Le rune e il sacrificio

Si può pacificamente affermare che la summa del patrimonio poetico, mitologico,  speculativo e sapienziale dell’antica Tradizione Norrena è contenuta nelle raccolte medievali riunite sotto il titolo canonico di Edda, redatte nell’Islanda della prima metà del XIII secolo ma recanti in esse il patrimonio culturale di un ben più lontano passato ancestrale.

Con tale titolo (di origine incerta, forse una antica forma norrena per «ava», «antenata») si usa indicare due opere distinte: una in prosa, scritta intorno al 1220 dal grande poeta Snorri Sturluson e perciò nota anche come Snorra Edda (Edda di Snorri) o Prose Edda, la cui struttura si divide in parti argomentative sull’arte della composizione poetica e numerose narrazioni di episodi mitologici, e la cosiddetta Edda poetica o antica, o Canzoniere Eddico (islandese: Eddukvœdh).

Anch’esso compilato in Islanda da uno o più autori anonimi, il Canzoniere Eddico è una composita silloge di poemi ampiamente precedenti l’epoca di redazione della raccolta, il XIII secolo in cui l’isola diviene un fiorente centro culturale sotto l’egida della corona norvegese. Proprio alla Norvegia è riconducibile la principale matrice dei suddetti testi, in realtà debitori di un vasto e condiviso retaggio culturale proveniente dalle varie aree del territorio scandinavo (comprese alcune zone delle isole britanniche, come l’Irlanda, temporaneamente occupate dall’espansione vichinga nel corso del Medioevo).

In questo modo l’origine e la redazione dei testi «eddici» si distingue dall’altro grande filone dell’epica norrena, quello dei cosiddetti poemi «scaldici» (incentrati sulle gesta degli eroi, storici o leggendari, e sulle origini delle dinastie reali). Questi erano appunto opera degli skald, i poeti di corte attivi in particolare dalla fine del IX secolo, grazie soprattutto al grande fermento culturale e letterario presso il regno di Harald I Bellachioma, unificatore della Norvegia e fautore della colonizzazione d’Islanda.

I poemi appartenenti a questa tipologia venivano quindi scritti per precisi scopi celebrativi da autori riconosciuti e prestigiosi (come Ari Thorgilsson, Bragi Boddason il Vecchio o il celebre Egill Skallagrimsson), mentre le Edda duecentesche si rivelano un immenso compendio di miti ancestrali tramandati oralmente per secoli, e allo stesso tempo la rielaborazione di questa eredità (in un ovvio processo di modifica nella trasposizione dalla dimensione orale a quella scritta). Emergono così dalle loro pagine storie del tempo mitico in cui agiscono le figure archetipiche degli dèi e degli eroi, di uomini e mostri, di nani, elfi e draghi, alle prese non solo con battaglie, conquiste, cadute e trionfi, ma anche con i poteri della magia e della divinazione (comprese alcuni canti contenuti nell’Edda poetica relativi alla Saga dei Nibelunghi, la saga epica che nell’Austria feudale dello stesso periodo verrà raccolta nei novemila versi in medio-alto tedesco del Nibelungenlied).

Più precisamente, l’Edda poetica o antica è costituita dalla raccolta di 29 brani di varia lunghezza e tipologia, che potremmo quindi approssimativamente distinguere (con una terminologia latina/romanza forse un po’fuorviante) in “poemi” e “carmina” o “canzoni”, fino a brani di poesia didascalica che si possono tradurre come “insegnamenti”. Indicativamente, il metro tradizionale più utilizzato nei testi è il fornydhislag, ovvero il metro epico, alla lettera «delle antiche storie».

Il corpus originale dell’Edda è contenuto in un famoso manoscritto noto come Codex Regius N. 2365. A lungo erroneamente attribuito all’erudito Sæmundr Sigfússon inn fróði ovvero «il saggio» (1056-1133), autore della cronaca Historia Regum Norvegicorum, il testo è rimasto per secoli proprietà dell’Università di Copenaghen prima di venire riportato in Islanda negli anni Settanta del Novecento.

