Lezioni di stile (e di politica) secondo Clint Eastwood

Sembrava che la sua carriera da attore spilungone e un po’ dinoccolato dovesse concludersi molto presto con le apparizioni in film americani non di prima scelta o come cowboy della serie televisiva Rawhide, con i ruoli da protagonista nei western di Sergio Leone (nella bellissima “trilogia del dollaro”) e dopo la saga iniziata da Don Siegel dell’ispettore Callaghan, quello con la 44 Magnum. Ma per fortuna non è andata così. A ogni nuovo film Clint Eastwood, che possiede un veo carisma di granito, una splendida sensibilità registica ed è infine un grande architetto di storie che hanno fatto conoscere l’universo americano in ogni sua piega e tempo, mostra di possedere un talento che in pochi erano disposti a riconoscergli soltanto fino a qualche anno fa. Un decennio per l’esattezza, già perché lettori e giornalisti del Corriere della Sera grazie a una interessante classifica (resa nota nei giorni scorsi), hanno stabilito che Clint è il miglior regista straniero del primo decennio del terzo millennio. Alla faccia di chi, fino agli anni ’80, non avrebbe giocato un cent sull’ex giovinotto californiano di bella presenza con cappello da cowboy e criniera da stella nazionalpopolare dei fotoromanzi.

Era ovvio tuttavia che noi ci scommettevamo da tempo sui musi lunghi di questo eroe solitario, attore, regista dal 1971, già produttore e anche musicista jazz, in cerca di avventura, amante nei suoi film della “bella morte” come conclusione di una vita al servizio degli ideali – pochi ma buoni – sensibile agli affetti in positivo e alle fraterne pacche sulle spalle più che ai soggetti in stile melò; perché in fondo scommettevamo su un burbero dal costante bisogno del volto di Dio come per ogni eroe tormentato che si rispetti. Un tipo affatto enigmatico insomma, universalmente conosciuto come un libertario con simpatie politiche a destra (ché Clint Eastwood, era stato anche sindaco indipendente di una cittadina californiana di nome Carmel, oggi non si riconosce però in alcun partito politico). Un «ossimoro vivente» lo definisce Giulia Carluccio che ha curato una raccolta di saggi sui suoi ultimi cinque film da regista (Clint Eastwood, Marsilio, pp. 172, € 12,00).

Interessante comunque la didascalia firmata da Paolo Mereghetti sul Corriere riguardante dettagli e motivazioni circa la scelta di Eastwood come miglior regista del decennio 2000-2009. Il titolo per esempio è già molto chiaro: «Il trionfo di Clint». Leggiamo: «Forse non poteva essere diversamente. Solo la regola che imponeva di scegliere un solo titolo per regista ha impedito che a contendere il primato ci fossero altri film suoi, da Million Dollar Baby a Lettere da Iwo Jima fino a Gran Torino. Clint Eastwood è decisamente il regista del decennio e Mystic River ha vinto a mani basse. Solo Spike Lee, con un film altrettanto magistrale, La 25a ora, ha cercato di insidiarlo…». Una vittoria con nessun se e nessun ma quella di Clint, il giusto premio per un decennio d’oro, e per il rilancio del regista già iniziato negli anni ’90 con il grande western Gli spietati che ottenne ben nove nomination all’Oscar, e che adesso sta per concludersi con l’uscita del nuovo film sulla vittoria del Sudafrica nella coppa del mondo di Rugby (Invictus), un film dedicato a Nelson Mandela con Morgan Freeman e Matt Damon. Attesissimo come ormai d’abitudine in Italia, sarà nelle nostre sale martedì 26 gennaio.

