Michelstaedter, in quel suicidio la metafora del Novecento

Carlo Michelstaedter
Carlo Michelstaedter. Autoritratto.

Prima che un grande filosofo del Novecento, Carlo Michelstaedter è stato un vero paradosso culturale. Goriziano di famiglia tedesca e di religione ebraica, nato nel 1887, Michelstaedter è un autore pienamente novecentesco, e infatti del secolo “breve” reca su di se le stigmate della sua tragica pesantezza, ma in realtà di questo Novecento, secolo delle grandi ubriacature ideologiche, il nostro non riuscì che a bere brevissimi sorsi, interrompendo la propria vita ben prima dello scoppio di una Grande Guerra che come ha scritto Massimo Salvadori su Repubblica «avvelenò l’inizio del Novecento». Un lustro divide infatti il suo suicidio dal primo sangue versato dai soldati italiani, proprio nei pressi della terra d’origine.

Adesso in un libro appena uscito per i tipi del “Settimo Sigillo” (Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter, pp. 264, euro 26), Giovanni Sessa già studioso del Novecento filosofico di Evola, Colli, Heidegger e Rosenzweig, ne ripercorre vita e cammino intellettuale e all’uopo misura lo stile del filosofo a quello del filologo realizzando un’opera di sicuro interesse scientifico. Nella sua breve esistenza Carlo riuscì solo ad avvertire i primi rumori delle avanguardie, un ponte che volle congiungere Ottocento e Novecento e dal quale preferì, nella prospettiva di una lotta impari col mondo delle verità opinabili, lanciarsi nel vuoto, lasciando il ricordo di una vita trascorsa alla ricerca della più pura autenticità. Anche per questo possiamo dire che Michelstaedter fu malgrado tutto e a suo modo un anticipatore di idealità, passioni e climi culturali.

Ma forse è anche giusto dire che Michelstaedter prendendo a prestito il giudizio dato da Quirino Principe nei confronti di Ernst Jünger ha rappresentato una «categoria umana a sé, come per tutti gli uomini sarebbe doveroso » (potrebbe essere perfino questa la prima chiave di lettura per comprendere il suo percorso esistenziale).

Di lui si può dire inoltre che fu il “filosofo della persuasione”, per dirla in modo semplice: il pensatore del riscatto dalle illusioni, la cui inattualità, evidenziata a più riprese da Sessa, può essere legata a una valenza politica dai sapori fortemente alternativi. Non dimentichiamo infatti che la filosofia politica è capace di indagare i significati della conoscenza, il pensiero dell’uomo che sa di esistere ed il pensiero che concretamente interagisce con l’oggetto. E certamente non difetta di tensione etica. Michelstadter per dirla in modo ancora più chiaro è un pensatore che con evidente riferimento ai massimi filosofi greci oppone una via filosofica fatta di verità ad una eminentemente falsa costituita dalla cosiddetta “rettorica”. Senza distaccarsi da un costrutto fedele ora all’opera michelstaedteriana ora alla critica (la cui storia è assai cara all’autore), Sessa prende in considerazione due punti di vista assai precisi e da essi va sviluppando alcune apprezzabili analisi: il giovane-Michelstaedter come paradigma di una generazione votata al rinnovamento culturale e il filosofo-Michelstaedter come pensatore della libertà il cui impegno è pura conquista interiore da tradurre nell’atto concreto. Votato alla riscoperta dei classici greci punto di partenza della filosofia del goriziano (il cui traguardo, non dimentichiamolo è la fronesis o saggezza “pratica”), sarà infatti in primo luogo il più classico dei “conosci te stesso”.