I brani della raccolta sono fondamentali per avere un’ampia panoramica tanto sulla visione della vita quanto sul mondo mitologico e religioso della civiltà norrena, dal quale emerge nella sua centralità la complessa figura di Odino (Oðinn, Wotan o Wodan nell’antica nomenclatura in uso presso i Germani continentali) e la tradizionale divisione fra i due gruppi di deità autoctone della cultura scandinava. Tra gli Asi (Æsir o Asen) rientrano per esempio Heimdallr, progenitore degli uomini e guardiano del regno ultraterreno di Asgardhr, che suonerà il corno Gjallarhorn per annunciare la fine di questo mondo; il possente Thorr armato del martello Mjollnir, principio della forza virile in lotta contro le potenze oscure (non casualmente Tacito, nella Germania, lo assimila ad Ercole); il saggio e misericordioso figlio prediletto di Odino, Baldr o Balder; l’arcaico dio delle battaglie e del diritto, Tyr (Teiwaz in germanico), identificato con il Marte romano. Anche l’infido signore dell’oltretomba Loki, almeno in diversi miti, viene curiosamente ascritto alla categoria degli dèi Asi.

Al gruppo dei Vani (Vanir, Vanen), come Njordhr, Freyr e Freya (quest’ultima, la più celebre di un nutrito corteo di divinità femminili), sono invece associati i cicli della natura, le potenze della terra e delle acque e le relative manifestazioni di fertilità e prosperità: nel nome della dinastia divina si nota infatti la radice indoeuropea *wen, la stessa alla base delle parole latine «Venus» e «venustas».

Il conflitto cosmico tra queste due classi di entità divine avviene nei tempi primigenei, e la loro conseguente pacificazione garantisce l’equilibrio dell’universo (che nel mito norreno è suddiviso in nove mondi, una misteriosa cifra simbolica che tornerà, come vedremo).

Principale rappresentante della dinastia degli Asi, ma allo stesso tempo al di sopra dell’intero “pantheon” di tradizione germanica e norrena, il dio Odino appare come la tipica figura di deus maximus, che dal suo trono nel Valhalla (o Walhalla, «l’alta sala») osserva il divenire del mondo intero e la condotta di ogni uomo.

Primo e unico re delle gerarchie divine fino al giorno finale, in cui avverrà il Ragnarök, il Crepuscolo degli Dèi (più correttamente, la «Caduta degli Dèi» o il «Fato degli Dèi»), questa supremazia del dio è evidente in suoi tipici appellativi come Alfoðr o Valfoðr, il «padre di tutti», e nel suo essere rappresentato dalla morte eroica, dalla furia distruttiva e sostanzialmente dall’attività bellica (nonostante ciò accada in una fase storica relativamente recente, surclassando in questo ruolo l’immagine del più antico Tyr). Era infatti credenza tradizionale che i temibili guerrieri noti come berserkr e ulfeðnar, reparti speciali di fanteria celebri per la propria autentica furia animale (rispettivamente, dell’orso e del lupo), fossero ispirati da Odino.

Adamo di Brema, nel XI secolo, narrando dei culti pagani ancora presenti nella Svezia dell’epoca (un tema in parte toccato anche nel grande film La fontana della vergine di Ingmar Bergman), riporta che viene venerato «Odin, sive furor». Effettivamente, il nome contiene la stessa radice lessicale del termine norreno óðr; come aggettivo, la parola può significare «folle» o «posseduto», ma come sostantivo viene invece inteso come «spirito», «pensiero» e perfino «poesia», ed è indicativo a questo proposito che il citato skald Egill Skallagrimsson, secondo la leggenda, fu anche guerriero impegnato nelle cerchie dei berserkr.

Odino è infatti il protagonista di numerose narrazioni mitiche in cui i suoi atti sembrano rappresentare il tipico anelito umano al trascendente e alla volontà di ottenere sapienza e saggezza (e risulta chiaro, alla luce di ciò, perché Tacito abbia identificato la figura del dio con quella di Mercurio, una analogia che riemerge nella moderna dicitura anglosassone del mercoledì, Wednesday, «giorno di Wotan»). Nella seconda parte dell’Edda di Snorri, che si propone lo scopo di “manuale” per la preparazione degli skald, si ritrova per esempio un riferimento al mito di Odino che raggira la gigantessa Gunnlöð per impossessarsi dell’idromele, la bevanda sacra che permette di acquisire la padronanza della poesia (e che, non certo casualmente, pare fosse tra le componenti del rituale di invasamento a cui si sottoponevano gli ulfeðnar e i berserkr).

