Dante, andavano strette dietro a questo Amore, a questa dottrina che dettava dentro.

Questi nuovi poeti scrivevano rendendo direttamente e più intimamente i pensieri della vita mistica e iniziatica, cioè di Amore. Quando il Guinizelli iniziò la sua riforma, Buonagiunta da Lucca gli scrisse questo sonetto:

Poi che avete mutata manera de li plagenti detti dell’amore de la forma e de l’esser la dov’era per avanzare ogni altro trovadore, avete fatto come la lumera ch’ha li scuri partiti da splendore ma non quivi ove lucie la spera perché passa et avanza di chiarore. Ma sì passate ogn’om di sottiglianza che non si trova già chi ben vi spogna cotant’è scura (vostra) parladura ed è tenuta a gran dissimiglianza tutto che il senno venga da Bologna trarre canzon per forza di scrittura [3].

«Questo mando ser Bonagiunta Orbicciani da Luccha a messer Guido Guinizelli. Et elli li rispuose per lo sonetto ke dicie homo ke saggio non corre leggero [4]».

Evidentemente il nuovo stile di Guinizelli era soprattutto oscuro e involuto, tanto che quelli dello «stile vecchio» dichiaravano che non riuscivano a intendere. La risposta inequivocabile di Guido Guinizelli è semplicemente questa: Bisogna parlare involuto per ragioni di prudenza. Nel difendere la sua riforma egli non accampa nessuna ragione d’arte o d’amore, nessuna ragione galante o estetica, ma dice soltanto questa stranissima cosa (stranissima per chi voglia credere ancora che il dolce stil novo è espressione di vero amore e per di più immediata e spontanea): Non bisogna parlare troppo apertamente, perché se alcuni degli uccelli (degli adepti) possono avere ardire, ve ne sono altri che per la loro natura (debole) non possono osare molto e quindi l’uomo non deve dire che cosa pensa (per non compromettere i più deboli).

Homo ch’è saggio non corre leggero ma pensa e guarda sì com’ vol misura poi ch’ha pensato riten suo pensero, infin a tanto che il ver l’assecura. Hom non si dee tener troppo altero ma dee guardar su stato e sua natura foll’è chi crede sol veder lo vero e non crede ch’altri vi ponga cura [5]. Volano per aire augelli di strane guise né tutti d’un volar né d’un ardire et hanno in sé diversi operamenti. Dio in ciascun grado natura mise e fe’ dispari senni e intendimenti e però ciò che om pensa non de dire [6].

Bel modo invero di fondare il dolce stil novo se esso fosse, secondo l’interpretazione comune, espressione più diretta e più immediata del sentimento d’amore! Altro che espressione diretta e immediata! Si tratta precisamente di non dire quel che l’uomo pensa, di complicare la propria espressione perché c’è chi sta vigilando su quello che si dice e non tutti gli uccelli hanno lo stesso ardire e bisogna aver riguardo ai più deboli tra gli adepti che non possono esporsi a dire in modo troppo trasparente la verità!

Basterebbe questo sonetto, letto senza badare alle superstizioni della critica moderna, per far sentire che questa gente, lungi dall’esprimere «come detta dentro» una passione amorosa, cerca la maniera di sfuggire con la sua verità amata in mezzo a un mondo di sospetti e di nemici con un segreto nel cuore che si nasconde con tragica trepidazione, perché non tutti gli «uccelli» avrebbero il coraggio di sostenerlo apertamente.

Note

[1] Una donna?

[2] Valeriani, Op. cit., I, p. 519.

[3] R. A., Codice Vaticano 3214, n. 124.

[4] R. A., Codice Vaticano 3214, n. 124.

[5] Che l’Inquisizione non vigili.

[6] R. A., Codice Vaticano 3214, n. 69.

Questo brano costituisce la prima parte del capitolo 6 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».

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Luigi Valli (1879 – 1930) è stato un critico letterario, docente universitario italiano. Prima discepolo poi amico fraterno di Giovanni Pascoli, si distingue come filosofo e poeta e studioso di Dante Alighieri. A lui sono dedicate tre scuole: una a Narni, un liceo a Barcellona Pozzo di Gotto e una scuola primaria a Bergamo, facente parte dell'Istituto Comprensivo Edmondo De Amicis. Tra le sue opere: * Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d’Amore", Roma 1928 * La chiave della divina commedia, Zanichelli, Bologna, 1925 * Il segreto della Croce e dell’Aquila, nella Divina Commedia Bologna, 1922. * L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922

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