L’Iberoamerica

Mappa dell’Iberoamerica del XIX secolo

L’Iberoamerica è quella parte dei due continenti americani che fu colonizzata dalla Spagna e dal Portogallo. All’Iberoamerica ci si riferisce spesso con il termine di ‘America Latina’, in ragione del fatto che là si parlano lingue neolatine: è però una designazione inesatta, in quanto anche il Canadà francese dovrebbe allora esservi incluso, il che non è normalmente il caso (1).

L’Iberoamerica possiede forse la caratteristica fondamentale di essere quella parte del mondo dove il meticciato in grande scala ha acquistato in rapidisso tempo una dimensione continentale. Altre terre hanno conosciuto un intenso meticciato, ma non su una scala geografica così vasta: Giava, l’Indostan, il Capo di Buona Speranza, la Groenlandia (2). A voler credere all’antropologo ed etnologo Paul Rivet, autore del classico Les origines de l’homme américain (3), il meticciato fu destino delle Americhe già dai tempi preistorici: ma lo sviluppo di questo argomento porterebbe troppo lontano. Il meticciato americano quale esso si riscontra al giorno d’oggi ha la sua origine nel XVI secolo con la conquista europea. All’elemento indio aborigeno si sovrappose presto una forte componente di razza bianca. Poco dopo arrivarono gli schiavi bantù, portati di massima dall’Africa occidentale. Fino a tempi abbastanza recenti (anche meno di un secolo, a seconda dei paesi) i Negri ebbero la tendenza a rimanere relativamente localizzati, nei luoghi ove erano stati immessi; anche se qui essi soppiantarono rapidamente e quasi totalmente la popolazione aborigena: nelle Antille, nella costa del Pacifico della Colombia e dell’Ecuador, in determinate enclâves del Brasile e del Venezuela. Il meticciato in grande scala con l’elemento africano non avvenne se non relativamente tardi, salvo forse nelle Antille e nel Nordeste brasiliano.

Un capitolo poco conosciuto della storia della colonizzazione spagnola è che in Spagna, nel XVI secolo, ci fu una corrente di pensiero che seppe intuire precocemente quali potessero essere i pericoli del meticciato generalizzato e che giustificava l’annessione coloniale delle Americhe solo in base alla superiorità naturale dello Spagnolo sull’aborigeno. Un notevole e generalmente sconociuto rappresentante di questa corrente fu l’ecclesiastico castigliano Ginés de Sepúlveda; il suo punto di vista però dovette soccombere di fronte alla tesi di altri ecclesiastici secondo i quali con l’evangelizzazione delle Americhe la chiesa avrebbe ricuperato le anime perdute in Europa con la riforma protestante (sic). Sta di fatto però che i missionari che lavoravano fra gli indigeni avevano spesso istruzioni di cercare di ridurre al minimo il meticciato degli Indios con “negros u otras razas inferiores [con Negri o con altre razze inferiori]” (4): a lunga scadenza, la raccomandazione ebbe tuttavia scarso successo. È certo però che nell’Indio si vide sermpre qualcosa di ‘meglio’ del Negro – anche se ciò obbediva più a istinto e a considerazioni estetiche che ad altro. Questa ‘svalutazione’ del Negro, comunque, non mancò di avere un certo effetto su tutta la storiografia iberoamericana posteriore.

Nell’ultimo secolo e mezzo circa c’è stata in Iberoamerica la tendenza generalizzata di tentare di glorificare il meticciato – di cercare di dimostrare che dall’incrocio è risultata una nuova, per quanto problematica, ‘identità americana’ che non è né india né europea ma che ne costituisce una ‘sintesi’. Questa tendenza è del tutto palese, fra l’altro, nella pleiade di scritti che, qualche volta a proposito e il più delle volte a sproposito, hanno visto la luce con l’occasione dei cinquecento anni dal 12 ottobre 1492. A chi abbia una pur superficiale conoscenza di questa tematica non sarà sfuggito che in quasi tutta questa letteratura la presenza del Negro è sistematicamente ignorata, taciuta: il Negro è qualcosa di scomodo, quasi di vergognoso: c’è ma si preferirebbe che non ci fosse. Meticciato, sì: ma con gli Indios, non con “negros u otras razas inferiores”. E un romanziere venezuelano, peraltro di ottima qualità, Rómulo Gallegos (5), si riferisce (sia pure senza entrare in dettagli) agli Asiatici come a “razas inferiores [razze inferiori]”. È abbastanza ovvia, in tutta questa tematica, una psicologia da ‘complessati’.

