Ma che cosa vi aspettavate?

donnetteOtto marzo 2012. Nella giornata di questa festività artefatta di cui più che le donne sembrano beneficiare i fiorai che vendono mimose e le pasticcerie che non hanno ancora esaurito le scorte di cioccolatini accumulate in previsione di quell’altra festività consumistica che è San Valentino, siamo stati tempestati come non mai da appelli contro la “violenza sulle donne”. Ci si è messo anche il capo dello stato, Giorgio Napolitano, questo vecchio “ex” comunista che sembra aver aggiunto ai poteri attribuitigli dalla costituzione quello di grande (e retorico) proclamatore di luoghi comuni.

Tuttavia, di una cosa possiamo essere sicuri: che tutto ciò lascerà esattamente il tempo che trova, e non si può affrontare un’emergenza sociale gravissima armati solo di retorica moraleggiante, perché la comprensione reale del fenomeno metterebbe gravemente in crisi il nostro attuale modello culturale democratico-retorico-femminista.

Occupandomi professionalmente di psicologia da molti anni, credo di avere titolo per tentare di basare il discorso su elementi più concreti. Cominciamo allora a mettere qualche punto fermo. La violenza oggi è di certo molto più visibile che in passato: episodi che un tempo sarebbero rimasti racchiusi all’interno delle mura domestiche, balzano oggi agli onori della cronaca, quelli che un tempo sarebbero stati episodi di cronaca locale, oggi divengono casi di rilievo mediatico nazionale, ma, oltre a ciò, io credo che vi sia effettivamente un incremento oggettivo della violenza nella nostra società, per una serie di motivi che vedremo un po’ alla volta.

In secondo luogo, io oserei esprimere l’eretica opinione che la “violenza contro le donne” non è un fenomeno che esiste di per sé, ma fa parte del generale imbarbarimento dei rapporti umani, di una crescita della violenza che non riguarda soltanto i rapporti del sesso maschile con quello femminile.

La violenza che arriva all’omicidio nei rapporti coniugali e in genere uomo-donna, noi sappiamo che rappresenta comunque una casistica minoritaria, nella stragrande maggioranza dei casi non si arriva a situazioni così estreme, ma minoritaria non significa isolata; è esattamente quello che accade per ogni altra forma di violenza, ad esempio politica o “sportiva”. I terroristi sono pochi, così come sono pochi i tifosi pronti ad accoltellare qualcuno che indossa i colori della squadra avversaria, ma attorno c’è in entrambi i casi un diffusissimo alone fatto di atteggiamenti aggressivi, di slogan violenti, di comportamenti che per gradi si avvicinano sempre più alla “vetta”, alla punta dell’iceberg rappresentata dall’esplosione di forme di violenza sanguinaria.

Allo stesso modo, noi sappiamo che i casi estremi che balzano agli onori della cronaca non sono altro che l’espressione più radicale di un malessere, di una incapacità di empatia, di una violenza sottintesa che in realtà sono diffusissimi, e non solo nei rapporti fra i sessi.

Se nei rapporti fra partner è la donna in genere a subire la prepotenza del maschio, questo non avviene perché essa sia paziente e angelica, ma unicamente perché essa è svantaggiata in rapporto alla maggiore forza fisica muscolare dell’uomo.

Negli ultimi anni, noi abbiamo visto una casistica impressionante di donne, in genere ragazze giovani, che hanno ucciso i propri figli, di solito bambini molto piccoli, ma anche più grandicelli, come nel caso di Anna Maria Franzoni, la più nota delle madri assassine; la “logica” è la stessa che sta alla base della violenza che si vorrebbe prettamente maschile, ossia sfogare le proprie pulsioni distruttive su chi è più debole e si ritiene in totale propria balia.

Nella maggior parte dei casi, di fronte a simili episodi si invoca la depressione post partum; secondo un modo di pensare molto americano (ci torneremo sopra) questi casi sono ricondotti a un’influenza indipendente dalla volontà della donna, uno squilibrio ormonale. Si tratta di una favola: la depressione induce all’apatia, non a comportamenti aggressivi.

