Lo splendore dell’essere in Tolkien

tolkienIl tema della bellezza traspare nell’intera opera tolkieniana, sia nelle descrizioni dei paesaggi, sia nei personaggi stessi. La bellezza di un luogo può colpire a tal punto da suscitare un sentimento di struggimento verso ciò che va oltre l’apparenza ed il presente, per riconnettersi al tempo in cui “il mondo era giovane” e tutto appariva fresco e nuovo. Quando giunge a Lothlorien, ed in particolare nella radura del Cerin Amroth, cuore del reame elfico, sembra a Frodo di “essere passato su un ponte del tempo e di essere giunto in un angolo dei tempi remoti (…). Gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra aperta su un mondo svanito (…). Non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro ed il bianco, il blu ed il verde erano freschi ed acuti e gli pareva di percepirli per la prima volta e di creare per essi nomi nuovi e meravigliosi” (1).

Dopo il disastro di Moria e la caduta di Gandalf, la Compagnia prostrata dal dolore giunge al lago di Kheled-zâram, gioiello dell’antico reame dei nani di Moria, ove giace la corona di Durin. La descrizione suscita nel lettore quel senso di lontananza e mistero che Tolkien cita spesso come essenziale per la riuscita del suo mondo secondario: “Si chinarono sulle acque scure (…), lentamente ai loro occhi apparvero le forme delle montagne d’intorno specchiate in un azzurro cupo, e i picchi erano come piume di bianche fiamme su di esse; più in alto ancora si estendeva il cielo. Pari a gioielli incastonati negli abissi, le stelle brillanti scintillavano; eppure il cielo sulle loro teste era illuminato dal sole” (2).

Nel saggio sulle fiabe Tolkien afferma che uno dei compiti della fiaba è quello di donare ristoro – il che ha molto a che fare con la bellezza. Così come accade a Frodo a Lothlorien, a cui pare di scoprire l’oro ed il bianco dei fiori ed il verde dell’erba come se non li avesse mai visti, così afferma il suo Autore: “Dovremmo ancora guardare il verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall’azzurro, dal giallo, dal rosso; (…) il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. Non dico vedere le cose come sono, non voglio trovarmi alle prese con i filosofi, anche se potrei azzardarmi a dire vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle, vale a dire quali entità separate da noi stessi. Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare – dalla possessività” (3). Aristotele affermava che la filosofia nasce dallo stupore per la realtà e, anche se Tolkien dice di non volersi ritrovare invischiato nelle discussioni dei filosofi, possiamo comunque individuare nella filosofia del ‘900 un’assonanza tra le sue parole e l’atteggiamento indicato dalla fenomenologia di Husserl. Secondo il filosofo tedesco, la crisi delle scienze e del pensiero occidentale nasce proprio dall’aver perduto quello sguardo originario sull’essere in seguito allo sguardo analitico e meccanicistico della scienza. Tornare alle cose è il motto di Husserl: significa innanzitutto mettere in discussione le certezze immediate che l’uomo ha di sé e del mondo, superare la scontatezza ed il pregiudizio, inteso come presunzione di conoscenza, per tornare a cogliere i fenomeni nel loro puro apparire, ossia ciò che è dato immediatamente e con evidenza alla coscienza e che viene descritto senza aggiungere niente di estraneo all’oggetto stesso. L’epochè, ossia la sospensione delle nostre credenze sulle cose, non ha un esito scettico, ma è piuttosto il superamento dell’idea che il mondo sia in nostro possesso e a nostra disposizione per essere usato e manipolato. La realtà torna così a manifestare la sua presenza in quanto evento rivelativo dell’essenza che viene colta dalla coscienza attraverso l’intuizione.