Uno strano e ingegnoso tentativo di circuire il problema fu fatto negli anni Trenta dal medico venezuelano Rafael Requena (6). Egli fece appello a quella teoria secondo la quale la leggendaria Atlantide sarebbe stata una specie di ponte intercontinentale più o meno continuo fra l’Europa e l’Africa nordoccidentale da una parte e l’America dall’altra – ponte che, secondo lui, avrebbe raggiunto l’America su quelle che adesso sono le coste del Venezuela. Quindi, sempre secondo il Requena, tanto gli Spagnoli come gli aborigeni americani delle coste dei Caraibi sarebbero discendenti dei leggendari Atlantidi – fratelli quindi, di sangue e di razza, che dopo millenni di separazione si sarebbero ritrovati, sia pure senza riconoscersi; e la conquista spagnola sarebbe stata una guerra fratricida conclusasi però alla lunga per il meglio con la provvidenziale riunificazione e fusione di ciò che delle malaugurate catastrofi naturali avevano separato ancora nella protostoria. (Anche nel Requena, non una parola a proposito dei Negri [7]).

Jacques de Mahieu (Parigi, 1915 – Buenos Aires, 1990)

Sia menzionata qui di sfuggita la teoria dell’archeologo franco-argentino Jacques de Mahieu, secondo il quale tutte le civiltà indigene americane avrebbero avuto la loro origine con l’arrivo di conquistatori vichinghi parecchi secoli prima del 1492 (8). Le argomentazioni del de Mahieu sono senz’altro notevoli e si ricollegano con lo strano fatto che gli Inca non erano un popolo ma un’aristocrazia che forse quattro secoli prima della conquista spagnola, provenendo non è chiaro da dove, si era imposta sul Tihuantisuyu fondandovi un genuino Impero teocratico-socialista non carente di tratti assai suggestivi (9). La conquista spagnola portò ben presto alla formazione di una società stratificata dominata da un’aristocrazia di origine europea (i Criollos o Mantuanos) che, praticando l’endogamia o procurandosi i consorti in Europa, si mantenne bianca. Al di sotto stava una popolazione meticcia sempre più numerosa costituita di massima dalla prole illegittima dei Mantuanos e da incroci indio-negri (“zambos”) là dove quelle razze erano venute in contatto. I Negri, come s’è già detto, tendevano a essere circoscritti; mentre gli Indios costituivano (ancora fino al XIX secolo) la maggioranza della popolazione e godevano di ampie misure di protezione sia legali (“leyes de Indias” [leggi delle Indie]), poco efficienti ma non del tutto lettera morta, che ecclesiastiche, più concrete e fattuali in quanto amministrate dalla chiesa. Fu una società relativamente tranquilla, economicamente molto prospera, a sfondo agrario e signorile e dotata (almeno fra la popolazione di origine europea) di un alto livello culturale, che nel Nordamerica anglosassone e calvinista non ci si sognava neppure. Elemento negativo di quel periodo fu la formazione in America di abbondanti colonie di marranos (10) – concentrati soprattutto in Messico e in Cile, ma presenti un po’ dappertutto – che in America, dove l’operato dell’Inquisizione era molto inefficiente, ebbero buon gioco. In contatto con i loro correligionari esiliati in Inghilterra, in Olanda, in Portogallo, alla lunga avrebbero ben fatto sentire la loro influenza anche nell’America spagnola (11).

Già alla fine del XVIII secolo in Spagna si stavano facendo preparativi per ammettere la rappresentanza dei Criollos al 50% nelle cortes (camere) di Madrid, con l’idea di creare una specie di Grande Spagna che in America si sarebbe estesa dall’Oregon all’Antartide; pacificando al contempo quei Criollos che non volevano più essere trattati da ‘coloniali’. Ma sempre nel XVIII secolo la massoneria ebbe modo di prendere piede anche in Iberoamerica: a ciò non fu estranea la presenza inglese nelle Antille. Fu l’Inghilterra e i massoni da essa appoggiati (o pagati) a scatenare, a partire dal 1810, la disintegrazione dell’Impero coloniale spagnolo (12). È definitivamente assodato che tutti i ‘liberatori’ – Morelos e Iturbide in Messico, Bolívar e San Martín nel Nord e nel Sud del continente sudamericano rispettivamente – furono massoni e che vennero costantemente finanziati e riforniti dall’Inghilterra. Il caso di Francisco de Miranda, poi, è particolarmente squallido: mentre la Spagna era sotto occupazione francese durante le guerre napoleoniche, l”alleata’ Inghilterra pagava uno stipendio a quel figuro (adesso glorificato dalla storia ufficiale come “precursore dell’indipendenza”) per fomentare sollevazioni in Sud America (questo è ammesso addirittura da un autore venezuelano, il Cabrera Sifontes, generalmente bene documentato e non certo sospetto di irriverenza verso i “próceres” [13]). A Miranda andò male: catturato, finì i suoi giorni nelle carceri di Cadice. Ma al resto della malefica schiera non andò molto meglio: Morelos e Iturbide, fucilati; Bolívar e San Martín costretti a ignominioso esilio a funzione espletata. ‘Liberatori’ meno conosciuti sono quegli undici masnadieri che nel settembre 1810 dichiararono l’indipendenza della Florida e poi ne domandarono l’annessione agli Stati Uniti; annessione che fu subito accettata. La Spagna, che non era in grado di intervenire, dopo inutili rimostranze si accontentò di un pagamento simbolico di 50 milioni di dollari (14).