In generale, noi sappiamo che oggi viviamo in una cultura che spinge le persone a ricercare la propria gratificazione immediata come unico scopo di vita; da essa sono escluse virtù un tempo comuni nella vita quotidiana come la pazienza, lo spirito di mediazione, il pensare a lungo termine, l’avere in vista il benessere di chi ci sta attorno oltre che il nostro. I rapporti reali fra le persone concrete non sono mai idilliaci: i bisogni, le aspirazioni, le pulsioni delle persone tendono a entrare in conflitto: se non esiste la capacità di scendere a compromessi, di venirsi incontro, di smussare gli angoli, di pensare alla famiglia come a una Gestalt, di pensare in prospettiva, di sacrificare una soddisfazione momentanea in vista del benessere futuro, i rapporti entrano fatalmente in crisi, e va da sé che non sempre le cose si risolvono in maniera più o meno civile.

La stessa cosa che avviene per i rapporti fra partner, avviene nella relazione madre-figli. Le donne arrivano a diventare madri con un’idea della maternità plasmata dalla pubblicità dei prodotti per l’infanzia (sempre la televisione, il grande totem dei nostri tempi) e si scontrano con il fatto, al quale sono psicologicamente del tutto impreparate, che avere un bambino comporta sacrificio, dedizione, fatica, notti insonni, non avere tempo per sé, drastica riduzione delle occasioni di divertimento e di relazione sociale.

Altro che depressione post partum: le motivazioni di un’aggressività che talvolta può arrivare fino all’omicidio sono qui, nella frustrazione di chi è abituato a mettere la propria gratificazione immediata in cima a tutto, motivazioni che sono praticamente le stesse della violenza di tanti uomini contro la propria partner o ex partner.
Tuttavia, nel diffondersi della violenza, nell’imbarbarimento dei rapporti umani entrano in gioco altre concause più sottili.

Desensibilizzazione da iperstimolazione è un’espressione tecnica alquanto complicata per definire un fenomeno piuttosto conosciuto e apparentemente banale. Quando uno stimolo è ripetuto oltre una certa frequenza, si smette di percepirlo, o la percezione di esso si riduce significativamente.

Un esempio classico che sarà capitato a tutti di osservare: se abitate in una strada trafficata anche nelle ore notturne, dopo un po’ di tempo il rumore del traffico non lo sentite più. Rimane a dormire da voi un vostro amico, e passa la notte in bianco.

E’ in sostanza ciò che con un linguaggio più quotidiano potremmo chiamare abitudine, assuefazione, farci il callo.
Un bambino non è differente da un adulto solo per dimensioni, sono diverse le proporzioni corporee e i lineamenti del viso; sono tondeggianti con una prevalenza delle linee curve; nel loro insieme, questi segnali che permettono di distinguere a colpo d’occhio un bambino da un adulto per esempio in una fotografia, quindi indipendentemente dalle dimensioni, sono i segnali infantili che dovrebbero bloccare l’aggressività dell’adulto e provocare un sentimento di protezione. Normalmente, i segnali infantili dovrebbero essere così efficaci da superare la barriera tra le specie: un cucciolo provoca un senso di affezione e simpatia laddove un adulto della stessa specie lascia indifferenti. Notiamo anche che ad esempio le razze di cani da compagnia sono state selezionate in modo da conservare per tutta la vita una morfologia infantile, come si vede facilmente facendo il confronto con le razze da lavoro e a maggior ragione con l’antenato selvatico del cane, il lupo; troviamo infatti in queste ultime cranio bombato, muso schiacciato, corpo tozzo, zampe corte e ovviamente taglia piccola.

Noi oggi viviamo immersi in un’atmosfera satura di segnali infantili, rappresentati dai personaggi dei fumetti e dei cartoni animati, da giocattoli e pelouche, dai bambini perfetti degli spot pubblicitari cinematografici e televisivi. Tutto ciò ha il difetto di rendere meno sensibili verso i segnali infantili dei bambini reali, che non suscitano più alla loro semplice vista un abbassamento dell’aggressività e un istinto di protezione, cala, spesso pericolosamente al disotto del livello di guardia, la barriera naturale che li dovrebbe proteggere dalla violenza degli adulti.

