L’avventura del mitragliere di uno Ju.88

Berlino, giovedì sera.

Un’avventura di guerra più unica che rara vissuta dal P.K. Mann Hermann Ziock è pubblicata nell’ultimo numero dell’Illustrierte Blatt dal protagonista stesso, che si trova in servizio presso un reparto da bombardamento germanico dislocato in Sicilia.

Partito come mitragliere a bordo di un Ju.88 inviato in operazione di bombardamento notturno su una base nemica della Tunisia, egli si accorge ad un tratto che uno dei due motori ha preso fuoco.

Il pilota, nel tentativo di spegnere l’incendio, si butta in picchiata, e le fiamme si estinguono quasi strappate dal vento. Ma quando il pilota tenta di rimettere l’aereo in linea di volo, i comandi non obbediscono più e il velivolo precipita a tutta velocità incontro al mare nero come la pece.

L’apparecchio precipita. E con lui precipitiamo anche noi – racconta lo Ziock. – Il pilota vorrebbe compiere un ammaraggio di fortuna e deve assolutamente farlo. Ma i comandi non agiscono. Costa resta da fare se non gettare tutto ciò che è possibile, per rendere l’aereo più leggero? Tutti agiscono meccanicamente, forse nessuno pensa ancora che è in giuoco la propria vita. Infine il pilota parla: è per dare un ordine al radiotelegrafista: “Lancia l’SOS!”.

Siamo a cinquanta metri dall’acqua! Le mie mani cercano rapidamente le fibbie delle cinture che mi stringono al mio seggiolino. Ma dov’è la fibbia più piccola? Dov’è? Do…

Poi l’aeroplano si infila nell’acqua e un altissimo spruzzo s’innalza verso il cielo. Tanto egualmente scuri erano il cielo e il mare che si poteva credere di essere ciechi. Venni lanciato contro il seggiolino dell’osservatore. La mia memoria non registra fantasmi. Non provai alcun dolore. Sentivo l’acqua entrare gorgogliando nella cabina e la sentivo salire rapidamente attorno al mio corpo. Aspiravo l’aria rumorosamente, mentre le mie mani e le mie gambe si agitavano disperatamente. Rimasi sott’acqua e i miei pugni tentarono invano di spezzare il vetro dello sportello girevole. Naturalmente era una pazzia, ma forse che chi si sente morire annegato può ragionare con calma? Chiusi dentro, pensai. Ma non volevo e non potevo crederlo. Mi difendevo. Non so come siano trascorsi i primi secondi. L’apparecchio affondava lentamente. Dove eravamo? È così la fine? Una terribile prospettiva ora si presenta. Trascorre mezzo minuto, forse un minuto… Nessuno immagina quello che sta accadendo. Nella girandola di ricordi e di pensieri che si accavallano nel mio cervello, appare chiarissima l’immagine della mia mamma. Senza speranza, vedo ormai la mia fine. Immaginare di potersi salvare, peggio che un sogno.

Ed ecco proprio allora accadere quel che non poteva accadere. Dal soffitto della carlinga affondai sul pavimento ed improvvisamente sentii una dolorosa pressione sulla mia gamba destra, poi fui afferrato dal vortice d’acqua che gorgogliava attraverso una stretta apertura che i nostri sforzi avevano dischiusa pochi secondi prima di cadere in mare. Subito la mia rassegnazione scomparve, ricominciai a lottare, tentai di far passare il mio corpo attraverso la stretta apertura. Dovevo riuscirci. Le mie gambe erano già fuori, ma ecco che mi accorsi che con il paracadute non avrei mai potuto uscire.

Non perdere la calma! – dissi a me stesso. Avevo stretto le labbra affinché neppure una goccia d’acqua potesse entrarvi. Con una sicurezza di sogno mi sganciai il paracadute, aprii l’anello del sottogamba e spinsi lontano quel “salvagente” che minacciava d’uccidermi. Mi spinsi fuori. Tutto deve essere accaduto molto alla svelta perché ero quasi a venti metri sott’acqua. Un’orribile pressione mi stringeva il petto, ed il sangue rumoreggiava nella mia testa. Partii come una freccia verso l’alto. Quei secondi mi sembrarono un’eternità, certo i più dolorosi.

È possibile che io vi dica, dopo una simile esperienza, quello che io provai tornando a respirare alla superficie l’aria – aria pura, limpida, vera – e a rivedere le stelle sopra il mio capo? Io vidi l’occhieggiare delle stelle nel cielo scuro, come in un sogno.

Ancora sott’acqua avevo aperto il “vestito di galleggiamento”. Dissi a me stesso: “Adesso, qualunque cosa accada, terrò duro!”.

Mi guardai attorno. Sullo sfondo del cielo stellato vidi un’ombra. Che cosa poteva essere? Un’isola o uno scoglio? O forse la terraferma? Ma quale, Dio mio, quale terraferma? L’Africa o la Sicilia? Era distante quasi due chilometri, così credetti. Poi mi vennero alla mente i miei compagni di volo. Dove erano? Aspettai minuti lunghissimi, finché fu troppo tardi per attendere ancora.

Dove ero emerso, non c’erano che nere onde che si udivano nell’oscurità. Ancora adesso mi sembra di udire nelle mie orecchie il fruscio di quelle onde. Quanto tempo ho passato nell’acqua? Due ore? Tre ore? Quattro ore? Ho amato così tanto il mare, ma egli ora è il mio nemico. Lotto contro le onde, contro le correnti, contro i marosi. La corrente trascina decine di meduse fosforescenti. In quella notte ho imparato a difendermi da questi molluschi che mi assalivano e si attaccavano alle mie membra. Dovevo nuotare sul dorso e staccarmele dal corpo ad una ad una.

Migliaia di soldati hanno provato che cosa significhi trovarsi abbandonati a se stessi sul mare, nella notte. Eppure questo non sarebbe il peggio. Ma nuotare nell’acqua senza fondo, nella fredda impressione della morte dei miei camerati, con sopra il capo un infinito mondo di stelle, con una costa che appena s’intravede di tanto in tanto e nessuna certezza c’è di raggiungerla, e con una indefinita sensazione di paura di essere in una situazione senza uscita, questo non è possibile esprimere a parole.

L’aviatore miracolosamente scampato continua la sua corrispondenza narrando la dura lotta con il mare. Ad un certo momento sentì il rumore di uno stormo che passava alto nel cielo. Pensò che fossero i compagni d’impresa, che, eseguita la loro missione, tornavano alla base di partenza. Intanto egli nuotava verso lo scoglio. L’acqua del mare era fosforescente ogni qualvolta sollevava uno spruzzo d’argento, le sue mani sembravano di fosforo.

Poi sorse l’alba. La fortuna volle che Hermann Ziock finisse su uno scoglio, ad un centinaio di metri dalla costa siciliana. Caritatevoli isolani lo rifocillarono e l’ospitarono, quindi gli diedero un cavallo con il quale, dopo sette ora di marcia, egli rientrò alla propria base di partenza, con una esperienza quale pochi uomini hanno potuto fare: quella di credersi sulle soglie dell’eternità ed essere improvvisamente e misteriosamente respinti nella vita.

* * *

Tratto da La Stampa del 3 giugno 1943.

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Felice Bellotti è stato un giornalista italiano, autore di numerosi reportage di viaggio e di guerra e di una quindicina di libri. Alcune informazioni sulla sua vita si possono leggere sul blog Huginn e Muninn.
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