In America, la Spagna non fu in condizioni di opporsi agli insorti se non in modo saltuario: il peso della guerra fu portato di massima dalle guarnigioni spagnole già presenti in America, perché truppe e approvvigionamenti dall’Europa ne arrivavano solo a singhiozzo. Alla Spagna – appena uscita dalle guerre napoleoniche – furono negati sistematicamente (dai banchieri internazionali) quei crediti di cui essa avrebbe abbisognato per condurre la guerra in America. E quando, nonostante tutto, un esercito venne ammassato a Cadice per imbarcarsi per le colonie, la guerra civile fu scatenata dai massoni generali Quiroga e Riego; guerra civile che le logge massoniche – appoggiate e finanziate dai consolati inglesi – si incaricarono di prolungare artificialmente. Quando un po’ d’ordine fu rimesso nel 1823 dall’intervento francese sotto il duca d’Angoulême, promosso per conto della Santa Alleanza, era ormai troppo tardi. Qualche guarnigione spagnola resistette ancora ferocemente qua e là; ma già verso il 1830 la “nuova Spagna” d’oltremare era una cosa del passato (15).

Viste retrospettivamente, le insurrezioni iberoamericane non mancarono di certe caratteristiche significative. Una è che per la prima volta furono impiegate in grande scala in guerre fra Europei masse di colore – masse che poi ritornarono a sonnecchiare con atavica apatia, senza mai ricevere (né domandare) dei cosiddetti ‘diritti politici’ una volta conclusasi la guerra. Questo è un fenomeno che poi si ripeterà nella traiettoria caudillesca dell’Iberoamerica, ogni qual volta il caudillo (‘duce, dirigente’) – o aspirante tale – di turno metteva insieme un esercito di meticci, Negri, Indios – soldataglia che poi tornava a scomparire nella sonnolenza e nell’anonimato, senza domandare altro che una paga (sotto forma, magari, di saccheggi) – per combattere l’autorità costituita. Una situazione che perdurò fino al 1930 circa.

José Tomás Boves y de la Iglesia (Oviedo, 18 settembre 1782 — Urica, 5 dicembre 1814)

Un caso poco conosciuto e che vale la pena di menzionare è quello del caudillo anti-indipendentista José Tomás Boves (sul quale un autore meticcio, psichiatra di professione, ha scritto un’opinabile ma documentato saggio [16]). Il Boves, asturiano per nascita e che al tempo della colonia spagnola aveva fatto il commerciante, riuscì (praticamente da solo) prima a resistere, poi a contrattaccare i ribelli al punto di metterli con le spalle al muro nel Nord dell’America meridionale; la sua morte nel 1814 segnò il declino delle sorti spagnole in quella zona. L’espediente del Boves (individuo spietatissimo e che doveva essere un sottile psicologo) fu di raccogliere attorno alla bandiera spagnola le turbe di colore che altrimenti avrebbero parteggiato per l”indipendenza’; prima accendendo la loro cupidigia di saccheggio e poi promettendo loro i beni dei Criollos (“los blancos” [i bianchi]) – fra i quali si trovavano la stragrande maggioranza dei massoni, degli anglicanti, dei traditori della corona cattolica di Spagna. (È probabile che il Boves aspirasse, in un imprecisato futuro, al potere assoluto nell’area dei Caraibi, con o contro la Spagna). La strana e sinistra epopea di José Tomás Boves costituisce forse una vicenda dal significato paradossale, che scombina completamente, sotto il profilo della dinamica storica, le relazioni e i nessi (tipici della modernità) tra attori ed eventi: abilmente circuite, le masse di colore si mossero a difendere trono e altare, il re e la chiesa, contro le forze della sovversione internazionale; proprio il contrario di quanto successe costantemente in seguito.

Si noti che fu in Iberoamerica, ancor prima che in Europa, che con la epopeya emancipadora [epopea emancipatrice] si incominciarono a creare ‘patrie’ a iosa e per tutti i gusti – nonché per accomodare interessi di ogni tipo. – Per le nuove fiammanti ‘patrie’, fu conseguenza immediata dell”indipendenza’ un vassallaggio economico assoluto nei riguardi dell’Inghilterra, che durò per oltre mezzo secolo prima che l’egemonia venisse assunta dagli Stati Uniti (17).