Questa teoria ha ormai una tradizione ben consolidata nella letteratura psicologica, solo che a questo punto sorge un interrogativo che è strano che ben pochi si siano posti, o almeno nella letteratura psicologica io non ne ho trovato traccia. Come la figura del bambino è portatrice di segnali infantili che dovrebbero in condizioni di normalità bloccare l’aggressività dell’adulto ed evocare un senso di protezione, allo stesso modo, quella della donna è portatrice di segnali femminili che dovrebbero del pari bloccare l’aggressività e indurre un atteggiamento di protezione nel maschio, oltre a suscitare la libido, ed è chiaro che noi oggi viviamo in un’atmosfera satura di segnali femminili molto più che di segnali infantili: pensiamo all’uso e all’abuso che si fa dell’immagine femminile nella pubblicità (pare sia impossibile vendere qualsiasi genere di prodotto senza associarvi la figura di una donna non troppo vestita) e nello spettacolo (anche qui, quella che un tempo era trasgressione, oggi è diventata noiosa routine).

I prevedibili effetti di questa sovraesposizione sono una minore sensibilità ai segnali femminili delle donne reali, quindi in primo luogo calo della libido ma anche sparizione di quel blocco dell’aggressività e di quel senso di protezione che dovrebbero essere normali nell’uomo nei confronti della donna.

Tuttavia di questo non si parla, non sarà mica perché è molto più facile prendersela con i pelouche che mettere sotto accusa tutto il mondo della pubblicità e dello spettacolo con il loro immenso business?

A questo punto però abbiamo esaminato forse metà del problema, rimane l’altra metà: chiediamoci quale immagine della donna ci è rimandata dai media, complice il femminismo, e quale effetto ha ciò sul comportamento di uomini e donne?

Se la combinazione fra femminismo e l’immagine femminile sprintosa, grintosa, aggressiva di Pretty Woman costantemente proposta dai media fa sì che l’uomo veda nelle donne che si trova al fianco tutti i giorni in casa, sul lavoro, nella vita di relazione non, come avveniva nel passato, una figura angelicata, ma un diavolo che veste Prada, pronto a fare di lui uno zerbino con cui pulirsi le scarpe dal tacco a spillo (o a forcone), possiamo davvero pensare che il suo rimanga l’atteggiamento cavalleresco di un tempo? A prescindere naturalmente dalla questione di quanto questa immagine mediatica di Pretty Woman corrisponda effettivamente alla realtà.

Una ricerca di estremo interesse si potrebbe fare sul modo in cui il sistema cinematografico hollywoodiano ha distorto la nostra percezione storica e “riscritto” alcuni classici della letteratura, tenendo presente che nella “civiltà dell’immagine” la finzione tende a sostituirsi sempre di più alla realtà.

Un paio di anni fa, mi è capitato di soffermarmi davanti a uno spazio per le affissioni su un muro cittadino dove per caso erano stati posti l’uno accanto all’altro due manifesti: il primo riguardava la giornata delle Forze Armate del 4 novembre, e raffigurava una soldatessa italiana impegnata in una delle varie missioni di pace nel mondo, che teneva in braccio un bambino di colore, l’altro reclamizzava una tournée dei Trocadero Ballet; nel loro insieme, formavano un’immagine davvero icastica (e sarcastica) della nostra epoca: donne in uniforme e uomini in tutù.

Se noi confrontiamo, ad esempio, la trilogia letteraria del Signore degli anelli di John R. R. Tolkien con quella cinematografica che ne ha tratto Peter Jackson, vediamo che una delle differenze più evidenti fra le due, è nella versione cinematografica l’enfatizzazione della figura di Arwen, trasformata in donna guerriera. Non si tratta solo di un fraintendimento-tradimento delle intenzioni dell’autore (come un Giulietta e Romeo col lieto fine), perché questo non è certo un caso isolato, anche in King Arthur di Antoine Fuqua del 2004, ad esempio, compare un’inedita Ginevra amazzone che va ad aggiungersi ai molti fraintendimenti del mito arturiano presenti in questa pellicola.

Uno degli effetti del sistema mediatico americano è la perdita della categoria della storicità, la capacità di percepire che le epoche passate erano diverse da quella che ci è toccato in sorte di vivere; dobbiamo rassegnarci, la preistoria è I Flintstone, l’antichità Quo vadis o 300, il medioevo Prince Valiant, così allo stesso modo se negli eserciti moderni le soldatesse sono presenti quanto i soldati o poco meno, si popolano i tempi andati di guerriere in spregio alla realtà storica, dimenticando ovviamente che nella guerra moderna le occasioni di contatto fisico diretto fra i combattenti dei fronti opposti si sono drasticamente ridotte rispetto al passato, e che se un tempo le donne non impugnavano solitamente le armi, se Giovanna d’Arco e le amazzoni (ammesso che siano realmente esistite) erano un’eccezione, questa non era una discriminazione, né dipendeva soltanto dalla minore forza fisica femminile, ma dal fatto elementare che la fecondità di una popolazione dipende dal numero delle donne in età fertile, e che quindi era saggio non mettere la loro vita a repentaglio.

