L’arte di passare tra una mina e l’altra

Da bordo della «Dronning Maud», febbraio.

La Dronning Maud ad Aalesund
La Dronning Maud ad Aalesund

A Trondhjem, al centro della Piazza Grande, tutta squadrata da lunghi mucchi di neve gelata, c’è una mina coperta di ruggine che poggia su un piedestallo di roccia grigia. Tra le pigne di due percussori svuotati la mano di un fabbro ha aperto una fessura, sotto la quale una iscrizione incisa in una targa di bronzo, dice:

«Tu, mina, salisti verso i nostri quieti mari di Norvegia per recarvi il Dolore e la Morte. Ora, privata della tua forza infernale, memoria di un tempo tristissimo, raccogli nel tuo ferro micidiale l’obolo di tutti i fratelli del mare che ricordano sempre come coloro che si sono sacrificati lontano dalle coste sono morti per la salvezza degli altri ed hanno lasciato nelle loro casette di legno donne e bimbi che hanno atteso invano il loro ritorno».

Per gentile consuetudine, da quando lo spettro della guerra era scomparso dal Nord, la popolazione di Trondhjem soleva versare attraverso la fessura aperta fra i due percussori un tintinnante obolo d’argento. Col passare degli anni la mina coperta di ruggine era diventata il centro degli innamorati che, lasciandosi, usavano dirsi: «Allora, domani, alle nove, accanto alla mina!». Da strumento di morte, quella mina, raccolta al largo di Bóvik il 14 settembre 1917 dal dragamine F263, era diventata una duplice cassaforte di amore: nel suo interno custodiva l’obolo dei fratelli, sulla superficie rugginosa nascondeva il segreto dei messaggi amorosi dei giovani che andavano lentamente scoprendo tutta la tenerezza e tutta l’ansia del primo affetto.

Ora, la guerra è tornata; le mine, portate dalla misteriosa Corrente del Golfo, salgono ancora verso le coste norvegesi e quasi ogni giorno le casette di legno arroccate sul mare attendono invano il ritorno di vecchi marinai e di giovani venturosi. La ruota del tempo ha girato, ha forse compiuto esattamente un cerchio, e ricomincia la vecchia, solita storia della morte invisibile, in agguato sotto le onde grigie e fredde. E la navigazione nel Mare del Nord è diventata più pericolosa che in tutti i mari del mondo.

«Maddalena che annega!»

La Dronning Maud
La Dronning Maud

Ci siamo imbarcati sulla «Dronning Maud» per seguire, sino ai gelidi mari che si stendono oltre il Circolo Polare Artico, la pista fra le mine vaganti, l’unico sentiero che la civiltà abbia aperto alle comunicazioni fra il nord e il sud della Norvegia, questo strano Paese affacciato sul mare, tanto lungo che ci vogliono sette giorni di navigazione per andare da Kristiansand, poco più ad oriente del Capo Sud, a Kirkenes, venti ore di navigazione più ad est del Capo Nord, e tanto stretto che, in alcuni punti, ci sono dieci chilometri di strada montagnosa per passare dal Mare del Nord alla Svezia. L’itinerario della «Dronning Maud» e delle tredici sorelle che formano la flotta, corre quasi completamente lungo le coste della Norvegia, protetto dal mare aperto da una doppia fila di frangenti costituiti da aride montagne di roccia che si ergono, coperte di ghiaccio, a poche centinaia di metri dalla terra ferma, in gara di altezza coi monti nevosi che separano la Norvegia dalla Svezia. Ma queste file di roccie se costituiscono una insuperabile barriera contro tutte le tempeste che possano scagliarsi contro il Paese, tagliate come sono da lunghi e pittoreschi fiordi, non riescono ad impedire che, ogni tanto, una mina vagante, nascosta da due o tre metri di acqua, si infiltri negli specchi tranquilli che bagnano le città e i paesi, provocando naufragi e vittime nei luoghi più impensati.