Sul piano geografico, si incomincia a vedere quasi subito una contrazione dell’America spagnola a favore di anglofoni e di brasiliani. Già nel 1840, a vent’anni dalla sua fiammante indipendenza, il Messico perdeva la metà del suo territorio dopo una rovinosa guerra contro gli Stati Uniti – guerra che ebbe come ulteriore conseguenza la secessione definitiva (con l’appoggio americano) di quel rosario di repubbliche bananiere che va dallo Yucatán al Panamá nonché l’occupazione inglese di Belice. Il Messico non si risollevò più: dopo oltre mezzo secolo di torbidi, di occupazione francese (18) e di interventi americani esso piombò in una spaventosa guerra civile dalla quale la residua aristocrazia di origine spagnola rimase decapitata e il potere fu posto dagli Americani saldamente in mano ai marranos (19). La Colombia subì la secessione del Panamá, decretata dagli Americani nel 1908 quando si decise la costruzione del Canale. Il Venezuela ci rimise la sua provincia più orientale (la Guayana a Ovest del fiume Esequibo), soffiatale dall’Inghilterra con tutta tranquillità quando si sospettò che là ci fosse una notevole ricchezza aurifera (sospetto che poi risultò infondato) (20). La presenza inglese nei Caraibi divenne sempre più sfacciata: i nuovi Stati ‘indipendenti’ d’America dovevano subire continue minacce e angherie se non si piegavano ai voleri dei banchieri e commercianti di Londra. Incidentalmente, nelle isole e nella Guayana inglese, una crescente popolazione di origine africana adottò l’inglese come lingua propria – molto più consona alla loro primitiva forma psichica che il ‘difficilissimo’ spagnolo – per cui adesso in certe zone rivierasche dei Caraibi si denomina “inglese” il Negro bantù nerissimo, con poca o nessuna traccia di meticciato.

Più a Sud, il Cile, legatissimo da sempre all’Inghilterra probabilmente in ragione della sua alta concentrazione di marranos, per conto dei commercianti minerari di Londra arraffò (negli anni Ottanta del XIX secolo) al Perù e alla Bolivia l’Atacama, aridissimo deserto ma territorio ricchissimo di giacimenti di rame. L’Argentina ci rimise le isole Malvine, occupate in modo insultante dagli Inglesi quando la gesta emancipadora era appena conclusa, approfittando del fatto che la guarnigione spagnola, contro la quale gli Inglesi avevano prima avuto occasione di rompersi i denti, era stata ritirata per combattere gli insorti sulla terraferma (21).

Ivan Wasth, Bandeirantes

Al contempo, fino agli anni Trenta del XX secolo, si assiste a una ipertrofica crescita del Brasile. Il Brasile si dichiarò indipendente dal Portogallo nel 1822, e l’indipendenza si consumò senza violenze o fatti di sangue. E mentre l’America spagnola, finalmente ‘indipendente’, sprofondava in interminabili risse fra caudillos, il Brasile si mise in marcia per raggiungere le Ande – cosa che quasi gli riuscì – avvalendosi della sua privilegiata situazione geografica a valle dell’immenso bacino del Rio delle Amazzoni. La tattica usata dal Brasile era quella della ‘conquista pacifica’, della guerra senza colpo ferire: una tattica che ancora recentemente era materia di insegnamento nelle accademie militari brasiliane. Sfruttando il fatto che da parte avversa non esisteva alcun controllo di frontiere, e che le frontiere medesime erano mal definite, gruppi di bandeirantes (‘pionieri’ – al bandeirante è stato innalzato addirittura un monumento a Brasilia) venivano istallati sempre più addentro nel territorio amazzonico, senza che nessuno dei confinanti se ne accorgesse. Quando poi intervenivano delle rimostranze (il che succedeva invariabilmente molto tardi) si diceva che là la popolazione era stata brasiliana da sempre e che quindi quelle terre erano di diritto brasiliane. In questo modo il Brasile sottrasse alla Bolivia, al Perù, alla Colombia, al Venezuela, milioni di chilometri quadrati. Quanto ai bandeirantes (22), erano di massima degli avanzi di galera, spesso garimpeiros (cercatori nomadi di oro e diamanti alluvionali), se non veri e propri cangaceiros (criminali incalliti) a cui veniva condonata la pena a condizione di andare a ‘servire la patria’ in quel modo. E la presenza dei bandeirantes in una nuova zona significava automaticamente la scomparsa della popolazione indigena, con massacro indiscriminato degli uomini e stupro in massa delle donne, poi ‘incamerate’ con la loro prole nella massa senza volto dei meticci.

Fu questo un destino generalizzato degli indigeni, la cui sorte peggiorò drasticamente dopo l”indipendenza’. Se prima, sotto la Spagna e il Portogallo, essi avevano goduto di un minimo di protezione da parte della chiesa e delle autorità, dopo, la loro liquidazione (o etnocidio che dir si voglia) divenne addirittura la politica ufficiale di certi governi. Né la cosa deve sorprendere quando si pensi che la matrice ideologica dell’indipendenza americana fu un massonico illuminismo: l’Indio, elemento ‘arretrato’, doveva scomparire come tale per far posto al progresso – e ciò, naturalmente, per il suo stesso bene: perchè potesse anch’egli usufruire dei vantaggi della ‘civiltà’. Questo etnocidio ‘umanitario’ prese spesso la forma di un genocidio vero e proprio, soprattutto in Brasile e in Argentina.