Anche dai testi dell’Edda Poetica, in particolare i due posti in apertura della silloge, viene restituita un’immagine di Odino come dio della conoscenza segreta e conseguentemente maestro dell’arte poetica: si tratta del carme intitolato Völuspá o Völospá (traducibile come «la profezia della Veggente» oppure «i detti di Colei che vede») e del poema sapienziale Havamál («il discorso – o i discorsi – dell’Alto» o «dell’Eccelso»). Entrambi i testi riportano precisi riferimenti, soprattutto nel caso di quest’ultimo, a un celebre episodio mitologico: il rito sacrificale che Odino avrebbe praticato su sé stesso per raggiungere la sapienza delle sacre rune.

Come nel caso di tutta la grande poesia antica, l’esegesi e la traduzione dei poemi norreni sono da sempre problematiche, anche considerando le ermetiche e oscure espressioni linguistiche che caratterizzano questa tradizione letteraria (in cui è tipico l’utilizzo di complesse ed ardite metafore chiamate kenningar, singolare kenning, volte a indicare in particolare ciò che concerne la sfera del divino e del mito, in uno stile che ricorda l’epica omerica); è il caso di tenere conto di ciò accostandosi a un testo poetico come la Völuspá, scritto sottoforma di monologo da parte di una enigmatica sacerdotessa-veggente, appunto la vǫlva.

Essa si rivela una figura della cultura norrena paragonabile a quella della pizia delfica nella Tradizione greca: Odino si rivolge alla donna, in un evidente fenomeno di ispirazione mantica, per permetterle di recitare un carme dal contenuto cosmogonico, profetico ed escatologico («una delle più spettacolari e variopinte cosmogonie nella Letteratura mondiale», nelle parole dello studioso Rudolf Pörtner).

Il successivo Havamál si presenta invece come un poema gnomico in cui il dio in persona elenca una lunga serie di massime, perlopiù di carattere ermetico ed esoterico; si veda per esempio alla strofa CLII, dove si accenna a un misterioso e pericoloso fuoco che divampa nell’alta sala del Valhalla: l’attenta analisi di Antonio Costanzo evidenzia l’universalità del simbolo della fiamma che solo Odino può controllare, ovvero il medesimo Fuoco Sacro di molte altre tradizioni, da quello di Ahura Mazda al tapas indù dal potere trasmutativo, così come l’inestinguibile fuoco di Vesta a Roma e la Fiamma nella liturgia di Mithra.

Jan De Vries ha peraltro sottolineato come il poema assumesse la valenza di “manifesto” esoterico per l’attività di antiche confraternite devote al culto odinico, probabilmente presso gli ordini dei berserkr e ulfeðnar, per quanto una parte del testo risulti di lettura più accessibile nel suo dedicarsi a una lunga sequenza di regole morali sull’ordinamento dei doveri militari, delle occupazioni della vita quotidiana, il corretto comportamento nei rapporti civili e nelle relazioni tra uomo e donna. L’Havamál si dimostra in questo modo un documento culturale e psicologico estremamente interessante per comprendere la società medievale di luoghi come la Norvegia e l’Islanda: emergono evidenti «le espressioni di una mentalità tribale e di sentimenti atavici collettivi», come ha scritto Mario Gabrieli.

È verso la conclusione del testo si apre la sezione detta Rúnatal, la «dissertazione sulle rune» compresa tra le strofe 138 e 145. Qui la voce di Odino si rivolge all’enigmatico ascoltatore del canto ovvero Loddfáfnir, evidentemente un mitico poeta, per narrare la vicenda del proprio auto-sacrificio attuato per ottenere la padronanza dei simboli runici (un episodio che, secondo la strofa 145, sarebbe avvenuto prima della venuta dell’umanità, sostenendo così un’origine divina e preumana della suddetta scrittura) e redarguirlo sull’ardua conoscenza e pratica del segno scritto:

«Rune tu troverai / E caratteri chiari / Caratteri molto grandi / Caratteri molto saldi / Che dipinse il possente poeta / E fecero gli Dèi / E incise la Voce degli Dèi [cioè Odino stesso, n.d.a.]»