Per questo la «Dronning Maud» naviga sulla «pista», un corridoio di mare invisibile agli occhi inesperti, ma dal quale, con durissimo lavoro che dura il giorno e la notte, squadre di dragamine e di pescatori tengono lontano il pericolo di disastrosi incontri. La rotta fra le isole è di per se stessa abbastanza complicata e il pilota è costretto a un lavoro senza soste, tanto che fa più fracasso il timone a vapore di quanto non facciano le macchine e le eliche. Ma ogni tanto la «Dronning Maud» gira come fosse un automobile, percorre semicerchi misteriosi, torna indietro, procede a zig-zag, fa, insomma, una serie di scherzi, che il profano della navigazione in questi mari non riesce affatto a capire. Poi ci si cccorge che la saggezza dei vecchi marinai ha ancorato numerosissime boe, che fari verdi, rossi, azzurri e bianchi parlano al pilota un linguaggio assai semplice, gli dicono di stare attento, di virare a sinistra, di non poggiare troppo a destra, di fare attenzione perchè ci sono solamente otto braccia di acqua ed è pericoloso, a carico completo, avventurarsi su quel passaggio.

Il comandante della nostra nave sembra scappato fuori da un romanzo di Knut Hamsun, l’autore dell’immortale Pan. È grande e grosso, coi capelli rosso fuoco tutti ricciuti e, dato che tutto va bene, bestemmia esattamente come deve saper fare un vero marinaio. Ce ne aveva parlato a Trondhjem il cortese signor Ottesen al quale ci aveva affidato il nostro amico Krog, perchè guidasse il nostro itinerario.

«Voi — ci aveva detto — avete l’autorizzazione di imbarcarvi sul dragamine N 2130, il più in gamba che io abbia mai visto. Ma questa nave si trova a Tromsö e per andare a Tromsö non vi resta altra possibilità che imbarcarvi sulla «Dronning Maud». Ci starete benissimo, a bordo della «Dronning Maud», perchè il comandante è un mio amico, è stato capitano di dragamine per tutta la durata dell’ultima guerra, conosce il mestiere e potrà darvi utilissime indicazioni».

Io, tutte le volte che Ottesen diceva «Dronning Maud», mi sentivo accapponare la pelle. Parlavamo in inglese e «dronning» assomiglia come una goccia d’acqua, nella lingua parlata, a «drowning»: e «drowning Maud», in inglese, vuol dire «Maddalena che annega», programma, nelle nostre condizioni, tutt’altro che piacevole. Ma quello non ci pensava neppure e continuava imperterrito i propri discorsi.

Incontri

Le «utilissime indicazioni» si rivelarono ben presto. Un vero orso, il nostro comandante, che non si lasciava strappare dalle labbra una sola parola con astinenza sprecata, del resto, perchè anche se avesse parlato non avrei capito una sillaba, dato che le sue cognizioni linguistiche si limitavano al norvegese e a tutti i dialetti della costa. Ma il mare parlava per lui, raccontando un sacco di cose interessanti. Incontravamo ogni tanto navi senza bandiera. In questi mari i piroscafi delle nazioni neutrali hanno scritto il nome sui fianchi, in caratteri cubitali bianchi compresi fra due enormi vessilli. Le navi senza bandiera e con il nome piccolissimo scritto sulla poppa appartengono a potenze belligeranti, sono cioè o tedesche o inglesi. Incontrammo dei carghi germanici, neri ed enormi, senza ombra di vita a bordo, resi ancora più misteriosi dalla nebbiolina ghiacciata che stagnava sulle onde. Navigavano radendo la costa, bene attenti a non uscire dalle acque territoriali, carichi fino all’inverosimile di minerale di ferro, tanto che la linea di galleggiamento non si poteva scorgere neppure quando la prua si alzava nel suo regolare movimento di beccheggio. Venivano da Narvik? Probabilmente, 0 forse da più lontano ancora, dall’America del Sud, dopo aver costeggiato per migliaia di chilometri le rive americane, essersi avventurate nei banchi di nebbia di Terranova al largo delle nemiche coste del Canada, aver raggiunto il limite estreme della banchisa polare ed essere sgusciate nelle acque norvegesi attraverso il canale che separa l’Islanda dalle Svalbard. Quando passava uno di questi carghi tutti i passeggeri della «Dronning Maud» zittivano. Certo pensavano che a fare il marinaio su una nave belligerante, in queste acque, ci vuole un bel coraggio. E i norvegesi sono i più indicati per calcolarlo. Oppure si trattava di un cargo britannico, anch’esso ingombro dello stesso materiale, oppure vuoto e ballonzolante sulla cresta delle onde per aver scaricato il proprio carbone in qualche porto dell’estremo nord. Ma, di lontano, nulla poteva indicarci la nazionalità di queste navi senza bandiera che, quando passano, fanno zittire i norvegesi.