il-signore-degli-anelliL’espressione di Tolkien: vedere le cose come siamo (o eravamo) destinati a vederle si riferisce sicuramente al tema, tanto caro all’Autore, che l’uomo, seppur caduto, rimanga sempre fatto ad immagine e somiglianza del Creatore. Deve però riguadagnare uno sguardo sulla realtà che gli permetta di uscire dal proprio orizzonte limitato e la bellezza della natura costituisce il tramite ideale. Già Platone sosteneva che, tra tutte le idee, la bellezza è quella che più facilmente attira l’uomo, poiché si può cogliere attraverso la vista che è il più nobile tra i sensi; affascinato dalla bellezza terrena l’uomo passa alla contemplazione di quella divina che reca con sé le altre idee, poiché vi è una coincidenza tra bello, vero e bene. Tolkien non era dichiaratamente un platonico come lo fu il suo amico C. S. Lewis, ma si può ritrovare comunque nella sua poetica una eco di elementi platonici, filtrati attraverso il pensiero medievale, a lui così caro. Platone infatti fu il filosofo che per primo venne “cristianizzato” ed il suo influsso rimase fondamentale fino al 1200, quando Tommaso d’Aquino ripropose invece la filosofia di Aristotele. In realtà i due grandi, almeno nella loro versione cristiana, vennero visti dalla filosofia medievale più come complementari che come antagonisti. Di Platone è centrale la spinta verso il trascendente e la concezione della realtà naturale come segno che rimanda ad un mondo divino, sede degli archetipi; di Aristotele si sottolinea la presenza dell’essere nelle cose stesse e la possibilità per l’uomo di cogliere tale essenza.

La bellezza degli elfi e la luminosità che li accompagna assumono, ne Il signore degli anelli, il significato di un richiamo alla bellezza eterna delle Terre imperiture, di cui gli elfi stessi provano nostalgia, poiché l’animo umano anela all’Infinito e all’Assoluto. Gli elfi incarnano la bellezza e la difendono preservandola nella Terra di Mezzo; i loro tre anelli, infatti, hanno proprio lo scopo di conservare intatti e senza macchia i luoghi ove queste creature dimorano, in particolare Lothlorien e Imladris. L’incontro con gli elfi di Gildor, ancora nella Contea, infonde nei quattro hobbit il coraggio e la determinazione per andare avanti, suscitando nel cuore di ciascuno il desiderio per qualcosa di più alto e nobile. Anche i cibi quotidiani assumono un altro gusto grazie alla loro presenza e tutto è inondato dalla luce e dal canto.

Tommaso afferma che la natura della bellezza deriva da Dio in quanto egli è la causa dell’armonia e dello splendore di tutti gli enti. Ogni cosa può essere considerata bella in quanto ha in sé il fulgore della sua forma, spirituale o corporale, e in quanto è in armonia, all’interno della gerarchia e dell’ordine finalistico del cosmo. Tommaso mostra poi come Dio sia la causa dello splendore del creato, oltre che dell’armonia ordinata del cosmo, in quanto Egli diffonde negli enti un raggio della sua luminosità che è fonte di luce che risplende nelle cose. E Tolkien, come afferma lo studioso Mark Sebank, era profondamente innamorato delle forme dell’esistenza, in quanto la luce, che si identifica nella teologia cristiana con il Logos, rivela una splendida ricchezza di forme e realtà sensibili (4).

Il tema della luce è particolarmente presente nella sua opera, essa stessa è simbolo dello splendore supremo e rivela la bellezza intrinseca degli oggetti; a Lothlorien Frodo è colpito dalla luminosità che pervade il paesaggio: “La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni erano allo stesso tempo precisi, come se concepiti e disegnati al momento in cui gli venivano scoperti gli occhi ed antichi, come se fossero esistiti da sempre” (5); gli elfi stessi sembrano accompagnati da un alone di luce che brilla nella notte. Il chiarore che rivela la forma, ossia l’essenza degli enti, e l’armonia che rasserena l’animo sono dunque anche per Tolkien gli elementi fondamentali di una poetica del bello.