(strofa 142, traduzione di Piergiuseppe Scardigli).

L’atto del sacrificio di Odino è un’esperienza che assume i crismi di una prova di iniziazione dalle implicazioni ascetiche e mistiche: l’apprendimento di una simbologia sacra e misteriosa (le rune) è successivo alla parziale perdita della vista del dio e alla sua temporanea impiccagione, per nove notti, sull’Yggdrasil, l’albero cosmico che rappresenta la connessione tra il mondo terreno e celeste; solo allora Odino potrà accingersi a bere l’acqua che sgorga dalla fonte di Mímir, dove lascerà l’occhio mutilato, e accedere alla verità metafisica. Come nel racconto della conquista dell’idromele, un altro gigante, ovvero un appartenente alla razza degli esseri più antichi del mondo secondo la mitologia nordica, è il custode della sorgente alla quale Odino si abbevera per perpetrare il sacrificio iniziatico, un posto misterioso situato tra le radici d’Yggdrasil.

Pietra runica commemorativa di età vichinga da Stutby (contea di Stoccolma / Svezia). Fonte https://commons.wikimedia.org/wiki/File:S%C3%B6_226,_Stutby_1900.jpg

Il nome della mitica fonte merita un’attenta considerazione. La sua radice indoeuropea presenta infatti una evidente connessione con altri termini indicanti la «memoria», come il greco μνημοσυνη e soprattutto il latino memor; quindi, in una singolare analogia con la dottrina platonica della reminiscenza, il sapere che Odino raggiunge attraverso il sacrificio non è che un «ricordo» di tutto ciò che è normalmente dimenticato dall’essere umano in questo stato di esistenza: in greco infatti la «Verità» è propriamente «Α – λήθεια», la «non- dimenticanza», il «non-oblio».

Proprio nella Tradizione ellenica troviamo versioni differenti dell’antico mito della nascita delle Muse, le dee del canto, delle arti e delle scienze. Se nella versione più arcaica del mito esse sono tre (Melete, Mneme e Aoidé, oppure Mneme, Telsinoe e Aoidé), nell’altra se ne ritrovano nove, e nascono dall’unione di Zeus con, appunto, la dea Mnemosine dopo nove notti d’amore.

L’analoga simbologia con le notti del sacrificio odinico è quindi chiara e sorprendente, ancor di più se si tiene conto che anche il dio Heimdallr, saggio e chiaroveggente, è nato da nove madri e che nell’esordio della Völuspá la vǫlva dichiara solennemente: «…Tu vuoi che io, o Valfoðr, narri compiutamente / Le antiche storie delle creature, le cose che prime ricordo. / Ricordo I giganti, nati in principio, quando, un tempo, mi dettero cibo. / Nove mondi io ricordo, nove interni sostegni / E il grande frassino che penetra la terra…» (strofa 1-2, traduzione di Piergiuseppe Scardigli).

Ancora, le affinità continuano: se Huginn e Muninn, i due corvi che seguono Odino nelle battaglie e nelle peregrinazioni, sono infatti «il pensiero» e «il ricordo», coloro che informano il dio di ciò che accade (e che è accaduto) nel mondo, vi è l’immagine di due grandi lupi, Geri e Freki, che vigilano il trono del dio nella grande sala del Valhalla. Si noti come Apollo, dio ellenico della splendente luce solare, nonché della poesia e della mantica proprio come Odino, abbia come suo principale animale-simbolo il lupo, in una apparente contraddizione con la sua natura di creatura legata alle forze notturne (ma la forma del suo nome, λυχος, denota la radice *lyk, la stessa del latino lux…).