La pista fra le mine vaganti è la grande strada del traffico nei mari del nord. Solamente lungo questa invisibile via le navi salgono e scendono tranquillamente, attente a non incappare nella malasorte ma intimamente persuase di arrivare alla loro mèta. Quelle germaniche, beninteso. Perchè quelle inglesi, a un certo punto, devono abbandonare le acque territoriali della Norvegia ed allora nulla e nessuno può proteggerle dagli agguati delle mine, dai siluri dei sommergibili e dai cento occhi dell’aviazione germanica.

La Dronning Maud
La Dronning Maud in navigazione

Una domanda imbarazzante

Appena fuori dalla baia incontrammo un sommergibile in emersione che filava velocissimo verso sud. Nessun nominativo, nessun numero, ancora oggi sarei curioso di sapere con certezza dì che nazionalità fosse. Ma credo appartenesse alla flotta del Reich, perchè meno di un quarto d’ora dopo vedemmo un convoglio d’una ventina di navi che seguiva la stessa rotta. In testa erano tre nuovissimi trawlers di costruzione germanica, disposti a saliente: e dietro, allineate per tre, venivano le altre navi, tutte carghi a pieno carico. Forse quel sottomarino costituiva l’avanguardia. Domandammo al capitano: «Comandante, quel sottomarino era dentro o fuori le acque territoriali?». Questi ci squadrò ben bene e trovò la risposta che gli suggeriva la diplomazia ma che non era quella che gli veniva dal cuore: «Un neutrale — rispose -— un buon neutrale non si occupa mai di queste cose», «Mai?». «Mai se tutto va liscio. Non vi pare che ne abbiamo abbastanza di grane, senza andarcene a cercare delle altre?».

Ammirai la saggezza del comandante della «Dronning Maud». Anche perchè egli era l’unico, unitamente alla prima cameriera di bordo, che fosse assolutamente convinto che noi fossimo due pacifici giornalisti che non avessero nessun programma spionistico.

— Troveremo qualche mina, comandante?

— Più su dovete venire, nelle acque di Kirkenes. Quei dannati russi hanno minato tutto il fiordo di Liinahamari e la marea, ogni tanto, ne porta qualcuna sulla nostra rotta. La Sigurd Jarl ha pestato in una mina russa. Per fortuna era russa, altrimenti non sarebbero venuti a raccontarcelo.

— Cosa vuol dire mina russa?

— Vuol dire sovietica, come fate a non capire queste semplicissime cose? E sembra che queste mine siano piuttosto restie ad esplodere. E se ne andò brontolando contro l’imperizia dei fabbricanti di esplosivi della Russia di Stalin.

* * *

Tratto da La Stampa del 24 febbraio 1940.

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Felice Bellotti è stato un giornalista italiano, autore di numerosi reportage di viaggio e di guerra e di una quindicina di libri. Alcune informazioni sulla sua vita si possono leggere sul blog Huginn e Muninn.
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