Ma questo è ancora il minimo. I serial televisivi d’importazione americana mettono in scena un numero impressionante di virago in grado di sovrastare gli uomini in termini di pura, bruta forza fisica. Partendo dalla capostipite Wonder Woman, abbiamo La Donna Bionica, Buffy, Xena, Relic Hunter e senza scordare neppure le Charlie’s Angels e le bagnine di Baywatch.

Buffy, la cacciatrice di vampiri, è forse particolarmente impressionante perché vediamo una fanciulla dall’aria delicata e fragile che in quattro e quattr’otto mette fuori combattimento degli esseri che non sono solo degli energumeni, ma creature dotate di poteri soprannaturali, ma forse Hunter è un esempio ancora peggiore. Si veda soprattutto il personaggio di Nigel, il comprimario maschile della cacciatrice di reliquie, esempio veramente miserevole di come dovrebbe essere ridotto l’uomo nei più sfrenati sogni delle femministe: dipendente, infantile e sottomesso leccatore degli stivali della sua “dea”.

Anni fa mi è capitato di sentire in un talk show televisivo una ragazza affermare in tutta serietà:

“Oggi noi donne siamo più forti degli uomini”.

Il tragico è che lo credesse veramente, e che probabilmente non è la sola a nutrire una simile idea (idiozia).

Se una ragazza, nell’illusione di potersela cavare comunque, si mette in una situazione dalla quale una sua antenata si sarebbe ben guardata, e finisce stuprata o peggio, chi la risarcisce, Relic Hunter?

Il grande totem “culturale”, l’oracolo dei nostri tempi, è il sistema mediatico, soprattutto televisivo, è esso che forma la percezione del mondo dei nostri contemporanei, soprattutto delle generazioni più giovani, è esso che dà sistemi di valori, modi di pensare, griglie per interpretare la realtà assai più di altre “agenzie educative” ormai sfaldate e impotenti a contrastare la sua influenza, la scuola e la famiglia.

Ora, è piuttosto evidente che esso presenta modelli e valori solo femminili, e gli uomini perlopiù sono o slavate figure di contorno, o personaggi negativi, oppure subiscono senza reagire quella che a tutti gli effetti è una prevaricazione femminile, oppure si dimostrano egocentrici, irresponsabili e infantili allo stremo.

In un mondo dal quale i valori tradizionali, soprattutto quelli maschili: il senso di responsabilità, l’onore, la fedeltà alla parola data, la lealtà, sembrano scomparsi, ecco che soprattutto gli uomini caratterialmente più deboli si attaccano alla violenza, all’esercizio, per così dire, della loro superiorità fisica come unico mezzo rimasto per affermare la loro virilità.

Per quale motivo, per quali motivi la pubblicità e la televisione sembrano quasi ignorare o tenere in scarsissima considerazione la metà maschile della nostra specie?

Certo, di solito in famiglia o almeno in molte famiglie sono le donne a tenere i cordoni della borsa, e una donna casalinga passa in casa e davanti al televisore molte più ore della giornata rispetto a un uomo che lavora, ma questo genere di spiegazioni appare insufficiente e alquanto superficiale, anche se si può notare che da qualche anno quella che era forte l’ultima roccaforte maschile nell’universo pubblicitario, ossia la pubblicità delle automobili, ha miseramente capitolato, e oggi non ci viene più proposto l’acquisto della macchina per partire all’avventura, ma per andare a fare shopping e sembrerebbe, a giudicare dagli spot pubblicitari, che sulle nostre strade circolino soltanto guidatrici.