In Argentina si arrivò ad applicare una specie di guerra batteriologica (diffusione ad hoc dell’influenza, malattia alla quale gli indigeni erano molto sensibili), per eliminare i residui Tehuelche del Sud (23). In Brasile, a mano a mano che la tecnica dell’armamento progrediva, i fazendeiros [grandi proprietari terrieri] e l’esercito impiegarono gli elicotteri da guerra e il napalm per sterminare gli Indios o allontanarli da vaste zone che poi venivano popolate con Negri e meticci e destinata all’allevamento del bestiame – Negri e meticci che erano invariabilmente la manodopera spicciola del massacro. Questa raccapricciante sorte dell’Indio amazzonico fu descritta in modo magistrale e quasi allucinante dal romanziere colombiano José Eustasio Rivera, nel suo migliore scritto, La vorágine, ambientato ai tempi dello sfruttamento del caucciù in Amazzonia, a cavallo fra i secoli XIX e XX. Anche se i principali beneficiari di quello sfruttamento furono gli Arana, peruviani di Ucayali, l’orrida ‘epopea’ si svolse di massima in territorio brasiliano.

Un altro fatto che attende l’attenzione di qualche storico serio è la strana carriera dell’ex-colonnello venezuelano Tomás Funes, che nei primi anni del Novecento si costruì un vasto impero personale dalle parti dell’alto Río Negro. Funes fu probabilmente l’ultimo caudillo che arrivasse a fasti imperiali in Iberoamerica: si era all’alba di tempi nuovi (24). Era stato, quello dell’Iberoamerica, un mondo strano, di norma grottesco e spesso sinistro, ma sempre variopinto e affascinante, che il già citato romanziere Rómulo Gallegos aveva descritto, con estro poetico e con frase divenuta ormai celebre: “tierra ancha y tendida, buena para el esfuerzo y para la azaña, toda horizontes como la esperanza, toda caminos como la voluntad [terra larga e estesa, buona per l’impresa e per l’avventura, tutta orizzonti come la speranza, tutta strade come la volontà]”. Terra dove i caudillos si lanciavano l’uno contro l’altro all’arrembaggio dei governi o a fondare imperi personali in un retroscena di foreste impenetrabili e sterminate, di altissime montagne dai picchi nevosi, di fiumi immani; dove, avvolto dall’arco dell’Orinoco, stava ancora l’ultimo arcano del pianeta, il ‘mondo perduto’ delle montagne piatte, dove allignavano la scolopendra acquatica, la salamandra arboricola e altri piccoli ma stranissimi esseri. Questo mondo visse le sue ultime ore negli anni Cinquanta. È negli anni Cinquanta che si incomincia a sentire massicciamente l’intrusione americana in Sud America: in Messico e nell’America centrale il fenomeno era già di vecchia data. Si trattava di fabbricare una nuova classe politica, che fosse totalmente al servizio dell’America quale strumento del grande capitale internazionale: al caudillo bisognava sostituire il suffragiocratico sensale di voti. Gli Stati Uniti ci riuscirono, impiegandovi vari decenni e facendo largo uso di una loro vecchia conoscenza: lo sciacallo marxista. Le turbe di colore cessarono di essere una specie di torpido Hintergrund – utilizzabile secondo le necessità come carne da cannone salvo poi essere rispedite al loro posto -, per diventare serbatoio permanente di voti: serbatoio con il quale, di necessità, ogni aspirante politico doveva fare i conti. Il mutato ambiente favorì la crescita ipertrofica di una classe criminale alla quale ogni forma partitocratica poté permanentemente attingere per ogni sorta di attività. Al contempo, con l’apertura delle comunicazioni, con l’inurbamento, con la trasformazione di un’economia fondamentalmente agraria in una parassitaria (solo superficialmente industriale), l’elemento africano, prima fortemente localizzato, si infiltrava un po’ dappertutto nella popolazione di colore. In questo modo, la qualità razziale del popolo minuto del Sud America, per quanto non fosse mai stata elevata, passò a essere scadentissima. Quanto all’aristocrazia di origine spagnola, se in Messico fu in buona parte liquidata fisicamente, nel resto dell’Iberoamerica essa fu sottilmente intossicata nell’anima dal potere del denaro: non produsse più caudillos, ma politicanti. Non si vuole dire, con questo, che il caudillo rimanesse immune dalla venalità e dalla corruzione; egli però rivelava una scomoda tendenza ai colpi di testa e manteneva saltuariamente un residuo di dignità. Ciò manca del tutto alla nuova classe dirigente, nella quale sono sempre più frequenti, fra l’altro, elementi di colore e marranos. La vecchia classe criolla in Iberoamerica, nonostante tutto, assumeva ancora come riferimento l’Europa; quella nuova guarda solo a Nuova York e a Miami, con la loro paccottiglia e le loro lucine colorate. Con l’economicismo (la filosofia del far soldi come senso della vita) sono arrivati e hanno messo radici anche coloro che “have technology [hanno tecnologia]” (25) con la conseguenza che tutto il continente sudamericano sta precipitando nell’irreversibile vortice del disastro ecologico, rinforzato da una cancerosa crescita demografica. E il Fondo Monetario Internazionale ha buon gioco su quei paesi che ormai hanno imboccato irreversibilmente la via della terzomondializzazione.