Negli ultimi tempi Eastwood ha lavorato su generi e argomenti molto seri e impegnati, l’amicizia, il razzismo, la società multietnica, il diritto alla vita, gli affetti, la voglia di riscatto e la vecchiaia. E perfino su argomenti forti come gli abusi sessuali (Mystic River del 2003, tratto dal romanzo La morte non dimentica di Dennis Lehane, considerato dalla giuria del Corsera il miglior film di Eastwood) e l’eutanasia (Million Dollar Baby del 2004), con una leggerezza da far invidia a qualsiasi uomo di cinema di nostra conoscenza (mettiamola così: la levità di un Chaplin e l’impegno di uno Scorsese). Perché uno dei pregi maggiori di questo quasi ottantenne – è nato nel maggio del 1930 – figlio di un operaio è la capacità di raccontare qualsiasi storia, di proiettare sullo schermo immagini di ogni “tipo” – dalla guerra alla xenofobia – senza calcare la mano, senza lasciarsi andare a eccessi, senza andare fuori dalle righe. Le pellicole di Clint rispettano quella sottile misura del silenzio come regola di un cinema di assoluta qualità e di considerazione per la neutralità dello spettatore. Il cinema di Eastwood entra dentro non con la forza dell’esasperazione – con la sparata grossa – ma con quella della realtà da narrare periodo dopo periodo, e dell’intreccio tragico e poetico insieme, complicato ma non labirintico e per nulla ideologico. Probabilmente è stato questo intreccio di classe, talento e mestiere a far schizzare Eastwood al primo posto nelle classifiche dei più grandi registi dei nostri tempi, ben al di là di Mike Nichols e Brian De Palma per intenderci.

Valga per tutti il capolavoro eastwoodiano del 2006 Flags of our Fathers, un film che è la prima parte ideale di un progetto comprendente il successivo e “reciproco” Lettere da Iwo Jima (del 2007) e legato a un celebre episodio di guerra come lo sbarco dei marines americani appunto a Iwo Jima (l’isola solforosa del Pacifico) durante la seconda guerra mondiale. La complessità del film è dovuta alla varietà dei temi trattati all’interno di un clima di generale e autentico cameratismo sporcato da alcune “contaminazioni” fra le quali quella dell’importanza delle immagini fotografiche come strumento di propaganda. La stra-famosa foto con i quattro marines che issano la bandiera americana su una collina dell’isola solforosa è in realtà un sorta di bluff occasionale sfruttato dal governo stelle-e-strisce per ottenere crediti sufficienti per poter continuare la guerra. L’obiettivo di Clint modesto e autentico riprende il destino di tre sodati americani cui capita la fortuna – ma non solo di questa si tratterà – di passare per degli eroi nazionali. Ma Flags of our Fathers è soprattutto un film di inquietante realismo e di elegante e antiretorico antimilitarismo colmo di immagini crude. È la storia di un falso storico che coinvolge dei falsi eroi in sostituzione dei veri protagonisti di una tragica scena di guerra.

Da qui l’idea che sottende allo svolgimento della pellicola: gli eroi non sono sempre quelli che vengono spacciati per tali (e viceversa). Che è poi la continuazione con altri mezzi del tema sviluppato da Eastwood nel film premiato con due Oscar e un Golden Globe, vale a dire forse il lavoro più bello e “maledetto” del regista di San Francisco che precedette i suoi film “giapponesi”: Million Dollar Baby, che tanto piacque a critica e pubblico (straordinaria peraltro l’interpretazione della star femminile Hillary Swank). Qui la capacità dei protagonisti, una donna boxeur e il suo anziano allenatore cioè lo stesso Clint, di rendere umane le loro azioni passa quasi del tutto inosservata – ma non allo spettatore! – perché mescolata alla crudeltà di un mondo che non può non sconfiggere chi veste i panni del “buono”. Una crudeltà messa in scena da un destino che conduce fino al penultimo dei traguardi e fino all’ultimo impossibile ostacolo affrontato con la decisione di andare incontro a una morte dignitosa. Si tratta di due lavori certamente pessimisti – altra cifra stilistica di Clint – come peraltro l’ultimo dei film eastwoodiani Gran Torino, proiettato nelle sale nel trascorso 2009, nel quale sembra che l’estremo atto di eroismo di un vecchio reduce malato, uomo di destra doc, sia la logica conclusione di una trama ove solidarietà e calore umano appaiono i valori possibili nell’epoca della società multietnica e multireligiosa. Non a caso, il critico Gianni Canova ha tratteggiato Walt Kowalski, il personaggio interpretato dallo stesso Clint, come il «revenant di Callaghan nell’era del disincanto e della globalizzazione». Un film di spietato realismo perché nessuno come Clint il libertario è riuscito a scorgere fra i generosi e i miseri le pieghe dolorose della nostra contemporaneità. E per aver mostrato ciò, l’ormai vecchio “pistolero senza nome” è diventato il più bravo fra i narratori in celluloide.

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Tratto dal Secolo d’Italia del 13 gennaio 2010.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

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