Il motivo per cui i totem televisivi-pubblicitari sembrano quasi ignorare l’esistenza di una fetta di umanità che non porta né il reggiseno né i tacchi a spillo, deve essere più profondo. Sulla psicologia accademica, ufficiale non c’è da fare affidamento, ma ad aver capito tutto è stato invece Sergio Gozzoli che nel suo bellissimo saggio L’incolmabile fossato pubblicato su “L’uomo libero” nel 1984 aveva contrapposto il “virile attaccamento alle proprie tradizioni” alla “donnesca curiosità [e] disponibilità ad accogliere, a fagocitare, a ridigerire qualunque apporto, qualunque eccentricità”.

Con tutte le possibili variazioni individuali, la donna tende più dell’uomo a sentire l’attrattiva del nuovo, del cambiamento, della moda, a ritenere migliore di ciò che è precedente quel che si presenta con i crismi della novità, ed è quindi il “target” ideale di un sistema che ha bisogno della più rapida obsolescenza possibile delle merci, per tenere in piedi e portare al massimo sviluppo il ciclo produzione-vendita-consumo.

Per capire fin dove arriva questa differenza di atteggiamenti, basta un fatto: nulla sembrerebbe più immutabile delle differenze legate alla biologia e alla fisicità, eppure… Dalle veneri di Lascaux alla pittura barocca, l’arte ci testimonia l’apprezzamento maschile per la donna “bene in carne” dalle caratteristiche femminili ben evidenti, eppure in un paio di generazioni la moda ha imposto un modello di donna longilinea e filiforme, unicamente perché una modella magra può indossare qualsiasi abito, e questo è più comodo nelle sfilate. Per un particolare di convenienza “tecnica” milioni di ragazze sono state spinte sulla strada dell’anoressia; forse che questa non è una forma molto pericolosa di violenza contro le donne?

In una cultura che non offre nessun modello maschile, per le personalità più fragili, le possibilità sono estremamente limitate, o ci si attacca all’aggressività, alla violenza come estrema possibilità di testimoniare la propria virilità, o si finisce per assimilare, proprio perché non ce ne sono altri, un modello femminile.

Che l’omosessualità sia un comportamento non solo oggi più visibile e più accettato che nel passato, ma anche in espansione a me pare, a mio modestissimo avviso, estremamente probabile.

Qui occorrerebbe aprire un discorso a parte. E’ perlomeno curioso che la psicologia americana così netta, perlopiù, nel negare importanza alla genetica e sostenitrice dell’onnipotenza dell’ambiente, si ostini a cercare per l’omosessualità cause genetiche e/o connesse alla fisiologia del cervello nonostante non ne abbia finora trovata la minima traccia. Si tratta in sostanza di non voler capire che se ben difficilmente l’orientamento sessuale di una persona può essere modificato da esperienze dell’età adulta, le cose stanno altrimenti nell’età infantile o anche adolescenziale. D’altra parte, in termini biologici è facile capire che la possibilità che comportamenti che abbassano o azzerano la facoltà riproduttiva, abbiano una base genetico-adattiva è più nulla che scarsa.

Si è a volte insistito sul fatto che certe strutture del cervello dei maschi omosessuali, avrebbero una conformazione più simile a quella del cervello femminile che a quello degli altri soggetti maschili, senza mai peraltro produrre risultati convincenti. Si vede qui un tratto tipico della psicologia americana (ne abbiamo accennato riguardo alla depressione post-partum); c’è sempre alla base di un certo comportamento un “ingranaggio” fuori posto, uno squilibrio ormonale o una conformazione “non giusta” di un’area del cervello; la psicologia americana tende a cancellare le differenze fra l’organismo, l’uomo e la macchina, e quella europea si sta lasciando sempre più influenzare da questa nefasta tendenza.

Alla base della violenza di certi uomini verso le loro compagne o le donne in genere, non c’è la persistenza di un modello culturale arcaico, ma l’affermazione del moderno modello democratico-consumista-femminista che alla fine non lascia agli uomini psicologicamente più fragili altro modo di affermare la propria virilità che con la violenza. Là dove, nonostante tutto, ancora sopravvive il modello culturale tradizionale, con la sua idea cavalleresca di rispetto per la donna, di non infierire su chi è fisicamente più debole, è forse ancora l’unico argine a protezione delle nostre compagne che precariamente rimane.