Guardando retrospettivamente la storia dell’Iberoamerica dal 1950 al 1990 circa, è quasi sorprendente che il caudillismo abbia potuto tenere fermo, qua e là, per tanto tempo. Ma è chiaro che alla lunga la sua fine era segnata. Da una parte, crisi di legittimità di tutti i governi iberoamericani che onoravano – e che adesso onorano ancora di più – come ‘padri della patria’ dei torbidi ribelli pagati dagli anglosassoni. Dall’altra, la totale dipendenza dagli Stati Uniti per le forniture belliche; dipendenza della quale gli Americani approfittavano per obbligare i governi iberoamericani a loro invisi a cedere alle pressioni marxiste, anche anche quando le condizioni militari erano favorevoli e le guerre militarmente vinte (caso di Anastasio Somoza in Nicaragua, per esempio). In ultima, molti tra gli ultimi caudillos furono dei ‘semplici’ che caddero nella trappola di credere che l’America si opponesse veramente al marxismo, invece di servirsene come strumento.

Fidel Castro
Fidel Castro

Per concludere, una breve analisi del fenomeno del guerriglierismo, che fu e continua a essere una delle chiavi di volta della politica iberoamericana di questo secolo. Come già detto, gli Stati Uniti si valsero dello sciacallo marxista per i loro fini di sovversione; e non sorprende che i guerriglieri siano stati istallati al potere dall’America soltanto in quei paesi nei quali il governo era ancora in mano a un ‘dittatore militare’ – un caudillo – (Cuba, Nicaragua), mai invece là dove alla presidenza c’erano dei ‘bravi borghesi’ (il resto dell’America centrale, Santo Domingo, Venezuela, Colombia, Perù). Questo fatto, al quale i mass media non hanno mai dato alcun risalto, appare invece molto significativo. Il partigianismo era già stato sperimentato in Europa fra il 1942 e il 1945; non si fece che trapiantarlo in Iberoamerica. Come in Europa, esso si nutrì della classe criminale, che in Iberoamerica era ipertrofica o potenzialmente tale. Il primo esperimento fu Cuba, dove nel 1959 il marrano Fidel Castro (26) fu istallato al potere dagli americani di contro a un caudillo particolarmente inetto, Fulgencio Batista – il quale tuttavia si era mostrato sufficientemente abile per tenere militarmente in scacco Castro per anni, pure contro un’incredibile barriera di propaganda contraria e di aiuti finanziari e militari dati a piene mani ai partigiani. Da allora Cuba divenne la centrale del guerriglierismo per l’America centrale e meridionale e tale rimase fino a tempi recentissimi, quando, parallelamente alla liquidazione dei “socialismi reali”, anche l’uso della guerriglia per fini politici divenne fuori moda. Adesso Fidel Castro va predicando che i tempi sono cambiati, che la ‘via verso la democrazia’ non è più quella delle armi ma quella delle urne (sua dichiarazione a Rio de Janeiro nell’agosto 1993); egli apre il paese al turismo di lusso e fa la corte al Fondo Monetario Internazionale. Insomma, il marrano Fidel Castro ha fatto fino in fondo il suo servizio al grande capitale internazionale.

In Iberoamerica il fenomeno del banditismo c’era sempre stato, ma abbastanza limitato e privo di sfondo ‘ideologico’. Il partigianismo gli prestò una imbiancatura ideologica, mentre i guerriglieri, non più criminali comuni, godettero (e godono ancora) di un trattamento da ‘combattenti’ da parte dei governi dei paesi coinvolti – ciò sotto pressione degli Stati Uniti. Se fino a qualche anno fa i dirigenti guerriglieri potevano ancora sperare di essere istallati al governo dagli Americani (l’ultimo fu Daniel Ortega in Nicaragua), adesso quella possibilità è scomparsa; e da soli essi mai ‘vinceranno’ la guerra. Si dedicano perciò al banditismo puro e semplice, grazie ai cui proventi i dirigenti partigiani fanno una vita da gran signori (27). È improbabile che si arrivi a sradicarli in un futuro prevedibile: delle oligarchie militari totalmente prive del senso dell’onore o del dovere hanno tutto l’interesse di mantenere lo ‘stato di guerra’ perchè così vengono pagate di più, ottengono pensionamenti anticipati e godono di maggior prestigio – e se ‘stato di guerra’ ci deve essere, anche il nemico ha il diritto di essere trattato da ‘combattente’. Non a caso le uniche zone ripulite dalla guerriglia sono quelle dove funzionano milizie private organizzate da proprietari terrieri o semplicemente da comunità contadine che ne hanno avuto abbastanza (semileggendario è diventato negli ultimi venti anni il paramilitar Fidel Castaño, nella Colombia settentrionale): mai l’esercito o la polizia fanno un lavoro ‘completo’. Nelle zone dove esercitano il controllo totale (‘zone liberate’) i guerriglieri taglieggiano tutti: i maestri di scuola, i contadini più miserabili, i giudici, se ci tengono alla pelle, devono pagare una percentuale del loro povero stipendio o dei loro magri guadagni alla rispettiva Central guerrillera. Un altro lucrativo affare per i guerriglieri è la protezione del narcotraffico: e come in tutte le società di delinquenti (per esempio, la mafia) si verificano frequenti attriti, spesso con morti e feriti, fra i diversi gruppi guerriglieri per assicurarsi i migliori affari (28). Trattandosi poi in gran parte di psicopatici – il fondo criminale più profondo e abbietto di società già ipertroficamente criminalizzate -, i partigiani hanno per hobby anche quello di compiere carneficine e di infliggere svariate torture a quei pochi indigeni che ancora rimangono nonchè ad animali selvatici e domestici. Quanto alla forza numerica del partigianismo in Sud America, al momento di stendere queste righe essa può essere stimata a 12 – 15.000 unità in Perù, a forse 20.000 in Colombia, a probabilmente meno di 2.000 in Venezuela.