Sacro ad Apollo come a Marte, la femmina di lupo presiede infatti alle origini di Roma, in quanto Romolo attua il rituale iniziatico per eccellenza: quello di porre il limes, di tracciare il solco di un nuovo inizio. È interessante ricordare inoltre come Macrobio, nei suoi Saturnalia, racconti di una scultura trifronte un tempo situata nel tempio di Serapide, in Alessandria: la testa centrale, di leone, rappresentava il tempo presente e ciò che conosciamo; le due teste laterali di lupo, invece, stavano a significare due forme dell’ignoto, passato e futuro: ciò che è stato dimenticato e ciò che ancora deve avvenire.

In questo modo si comprende perché il lupo, creatura sciamanica per definizione (i guerrieri ulfeðnar posseduti dal dio si “trasformavano” assumendo caratteristiche lupesche, anche fisicamente, indossando la pelliccia dell’animale) e custode della conoscenza oscura, venisse considerato tanto prossimo ad Odino, il quale era riuscito a raggiungere tale conoscenza; del resto soltanto un lupo, ovvero il terribile Fenris o Fenrir che si scatenerà al sopraggiungere del Ragnarök, potrà affrontare Odino e ucciderlo.

Per quanto riguarda il sistema di scrittura runico (di cui se ne occuparono, tra gli altri, lo studioso danese Ole Worm al quale si deve un primo studio linguistico-scientifico sull’argomento risalente al 1636, e il grande germanista e scrittore Jacob Grimm, autore del saggio Über Deutsche Runen), è provato che tra le culture germaniche e nordiche i simboli runici fossero già in uso almeno dal secondo secolo dopo Cristo, ben prima che l’alfabeto latino (o quello gotico tramite la Bibbia attribuita al vescovo Ulfila, risalente al IV secolo) raggiungesse le coste del Baltico e del Mare del Nord grazie ai calamai e alle miniature degli annalisti cristiani.

I caratteri runici, infatti, furono adottati ancora prima dell’inizio della cosiddetta era vichinga nelle varie aree di civiltà norrena (Danimarca, Norvegia e soprattutto Svezia, dove è stato rinvenuto il maggior numero di iscrizioni, e in seguito Islanda), per poi attraversare varie fasi di sviluppo che hanno portato a tre differenti serie alfabetiche sviluppate nel corso di più di un millennio, tra (almeno) il terzo e il quattordicesimo secolo.

La matrice dell’alfabeto runico (chiamato anche futhark, dal suono della pronuncia delle prime sei lettere) deriverebbe comunque da zone ben più meridionali: le rune sono molto probabilmente una emanazione e una rielaborazione di segni appartenenti agli alfabeti nord-etruschi, dell’alfabeto latino e di alcuni sistemi grafici usati dalle popolazioni celtiche delle Alpi.

Le iscrizioni venivano incise su materiali come pietra, osso e legno, assumendo sia un valore fonetico che ideografico: in questo modo, desumendo qualche esempio dal sistema runico più recente (detto anche sistema nordico, in uso appunto presso le società norrene dal IX al XIV secolo) la runa Hagall può essere letta come fricativa sorda <h>, e ideograficamente indicare il concetto di «grandine»; così come la sibilante sorda  <s> è resa con il segno Sol che trasmette anche il significato di «Sole».

È indicativo che, nonostante il fatto che quasi tutta la letteratura norrena pervenutaci risalga a un periodo in cui la stragrande maggioranza delle popolazioni scandinave aveva ormai accolto il Cristianesimo (il pieno e il basso Medioevo), i simboli e gli archetipi della Tradizione autoctona fossero naturalmente tutt’altro che annientati, bensì riadattati e “filtrati” attraverso la nuova visione religiosa (a prescindere dai casi di esplicita sopravvivenza dei culti ancestrali, di cui testimonia Adamo di Brema). In questo modo, così come venivano raffigurate scene mitologiche per adornare gli esterni in legno delle chiese norvegesi, la familiarità dei segni runici era tale che riferimenti ad essi, per quanto fugaci, riemergono addirittura nella contemporanea poesia cristiana.