C’è poi un altro fattore che va considerato: l’immigrazione. L’immigrazione incide pesantemente sulla violenza contro le donne sotto due aspetti: in primo luogo, essa ha portato a una complessiva degenerazione della qualità della vita e dell’ordine pubblico con un aumento esponenziale dei reati, compresi quelli a sfondo sessuale. Certo, non bisogna generalizzare e ci sono anche immigrati che sono persone perbene, ma resta il fatto che metà dei crimini che avvengono in Italia (fra cui in genere, i più efferati), sono commessi da immigrati. Poiché ancora oggi (forse non ancora per molto) gli immigrati sono lontani dal costituire la metà della popolazione, si capisce che l’incidenza pro capite di fatti criminali è molto più alta rispetto alla popolazione italiana.

Che una donna possa essere stuprata, picchiata, magari uccisa come reato accessorio nel corso di una rapina in villa, di un’aggressione per strada, o magari nel caso di resistenza a uno scippo, è diventato un tipo di fatti di cronaca sui quali ormai non ci si sofferma più di tanto.

L’altro aspetto è rappresentato dal fatto che gli immigrati provengono perlopiù da culture che disprezzano, segregano, umiliano, tiranneggiano le donne in tutte le maniere possibili, e una volta arrivati da noi non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai loro costumi.

Ultimamente mi è capitato di parlare con un mio parente che vive in una città dove c’è una forte immigrazione islamica. Mi ha raccontato che la moglie, insegnante, si trova in grandissime difficoltà con classi composte da ragazzi mussulmani che sono abituati a non avere nessunissimo rispetto per una donna.

Ma il problema non è costituito soltanto dagli islamici. Pensiamo ai Cinesi, provenienti da una cultura dove è ancora diffusissimo l’infanticidio femminile, o agli Africani subsahariani fra i quali, mussulmani o cristiani che siano, è diffusa la pratica dell’infibulazione, ossia della mutilazione genitale femminile.

Ora, provate a immaginare il dilemma di un nostro medico cui viene richiesto di infibulare una bambina, e che sa benissimo che se rifiuta, la bambina sarà mutilata ugualmente, possibilmente su un tavolo da cucina, con un pezzo di vetro o un coltello da cucina, senza anestesia e senza nessunissima asepsi. E’ un dilemma di fronte al quale i nostri medici si troveranno sempre più spesso.

I democratici (e fra essi le femministe, ovviamente) sembrano incapaci di capire che dove si insedia un immigrato, una famiglia, una comunità di immigrati, è un pezzo di anti-Europa che avanza, che si insinua fra noi come una cellule tumorale.

Nel secolo e mezzo che ci separa dai tempi di Marx, più un altro secolo se vogliamo risalire a quell’altro genio che è stato Jean Jacques Rousseau, di stupidaggini i democratici, i “sinistri”, i “compagni” ne hanno inventate tante, eppure quella del multiculturalismo le batte tutte, urta in modo plateale contro l’evidenza. Tuttavia, mi viene da pensare che si tratti di stupidità (stupidità indotta da ideologie che forniscono coordinate errate) più che malafede.

Ha cominciato quel re degli imbecilli che è stato l’illuminista ginevrino con l’idea di una bontà innata dell’essere umano, gli ha fatto eco Marx con il suo mito internazionalista, “proletari di tutto il mondo unitevi”, ci si sono messi gli psicologi comportamentisti con l’idea che la cultura, i comportamenti, l’essere umano siano modellabili a piacere (vi rimando al mio saggio L’altra faccia della stupidità sul sito del Centro Studi La Runa per verificare tutta l’infondatezza scientifica del comportamentismo), aggiungete una spruzzata, un’eco di egualitarismo cristiano, e il gioco è fatto: costoro sono così ingenui, così pericolosamente stupidi da credere davvero che gli immigrati giunti sul nostro suolo o i loro figli si sbarazzerebbero della loro “cultura” per adottare la nostra.

Care compagne femministe, cari compagni democratici, marxisti, mondialisti, multiculturalisti: la violenza contro le donne, e non soltanto quella, è esattamente il risultato del mondo che avete voluto e costruito. Ma che cosa vi aspettavate? Pensavate davvero che ne sarebbe uscito qualcosa di diverso?

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2 Responses

  1. Musashi
    | Rispondi

    Mi complimento con l'estensore dell'articolo, davvero ottima sintesi!
    condivido in pieno.