Legatasi mani e piedi al carro statunitense e colpita in pieno da una galoppante catastrofe ecologica (29), l’Iberoamerica – con la possibile eccezione del suo estremo meridionale – si avvia, a breve scadenza, verso un tenebroso destino.

Note

(1) Una buona visione d’insieme della storia iberoamericana è data nell’agile libretto di Pierre Chaunu: Storia dell’America Latina, Garzanti, 1955.
(2) Questa grande isola, originariamente abitata da Esquimesi, è stata punto di appoggio di operazioni baleniere che vi hanno gettato ciurme di ogni origine, per cui oggidì vi si possono ammirare abitanti dai capelli lanosi, la pelle grigiastra e gli occhi a mandorla che abitano dentro a iglù.
(3) Gallimard, Paris, 1957.
(4) Cfr. Alfredo Jahn, Los aborígenes del occidente de Venezuela, Monte Ávila, Caracas (Venezuela), 1973 (originale: 1927).
(5) Nel più conosciuto dei suoi romanzi, Doña Bárbara.
(6) Rafael Requena: Vestigios de la Atlántida, Tipografía Americana, Caracas (Venezuela), 1932.
(7) A Rafael Requena attinse (senza citarlo) Charles Berlitz quando affermò che davanti allo sbocco dell’Orinoco ci sono i relitti sottomarini di antichissime muraglie megalitiche (“vestigia dell’Atlantide”): relitti che, a quanto sembra, non esistono proprio. Berlitz fece quest’affermazione nel suo – peraltro interessante – libro divulgativo The mystery of Atlantis (Grosset & Dunlap, Stati Uniti, 1974).
(8) Il libro più rappresentativo di Jacques de Mahieu è, probabilmente, L’agonie du dieu soleil, Laffont, Paris, 1974. Ma un’ottimo riassunto di tutta la sua opera è stato dato su “Diorama letterario” (Firenze) di dicembre 1992 (sotto la firma di un certo “Arconte”).
(9) In ciò gli Inca si distinguevano nettamente dagli Aztechi che invece erano un popolo – e non soltanto una casta aristocratica -appartenente al ceppo linguistico náhuatl e strettamente imparentati con i Toltechi, che li avevano preceduti nel dominio dell’altopiano dell’Anáhuac.
(10) Letteralmente: ‘maiali’. Falsi conversi dall’ebraismo al cattolicesimo, i quali così scamparono all’espulsione degli Ebrei dalla Spagna, decretata da Isabella la Cattolica nel 1492.
(11) Su questo argomento si consulti il documentatissimo libro dell’autore messicano Salvador Borrego, América peligra, edizione dell’autore, Città del Messico, 1976.
(12) Cfr. Jean Lombard, La montée parallèle du capitalisme et du collectivisme, la face cachée de l’histoire moderne, edizione dell’autore, Madrid, 1984.
(13) Horacio Cabrera Sifontes, La verdad sobre nuestra Guayana esequiba, Monte Avila, Caracas (Venezuela), 1988.
(14) Cfr. Salvador Borrego, op. cit.
(15) Su quanto sopra cfr. Jean Lombard, op. cit. – Un capitolo della storia ispanoamericana al quale non è stato dedicata praticamente alcuna ricerca è quello del rifluire verso la Spagna, dopo la cosiddetta ‘indipendenza’, di certune fra le migliori famiglie dell’aristocrazia criolla, fatto che si verificò e che, almeno in qualche caso, può essere documentato. C’è da credere che attraverso questo processo l’Iberoamerica di lingua spagnola abbia perso una parte importante di quella che, dal punto di vista genetico, era stata la sua migliore popolazione.
(16) Francisco Herrera Luque, Boves el urogallo, Editorial Fuentes, Caracas (Venezuela), 1975.
(17) Cfr. Jean Lombard, op. cit.; Pierre Chaunu, op. cit.
(18) L’intenzione di Napoleone III quando, negli anni Sessanta del XIX secolo, tentò di fare Massimiliano d’Asburgo imperatore del Messico, era stata quella di creare una monarchia messicana legata alla Francia che potesse fare da ostacolo all’egemonia anglosassone nei due continenti americani. Il progetto fu sventato da Benito Juárez, adesso osannato come un secondo ‘padre della patria’, che fu in realtà un volgare agente degli Stati Uniti (cfr. Pierre Chaunu, op. cit.).