il-maestro-della-terra-di-mezzoSecondo Verlyn Flieger (6) tutta l’opera tolkieniana si può leggere come un’opposizione tra luce e tenebre: nella Terra di Mezzo la bellezza della luce si manifesta, più ancora che nello splendore del sole, nella luminosità delle stelle che incendiano il buio della notte e risplendono come gioielli incastonati nella volta celeste, tanto più brillanti proprio in quanto contrastanti con l’oscurità. Dama Galadriel dona a Frodo una fiala che contiene la luce di Eärendil, la stella del mattino e della sera, la più amata dagli elfi, perché gli sia di guida e di conforto nei luoghi più oscuri, là ove ogni luce dovesse spegnersi. La luce di Eärendil, divenuto una stella, è quella di uno dei Silmaril, i gioielli in cui era conservata la luce originaria degli Alberi di Valinor, la Terra Beata dei Valar; le stelle, inoltre, sono opera di Varda, la Regina celeste, moglie di Manwë, il Vala supremo dell’aria e del cielo. Varda è la signora della luce, la più adorata dagli elfi che la invocano dal loro esilio nella Terra di Mezzo col nome di Elbereth, mentre Melkor, il maligno, la teme. In lei e nella figura di Galadriel, che svolge un ruolo analogo per gli hobbit, sono confluite, secondo le parole dello stesso Tolkien, tutte le sue considerazioni sulla bellezza e lo splendore, così come si sono espresse nella devozione mariana del popolo cristiano in tutta la sua storia: “Su di essa si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza, sia come maestà, sia come semplicità” (7).

Per Tolkien la luce solare e lunare illumina il mondo successivo alla Caduta nel quale ormai viviamo, mentre le stelle richiamano in noi la nostalgia per il Paradiso perduto e sono insieme spinta a non smettere di sperare: desiderare deriva etimologicamente da de-sidera: ossia dalle stelle. Quando Sam sembra aver perduto ogni speranza a Mordor, il bagliore di una stella compare debolmente nel buio ed egli, contemplandola, ricorda che al di là dell’oscurità vi è sempre la luce e ritrova il coraggio. La frammentazione progressiva della luce è però anche ciò che permette lo sviluppo delle diverse realtà, popolazioni e storie della Terra di Mezzo, quindi il dispiegarsi della Storia. La sua diffusione va di pari passo con la nascita del linguaggio e la sua successiva moltiplicazione nelle diverse lingue; ma questo permette la ricchezza della subcreazione artistica ed il manifestarsi perciò della luce e della bellezza originarie attraverso l’opera dell’uomo.

Il teologo tedesco Hans Urs Von Balthasar, nel primo volume del Gloria, testo dedicato a formulare una teologia estetica, afferma: “La bellezza è la maniera in cui il bonum di Dio si dona e può essere compreso dall’uomo come verum”. Il bello si manifesta nella confluenza di forma e splendore, come sosteneva Tommaso d’Aquino; ma il mondo moderno ha perso la capacità di riconoscerlo e di affermarlo, per questo, continua Balthasar, ha perso di vista anche il bene e il vero. “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza (…). In un mondo senza bellezza (…), in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione (…) e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male (…). La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello” (8).

Nel suo saggio sulle fiabe, Tolkien afferma che la nostra è un’epoca di mezzi migliori per scopi peggiori; a proposito dell’accusa di escapismo sostiene che un racconto può decidere di non menzionare i lampioni semplicemente perché sono brutte lampade; inoltre le fiabe parlano di elementi ben più fondamentali e permanenti rispetto ai manufatti della tecnica che sembra sappiano esprimere soltanto bruttezza. Il mondo delle fiabe, infatti, contiene sì la magia, ma anche le cose semplici e fondamentali della natura, come la pietra e il fuoco, il pane e il vino, manifestate però nel loro splendore rivelativo, in quanto incastonate in un contesto che ce le mostra come se fosse la prima volta che ci imbattiamo in esse.