È il caso per esempio dell’anonimo Sólarljóð, grande poema escatologico del XIV secolo. Si tratta di una tipica «visione» medievale, narrante un angosciato e pittoresco viaggio d’oltretomba (per cui si è cercato il paragone con l’Inferno dantesco), risalente al XIV secolo, in cui troviamo il passaggio «Il Sole vidi, rigato di sanguinanti rune» (strofa 40, traduzione di Mario Gabrieli).

In ogni caso, nonostante i controversi problemi sulla loro origine, è unanimamente riconosciuto che nella cultura norrena le rune costituirono una autentica crittografia simbolica, e per questa ragione il loro utilizzo in operazioni di natura magica e divinatoria era molto rilevante, come del resto suggerisce l’etimologia del sostantivo antico germanico run, cioè «segreto» o «mistero».

A questo proposito va infine ricordata l’opera del controverso studioso olandese Herman Wirth (1885-1981), che tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, riprendendo le teorie storico-antropologiche di autori come J.J. Bachofen e Bala Ghandara Tilak, condusse dei personali e rivoluzionari studi raccolti nei volumi Der Aufgang der Menscheit (L’ascesa dell’umanità) e Heilige Urscrift der Menscheit (Il sacro proto-linguaggio dell’umanità). I testi di Wirth sono rigorosamente basati su una enorme quantità di materiale archeologico, epigrafico, filologico e mitologico, e giungono a sostenere la teoria che proprio le rune siano in realtà l’ultima propaggine della scrittura sacra di una preistorica civiltà iperborea risalente alla fine del Paleolitico superiore, quindi attorno al decimo millennio a.C. (il termine dell’ultima glaciazione globale), della quale le tradizioni indoeuropee costituirebbero la diretta eredità, per quanto lontana e differenziata.

Riprendendo il testo dell’Havamál, è fondamentale il fatto che Odino svolga il suo rito sacrificale impiccandosi ai rami del citato Yggdrasil, il frassino dell’universo. L’albero sacro della tradizione norrena (e germanica in generale, poiché anche nella cultura sassone antica ricorre l’analogo simbolo del frassino, che assume il nome di Irminsul), non a caso un sempreverde immagine di vita imperitura che sopravvive alle tenebre invernali, è l’axis mundi che indica una diretta connessione tra Terra e Cielo, tra visibile e invisibile. Le sue radici affondano nel regno infernale di Helheimr, le regioni oscure dell’oltretomba che si rivelano però misteriose custodi di grandi cose: è lì infatti che si trovano le sorgenti di Urdhr e di Mímir, dove è nascosto il corno di Heimdallr e dove dimorano le tre Norne del destino (il corrispettivo norreno delle Moire e delle Parche, altra evidente affinità con le civiltà classiche e retaggio di una stessa Tradizione originaria).

Dall’albero sono retti i nove mondi che costituiscono l’universo, ovvero: Helheimr, sottostante la regione abitata dagli Elfi, Alfar, la quale avvolge al di sotto e al di sopra il Midhgardhr, ovvero la Terra di Mezzo assegnata agli uomini e circondata dalle immense spire dell’omonimo serpente cosmico. All’estremo Nord di essa si estende il mondo del ghiaccio eterno, il Niflheimr, mentre a Sud fiammeggia il regno del fuoco Muspellheimr; lo Iothunheilmr si apre ad Est e la sede dei Vani Váneheimr ad Ovest, mentre oltre gli stessi punti dell’orizzonte inizia lo Uthgardhr, il «regno esterno» dimora di giganti e demoni. Allo zenit, nell’alto dei cieli, si erge il regno di Asgardhr ove l’autorità suprema è appunto attribuita ad Odino.

L’importanza del dio e la sua stretta associazione all’equilibrio del cosmo è sottilineata dal nome stesso del frassino, che siginifica letteralmente «il destriero di Yggd». Yggd o Yggr non è altro che uno dei molti nomi di Odino, e una ardita kenning che può quindi assumere anche il significato secondario di «forca», riferendosi direttamente al sacrificio del dio narrato nello Havamál.