(19) Cfr. Salvador Borrego, op. cit.
(20) Cfr. Horacio Cabrera Sifontes, op. cit.
(21) Cfr., per esempio: E. M. S. Danero, Toda la historia de las Malvinas, Editorial Tor, Buenos Aires, 1964; Paul Groussac, Las islas Malvinas, Comisión protectora de bibliotecas populares, Buenos Aires, 1936.
(22) Al tempo della colonia portoghese, i cosiddetti bandeirantes erano stati delle bande di meticci della zona di Sao Paulo che si dedicavano alla caccia agli schiavi e a commettere ogni sorta di soprusi ai danni degli Indios dell’interno. A essi si opposero con successo gli aborigeni Guaraní del Paraguay, armati e organizzati dai Gesuiti spagnoli.
(23) Gli inglesi avevano usato delle tecniche analoghe, nel Settecento, contro i Pellirosse in America del Nord. Cfr., per esempio, Philippe Jacquin, Storia degli Indiani d’America, Mondadori, Milano, 1977.
(24) Quel mondo crepuscolare che fu quello di contatto fra gli ultimissimi Indios ancora riconoscibili come tali e il ‘progresso’ è descritto bene in un libriccino in lingua italiana: Giorgio Costanzo, Gli Indiani dell’Orinoco, Universale Cappelli, Rocca San Casciano, senza data di pubblicazione (anni Cinquanta). Cfr. anche Volkmar Vareschi, Geschichtslose Ufer. Auf den Spuren Humboldts am Orinoko, Bruckmann, München, 1959.
(25) Qualcuno lo ricorderà certamente: negli anni Settanta sulle linee aeree dei continenti americani c’erano spesso dei dépliants con la fotografia di una splendida foresta tropicale e la ‘didascalia’: you have jungles, we have technology [voi avete giungle, noi abbiamo tecnologia]. Il dépliant procedeva poi a spiegare che per mezzo di quella tecnologia si potevano trasformare quelle giungle in centri turistici, in cartiere, ecc.: tutte cose che give you money [cose che vi rendono denaro].
(26) Sulla ‘marranità’ di Fidel Castro (cosa in ogni caso vastamente risaputa in Iberoamerica) cfr., per esempio, Jean Boyer, Los peores enemigos de nuestros pueblos, Ediciones Libertad, Bogotá, 1979. Di utile riferimento sulla presenza di marranos nella politica iberoamericana è la rivista “Temple”, di Lima, diretta dall’avv. Gastón Ortiz Acha.
(27) Una parola va detta a proposito di quell’Abimael Guzmán, peruviano, fondatore del gruppo partigiano Sendero Luminoso e suo dirigente principale fino al 1992 allorché egli e il suo stato maggiore furono catturati a Lima sotto circostanze poco chiare. Il Guzmán, di origine spagnola e di famiglia facoltosa di proprietari terrieri, si trovò a essere impoverito dalle riforme sociali portate a termine dalla dittatura militare. Fu proprio allora che decise di mettere in piedi il suo movimento, a scopo di vendetta e di volgare guadagno personale. (Non gli si può tuttavia negare la qualità di sottile psicologo, avendo egli capito fino in fondo l’anima dell’Indio, che ha saputo brillantemente raggirare per i suoi scopi personali).
(28) Tanto la guerriglia come i narcotrafficanti ricevono le armi in gran parte da Israele. Illuminante in proposito è il libro di Claire Hoy e Victor Ostrovsky (By way of deception, Arrow Books, London, 1990); ma la cosa è da lungo tempo un banale fatto di cronaca. Massiccia è la presenza di ‘istruttori’ israeliani al servizio della malavita colombiana; qualche dato interessante in riguardo è riportato da Luis Cañón: El Patrón: vida y muerte de Pablo Escobar, Planeta, Bogotá (Colombia), 1994.
(29) Riguardo alla situazione ecologicamente disastrata dell’Iberoamerica, si consulti: Silvio Waldner, La deformazione della natura, Ar, Padova, 1997.

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Questo brano costituisce un estratto del libro Stati Uniti, Iberoamerica, Sudafrica. Tre messe a punto.

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