A questo riguardo, sostiene l’Autore, la fantasia creatrice svolge un compito ancora superiore al semplice recupero della freschezza della visione: in quanto tale, infatti, essa tenta di creare il nuovo rivelando relazioni e percorsi inediti nella realtà quotidiana; questo tipo di fantasia, che mi sembra corrispondere al termine tedesco Einbildungskraft, l’immaginazione produttiva, “è capace di aprire il vostro forziere e di farne volar via tutte le cose racchiusevi, come uccelli da una gabbia. Le gemme si trasformano tutte in fiori e fiamme, e vi accorgerete allora che tutto ciò che avevate (o sapevate) era pericoloso e dotato di poteri, nient’affatto saldamente impastoiato, sì anzi libero e selvaggio; e tanto poco vostro quanto quelle cose non erano voi stessi” (9). Il termine Einbildungskraft ci riporta alla poetica del romanticismo tedesco, in particolare a Novalis. Certo, Tolkien non avrebbe accettato di considerarsi un romantico nel pieno senso del termine, in quanto accusava il movimento filosofico-letterario di essere comunque figlio della modernità; tuttavia è innegabile che vi siano nella sua opera molte suggestioni romantiche. La concezione novalisiana dell’idealismo magico ci permette di comprendere meglio il ruolo dell’artista-narratore e poeta e dell’arte stessa rispetto alla rivelazione dell’essere della natura. Secondo Novalis tutto si basa sulla legge dell’analogia ed il poeta è colui che sa cogliere la struttura analogica del reale: egli diventa quindi il tramite che permette alla natura di rivelarsi nella sua essenza divina più profonda. Secondo il poeta tedesco il finito è manifestazione dell’infinito e dell’assoluto, ma occorre saperne cogliere la presenza al di là dell’apparenza immediata, per far venire alla luce il divino presente nelle cose, che si manifesta attraverso la capacità dell’artista di creare immagini. Scoprire la struttura poetica dell’esistere conduce a svelare la miracolosità dell’esistenza, “quel carattere di magia cioè, che è proprio di ogni cosa liberata dalla gabbia della esclusiva comprensibilità” (10). Novalis afferma che occorrerebbe formulare una Enciclopedia romantica delle scienze “che racconti come il mondo sia divenuto visibile e molteplice attraverso l’Einbildungskraft” (11). Ogni opera è allora un riscoprire il segno dell’originaria rivelazione divina, riconoscere in ogni realtà ed in particolare in quelle che si evidenziano per la loro bellezza il fluire di un’unica forza cosmica. La capacità creativa e l’arte del narratore si realizzano sia per Novalis sia per Tolkien attraverso il linguaggio. Secondo tale concezione, che Tolkien mediò dal suo amico Owen Barfield, la parola è creatrice ed esprime la natura profonda dell’essere dell’oggetto nominato, facendone emergere la luminosità in tutti i suoi aspetti.

Tolkien considerava la parola come una strada verso la percezione del soprannaturale; al di là dell’immaginazione, era giunto ad una autentica visione di ciò che scriveva, così che la parola stessa era diventata la luce che permetteva di vedere. La parola è uno dei significati del termine Logos: nella concezione greca esso indica il pensiero ed il discorso che lo esprime, ma anche il principio organizzatore, l’ordine e la struttura stessa del cosmo. Nel vangelo di Giovanni il Logos è Cristo stesso, Egli è il Verbo incarnato, l’alfa e l’omega, è la Luce stessa che rende possibile ogni vera conoscenza. Per Tolkien, dunque, la parola poetica contiene in sé un frammento della bellezza e della luce divina. La mitologia è nata dalla capacità narrativa dell’umanità che attraverso la creazione di storie ha dato voce al sacro; come afferma il nostro Autore parafrasando il grande filologo ottocentesco Max Müller, la mitologia non è una malattia del linguaggio, semmai è l’opposto. Secondo la teoria di Barfield in origine le parole possedevano un’unità semantica con le cose: mito, linguaggio e percezione della realtà, intesa come mondo naturale e soprannaturale, erano tutt’uno. Il linguaggio quindi è espressione di una visione mitica del mondo. Nella cosmogonia tolkieniana la creazione di Arda avviene come attuazione della musica degli Ainur, che contiene in potenza ogni manifestazione visibile della Terra di Mezzo. La musica è il suono iniziale di ciò che sarà, non l’atto fisico della creazione; per volere di Eru essa diventa visibile agli occhi delle Potenze angeliche che la renderanno reale in risposta alla parola di Eru: “Eä, “Che sia!”.