  2. vate
    | Rispondi

    Purtroppo si, non potevamo attenderci nulla di meglio. Il disastro civile ed ambientale nel quale ci troviamo è un risultato del quale siamo più o meno tutti complici, nonostante vi sia una differenza sostanziale tra coloro che hanno chiaro il concetto di civiltà NORMALE, e quelli che vedono nell'andamento attuale lo sviluppo positivo del genere umano.
    Il problema delle massicce ed interminabili migrazioni in occidente di etnie differenti, rientra in quello della globalizzazione, ed entrambi mostrano cosa materialmente porterà alla seconda morte la nostra civiltà, essendo la prima, quella spirituale, avvenuta già da tempo.
    Non vi è dubbio che la responsabilità della fine verso la quale il mondo a noi più prossimo si appresta, tirandosi dietro tutto il resto, è degli stessi occidentali, e questo induce ad alcune considerazioni sulle posizioni prese dai moralisti moderni in ragione ai costumi delle genti di cultura diversa.

    L'infibulazione è una costumanza che non ci appartiene ed è inequivocabilmente deprecabile; probabilmente causata dalla superstizione e dalla barbara mentalità primatistica dell'uomo nei confronti della donna, in quei paesi dove è radicata anche per l'accettazione della donna stessa che spesse volte la considera un dovere verso la sua purificazione. L'origine arcaica di questa pratica di taglio e cucito si scontra con un insopportabile anacronismo quando certi immigrati la perseguono anche nelle nostre città. Non tollerarla è più che un dovere.
    Ciò nonostante bisogna tener presente che si tratta di mentalità radicalmente diverse dalla nostra, e prescindendo dallo squallido lavoro di sartoria, essa non è espressamente rivolta contro la donna.
    La visione tradizionale della donna sapeva che ciò che regge tale figura essenzialmente è il sesso, e sapeva anche dell'aspetto corrosivo di quest'ultimo. Così vi sono state differenti forme nel cercare di mettere dei limiti alla libido femminile, appunto per contenerne la dissolutezza in vista di una possibile rettificazione. L'occidente ha conosciuto perfettamente questo problema, ma non è mai arrivato a simili barbarie anche perché consapevole che nessuno può arrogarsi il diritto di modificare fisicamente ciò che la natura ha prodotto, come se quest'ultima concepisse di principio degli errori. Ciò che invece aveva un preciso senso era piuttosto l'infibulazione sub specie interioratis.
    Nella nefandezza di tale pratica vi è un eccesso di zelo nel quale certune mentalità sono cadute perché inadatte a pervenire agli stessi risultati senza l'ausilio dell'intervento fisico. Così il fatto di indurre alla soppressione di certe costumanze comporta anche il rischio di una crisi d'identità in taluni popoli che inevitabilmente contribuisce ad incrementare il calderone della globalizzazione, la femminilizzazione delle società ed il deterioramento della figura della donna. Soltanto un'azione contro l'infibulazione che sappia proporre l'infibulazione spirituale è esente da tali rischi. Il problema è che il modello occidentale non è assolutamente adatto a proporla, pur quando le genti in questione sappiano attuarla.

    Queste considerazioni richiamano un'altra famosa differenza radicata in popoli dissimili, e riguarda l'uso delle bevante alcoliche per l'appunto vietato dove la religione mussulmana vige. Così come il sesso anche le sostanze inebrianti tradizionalmente venivano considerate anche nel loro aspetto corrosivo, e la religione mussulmana zelante di tale verità ne ha proibito l'uso in vista della pericolosità del potere dionisiaco liberato laddove generalmente non vi è la possibilità di controllarlo e dirigerlo positivamente.
    Nel mondo occidentale invece l'uso di bevande inebrianti non è mai stato demonizzato, pur conoscendone la pericolosità come in tutto ciò che è tossico per la crescita interiore, probabilmente perché nei sostrati dello spirito occidentale risiedeva l'idea che il potere dionisiaco destato da tali bevande rifletteva in forma residuale il potere delle bevande d'immortalità sacre ed originarie, e pertanto non nuoceva a quella schiatta di individui derivati dagli stessi dei, nei banchetti dei quali scorrevano fiumi di tale nettare.

    Le differenze di mentalità riflettono la natura interiore dell'individuo. Dove manca la capacità innata di confrontarsi con il mondo e di decidere per se stessi, la risiedono anche i motivi per i quali certune regole possono venire imposte.

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