Lo studio di Sessa ci restituisce un Michelstaedter dalla personalità assai complessa, duplice o molteplice. Malinconico, intento a ragionare di morte, portato all’introspezione e parecchio emotivo, da certe ottiche appare quasi un preespressionista – una delle nuove arti del Novecento come ci ricorda Ladislao Mittner – ma anche votato alla più comune esteriorità; a volte livido e passionale a volte glaciale, quasi teutonico. All’istinto nel far prevalere ora l’interno del proprio animo ora l’esterno della natura si può legare – ovviamente solo in parte – il diverso stile col quale Carlo era solito comunicare – via lettera – col padre o con la diletta sorella Paula. Con estremo riguardo nel primo caso (col padre, la cui educazione egli subì con afflizione, non ebbe in genere un buon rapporto), e con agevole profondità ma anche con prosa dannunziana nel secondo.

La biografia di Michelstaedter sta tutta in una manciata d’anni, avvenimenti e opere (la più nota e citata è senza dubbio La persuasione e la rettorica pubblicata postuma già nel ’13); al 17 ottobre del 1910 giorno della morte (si sparò alla testa) i suoi lavori erano del tutto inediti. Sensibilissimo, innamorato dell’arte, di Schopenhauer, di Beethoven e Ibsen, non scevro peraltro da invaghimenti misteriosofici – molto comuni in quell’inizio di secolo almeno quanto certo socialismo nell’800 – il vero profilo del “filosofo ragazzino” comincia nel 1905 (ad appena 5 anni dalla morte…), quando se ne va a studiare a Firenze, prediligendo la capitale dell’italica bellezza alla Vienna austera e imperiale; da quel momento comincia il suo lungo epistolario – praticamente una vera e propria opera – grazie al quale, scrive Sessa, si può «compiere un’analisi approfondita del suo carattere, delle sue emozioni, dei suoi pensieri più personali». Forma e sostanza, solitarie emozioni o comuni avventure coi compagni fiorentini, la cifra caratteriale di Michelstaedter, sul cui sfondo resta intuibile il dolore per gli addii e i lutti subiti (l’amica Nadia e il fratello Gino), è tanto ricca quanto complessa. A ciò si aggiunga, per complicare il quadro psicologico, che Carlo era tutt’altro che un omino “decadente” malaticcio e/o complessato (un’immagine alla Zeno Cosini di Svevo, per intenderci), ma era invece un giovane sportivo dotato di una grande energia spesso non governata.

Quest’eccesso di “potenza” mal gestita e il cortocircuito fra volontà e possibilità di ricondursi al suo ideale delle origini, sarà una croce che porterà sulle spalle fino alla fine dei suoi giorni. Carlo fu anche un poeta assai dotato. E diremmo che così non poteva non essere. Della poesia di Michelstaedter Sessa ci parla in un apposito capitolo del libro (il terzo). Difficile operare una separazione “ideologica” fra la sua opera filosofica più nota e il resto delle opere peraltro complessivamente riscoperte almeno a partire dagli anni Ottanta. Ciò peraltro accade ed è accaduto per i grandi personaggi come Julius Evola ad esempio, che può considererai un epigono del filosofo goriziano. L’“eco” della filosofia della persuasione, per dirla con le parole di Sessa si è infatti estesa anche alle filosofie di Arangio Ruiz, Evola, Gaetano Chiavacci, Aldo Capitini e Cesare Luporini. Ad essi lo stesso Sessa dedica l’ultimo capitolo del suo libro.

Scortato dalla sua triste esuberanza Michelstaedter si misurerà pure con l’arte della pittura. Oltre al più famoso autoritratto su fondo fiamma (peraltro copertina dello stesso libro di Sessa), notevole il dipinto – certamente l’ultimo – nel quale appare un paesaggio collinare sotto un cielo di nubi dal quale filtra un raggio di sole. Simboli su simboli. Il dipinto doveva essere un regalo per il compleanno della madre. Pochi giorni dopo, però consumatasi l’ennesima tensione famigliare, un colpo di pistola alla tempia avrebbe posto fine alla vita del filosofo ragazzino. Era appena l’autunno del 1910 e il Piave non mormorava ancora. Al più bisbigliava consigli agli innamorati o facili poesie d’amore.

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Tratto dal Secolo d’Italia di mercoledì 3 dicembre 2008.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

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