In questa prima fase, la bellezza contenuta nella musica deve farsi realtà: nemmeno il dissidio ed il fragore introdotti da Melkor riescono a rovinarla, poiché vengono riassorbiti in un nuovo tema che contiene in sé anche note di malinconia struggente, proprio per questo ancor più meraviglioso: è l’ultimo tema, quello che annuncia la venuta di uomini ed elfi, nella cui creazione gli Ainur non hanno parte. La musica è armonia e Tolkien fa sicuramente riferimento alla concezione pitagorica, ben conosciuta in età medioevale, della “musica delle sfere”; la ribellione ed il conflitto introdotti da Melkor sono quindi innanzitutto disarmonia ed il male è anche negazione della bellezza.

Nella seconda fase, il linguaggio si frammenta e nasce la coscienza: fase che corrisponde alla nascita dei figli di Iluvatar, uomini ed elfi, e soprattutto alla formazione ed allo sviluppo dei diversi linguaggi elfici.

Nelle sue lettere Tolkien ha più volte affermato che gli elfi sono gli esseri più belli della Terra di Mezzo. Essi rappresentano uomini con facoltà estetiche e creative molto potenziate. Il loro regno è quello dell’Arte, ma ad un livello talmente elevato da condurre il soggetto che vi si trova coinvolto in una vera e propria Realtà secondaria, tanto da poter essere definito come Incantesimo. Essi hanno insegnato l’arte della parola agli uomini, ma hanno anche insegnato ad esprimersi a tutti gli esseri viventi ed in particolare agli alberi. È al vecchio Ent Barbalbero che Tolkien affida la descrizione di ciò che è per lui il linguaggio: “I nomi propri narrano le vicende delle cose a cui appartengono, nella mia lingua” (12).

La concezione della lingua come un’entità originariamente costituita da nomi propri, in cui l’essenza e la sua espressione fonologica e semantica coincidono, è presente anche nell’opera di un grande filosofo e scienziato russo: Pavel Florenskij. Benché Tolkien non abbia probabilmente mai conosciuto le sue opere, né sia accaduto il contrario, è possibile indicare molti punti di contatto tra le loro convinzioni, in particolare riguardo alla natura della bellezza e al tema del nome. Anche per Florenskij il nome, come ogni parola, s’identifica con la realtà che per suo tramite viene indicata. “Perciò per il nome (…) vale, e in sommo grado, quella che è la definizione del simbolo: esso è più di se stesso. Allo stesso tempo il nome ed in particolare il nome proprio, non è una parola qualsiasi ma una parola di densità maggiore. Esso come forma o essenza sostanziale, plasma il suo portatore, essendo il suo e sia!” (13). Eä, e sia! è l’esclamazione di Iluvatar che dà l’avvio alla manifestazione concreta della Musica, ossia alla creazione di Arda e che, secondo la Flieger, continua a permanere in ogni espressione successiva sia nella realtà sia nel linguaggio. L’identità tra essere, pensiero e parola risale nella civiltà occidentale a Parmenide ma è presente anche nella concezione biblica. Florenskij chiama la sua teoria metafisica concreta; essa si fonda sull’affermazione che il nome è il denominato, essendo infatti la forma manifesta, carica di uno spessore ontologico e quindi avente carattere rappresentativo-realistico. Secondo il filosofo ha le stesse caratteristiche dell’icona, che nella tradizione russa è più di una semplice immagine, in quanto porta in sé il sacro che rappresenta. Il nome, pertanto, “svela il proprio contenuto spirituale permettendo l’ascesa dall’immagine all’archetipo, ossia il contatto ontologico con l’archetipo. Come tale il nome deve essere considerato un segno sensibile che (…) diventa non una rappresentazione, bensì un’onda propagatrice (…) della realtà stessa che l’ha suscitata” (14). Florenskij, pur essendo un grande matematico e fisico, ritenne sempre che la natura parlasse innanzitutto alla sua immaginazione. Egli ebbe nei confronti della realtà una visione estetico-simbolica, anziché analitica e frammentaria, che, sosteneva, aveva elaborato durante l’infanzia e costituiva anche il fondamento del suo pensiero scientifico.