Come il dio Tyr nei tempi antichi diede in pegno la sua mano per tenere a bada la furia del lupo Fenrir, che una volta liberato scatenerà caos e distruzione, nel rituale Odino sacrifica a Mímir un occhio e la propria vita (per quanto divina, ma nel racconto mitico il dio assume tratti effettivamente molto umani) impiccandosi alle fronde dell’albero cosmico.

Solo così, perdendo parte di quella vista che percepisce solo le apparenze esteriori, e infliggendosi armato una morte volontaria e temporanea il dio risorge e diviene in grado di chiamare le rune a sé stesso:

«Lo so che sono stato appeso / Al tronco scosso dal vento nove intere notti / Da una lancia ferito / E sacrificato a Odino, io a me stesso, su quell’albero / che nessuno conosce / dove dalle radici s’erga… / In basso spiando guardavo / Trassi su le rune, gridando le trassi / E ricaddi di là »

(strofe 138-139, traduzione di Piergiuseppe Scardigli).

Oltre alla chiara “sintomatologia” di una morte e rinascita iniziatica (il dolore, la rivelazione e l’accesso a dimensioni superiori, il trauma del ritorno alla vita), è quindi evidente l’analogia con la figura di Omero, che, privato della vista, cantò dei tempi antichi, degli eroi e degli dèi «che furono, che sono e che saranno». Di riflesso, il Veglio di Chio narra a sua volta di come nella medesima condizione si trovasse l’aedo alla corte dei Feaci (Odissea, libro VIII), così come nella mitologia irlandese era raffigurato cieco il saggio druido Mog Ruith; prima ancora, nello stesso modo venivano rappresentati i cantori nei dipinti dell’antico Egitto.

Il messaggio tradizionale è sempre lo stesso: l’ispirazione della Musa non può manifestarsi prima che il poeta non si sia liberato di ciò che cela la conoscenza dell’Eterno.

Con la sapienza delle rune, come dovrà fare l’iniziato che ha attraversato la sofferenza, la paura, il sacrificio e perfino la morte, Odino può vedere (e indicare la via per farlo, almeno a chi potrà percorrerla) la realtà trascendente e universale, le ειδή immutabili di cui narra Platone.

E, come tutte le grandi tradizioni, gli antichi poemi norreni sembrano dirci che tanto l’estasi del rituale ascetico quanto l’estasi indotta dalla grande poesia, in un differente ma analogo cammino, non sono che uno strumento per ricondurre alla memoria della Verità.

Bibliografia consultata

Studi:

AA.VV., Enciclopedia delle religioni, Garzanti, Milano 1989.

del Bianco, Mauro, Dialéghestai e Hagal Aett: l’idea della morte e il suo superamento nella tradizione greca e norrena, in I Quaderni di Avallon #17, Il Cerchio, Rimini, agosto 1988.

de Vries, Jan, Gli dèi dei Germani, in AA.VV., Storia delle religioni, a cura di Henri-Charles Puech, vol. 5, Slavi, Balti, Germani e Celti, Laterza, Bari 1977.

Dumézil, Georges, Gli dèi dei Germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava, Adelphi, Milano 1974.

Chiesa Isnardi, Gianna, I Miti Nordici, Longanesi, Milano 1991.

Jones, Gwyn, A History of the Vikings, Oxford University Press, Oxford 1968.

Gabrieli, Mario, Le letterature della Scandinavia, Sansoni/Accademia, Milano-Firenze 1969.

Gendre, Renato, Il futark, in AA.VV., Alfabeti- preistoria e storia del linguaggio scritto, 2000, Varese, Demetra.

Pörtner, Rudolf, Die Wikinger-Saga, Econ Verlag GmbH, Vienna-Düsseldorf 1971.

Opere letterarie:

Havamál. La voce di Odino, a cura di Antonio Costanzo, Diana Edizioni, Frattamaggiore 2010.

Il Canzoniere Eddico (Eddukvœdhi), introduzione e traduzione dal norreno di Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli, Garzanti, Milano 2004.

Sturluson, Snorri, Edda (Snorra Edda), introduzione e traduzione dal norreno di Gianna Chiesa Isnardi, Milan, Rusconi, Milano 1975.

La saga di Egill (Egils saga), a cura di Marcello Meli, Mondadori, Milano 1997.

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