Il piccolo Pavel ricercava una conoscenza mistica e ontologica del mondo, interamente concentrata sull’unità sostanziale delle cose, per questo motivo tutto il mondo per lui era una fiaba, “in alcuni punti nascosta e in altri svelata” (15).

Anche il tema della luce ricorre spesso nelle riflessioni di Florenskij: la bellezza che rintraccia soprattutto nella natura gli appare come pervasa di aria e di luminosità; la sua percezione è colpita innanzitutto dai colori, di cui coglie le minime sfumature, così come accade a Frodo a Lothlorien.

Il fenomeno, ciò che appare, viene inteso come manifestazione, apparizione e rivelazione dell’essere stesso. Ciò che accomuna Tolkien e Florenskij, nonostante la lontananza tra l’area culturale anglosassone e quella russa, è sicuramente la comune concezione cristiana, che si unisce però a elementi tratti dal romanticismo. Florenskij si riferisce esplicitamente all’idealismo magico di Novalis, Tolkien non lo cita mai, ma, come indicato, si possono scoprire notevoli assonanze. In entrambi inoltre vi è l’eredità del platonismo cristiano, proveniente dall’età medievale, che fa della bellezza la via privilegiata per accedere al Vero e al Bene divini. La fauna mistica delle fiabe, racconta il filosofo russo, era per lui più naturale di qualsiasi fatto scientifico, in quanto il mondo della fiaba non costituiva una semplice raffigurazione bensì una vera e propria trasfigurazione della realtà e della vita, “un rovesciamento della sua prospettiva, un capovolgimento dell’orizzonte lineare dell’apparire visibile in quello dell’essere sostanzialmente invisibile”. Non si tratta di un percorso lineare ed armonico, ma di una strada fatta di discese nell’abisso ed improvvise risalite luminose, “verso la bellezza di una vita trasfigurata dal mistero” (16). In queste parole è facile scoprire un’assonanza con la concezione tolkieniana della fiaba: il tema dell’eucatastrofe, l’improvviso capovolgimento che dalla sofferenza conduce alla felicità assoluta, là dove “delizie e dolori” divengono un’unica cosa e la gioia è acuta come una spada: sia il Silmarillion sia Il Signore degli Anelli ne sono l’espressione.

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(1) J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli, Rusconi, Milano 1980, pp. 433-435.

(2) Ivi, pp. 415-416.

(3) J. R. R. Tolkien, Albero e foglia, Rusconi, Milano 1976, p. 72.

(4) M. Sebank, Tolkien e il Logos: un amore incompreso, in Mitus versus Fantasy, Communio n. 218, ottobre-dicembre 2008, p. 50.

(5) J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli, cit., p. 435.

(6) V. Flieger, Schegge di luce, Marietti 1820, Genova-Milano 2007.

(7) J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza, lettera n. 142, Rusconi, Milano 1990, p. 195.

(8) H. U. Von Balthasar, Gloria, vol.1: La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 10 e segg.

(9) J. R. R. Tolkien, Albero e foglia, cit., p. 74.

(10) G. Moretti, L’estetica di Novalis, Rosenberg e Selliers, Torino 1991, p. 87.

(11) Ivi, p. 142.

(12) J. R. R. Tolkien, Il Signore degli anelli, cit., p. 569.

(13) P. Florenskij, Ai miei figli, Mondadori, Milano 2009, p. 350n.

(14) Ivi, p. 370n.

(15) Ivi, p. 210.

(16) N. Valentini, Introduzione, in Ivi, p. 24.

(Antarès, n. 03/2012, J.R.R. Tolkien. Un’epica per il nuovo millennio, http://www.antaresrivista.it/Antares_03_web.pdf)

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