L’antro della Sibilla

“I miei antenati, gente di montagna, avevano dimestichezza con gli incantesimi e le fate. Di mio nonno si diceva fosse un mago, forse perché sapeva di erbe e d’antiche leggende. Mia madre, come i suoi avi, era nata a Colleluce, un borgo di vecchie case all’ombra del Vettore, la cima più alta dei Monti Sibillini, che un tempo si chiamava Monte della Vittoria. Vettore sta per victor: vittorioso, chissà per quale antica battaglia che la storia non ricorda, forse combattuta fra sapienti e negromanti, angeli e diavoli, santi e draghi, o tra fate e streghe. Una battaglia che non ha tempo e non finisce mai. I racconti dei miei primi anni si mescolano a frammenti di vecchie storie che narravano di fate danzanti nel plenilunio, sulle pietraie desolate o sulla neve vergine: donne bellissime dai piedi di capra costrette, sul morir della notte, a correre verso i loro antri incantati, nel cuore segreto della montagna. Il nonno narrava della Sibilla, sapiente regina delle fate, amante di cavalieri. Narrava di Guerin Meschino che, entrato nel suo regno sotterraneo, a differenza di altri che mai più rividero la luce, ne uscì indenne da malie ed incantesimi” (p. 19).

Sembrerebbe l’inizio di un avvincente romanzo rielaborante leggende medievali e rinascimentali. Si tratta invece dell’incipit dalla prefazione di un interessantissimo libro che raccoglie i frutti di una pluriennale ricerca su una delle più emozionanti e magiche località dell’Italia centrale. Condotta prima “sul campo”, raccogliendo da brava antropologa le fonti orali: leggende e tradizioni popolari locali che altrimenti rischiavano di essere smarrite. Alle quali vanno aggiunte quelle scritte sia nei libri sia nelle pietre. Infatti, Giuliana Poli ci rivela il nesso fra le prime e il simbolismo dei fregi, ancora visibili incisi sui muri e i portali degli edifici storici, delle case e delle chiese di questa zona appenninica e non solo: raffigurazioni di fasci di spighe e della ruota solare nonché i “fiori della vita” di chiara ascendenza etrusca.

L’Autrice percorre l’excursus storico e religioso dei Monti Sibillini partendo dalle stratificazioni preistoriche, attraverso la civiltà dei Piceni (guidati da Picus Martius) con il culto della dèa Cupra, equivalente all’Afrodite ellenica, la religione etrusca che “ebbe grande influenza nel territorio dei Sibillini” (p. 29) – tra l’altro è ricordata la presenza della dèa Ancharia[1], particolarmente legata alla città di Ascoli, e la dèa Northia, “da cui la città di Norcia e il Lago di Pilato, ubicato tra il Monte Vettore (o meglio della Vittoria) ed il Monte Sibilla, che anticamente si chiamava il lago della dèa Northia” (p. 27) – i tardi apporti celtici[2], per giungere al periodo romano in cui si registrano i culti di Venere e di Cibele diffusissimi anche in questi territori.

Non è un romanzo ma l’esposizione di una ricerca multiforme rigorosamente condotta ed esposta in maniera meticolosa la cui lettura risulta avvincente. Fondatamente la Sibilla è considerata frutto d’un sincretismo religioso d’antichissima origine, “un’enigmatica entità femminile che, nel corso della storia, è stata celebrata e concepita sotto aspetti diversi e con diversi nomi; varie sfumature della femminilità intesa come principio cosmico: Artemide, Isthar, Iside, Diana, Demetra, Venere, Cupra, Cibele, Cerere, Proserpina, Atena, Giunone, Hera, Afrodite, Circe” (p. 37).

Dopo aver esposto le coincidenze tra gli eventi cosmici e le feste calendariali, l’Autrice passa a esporre quella che definisce “l’intuizione”: alcune chiese sparse per i sibillini, solitamente edificate sopra precedenti luoghi di culto, riprodurrebbero il disegno della costellazione della Vergine e oltretutto risulterebbero orientate nel loro asse principale verso l’area del cielo dove riappare dopo l’inverno, all’alba dell’equinozio di primavera.

Dopo la descrizione dell’Antro della Sibilla e la relazione con la montagna cosmica, fanno seguito le pagine dedicate a “Percorsi iniziatici: il Guerin Meschino… le Sibille e le Sirene”. Quest’ultime nell’antichità classica viste principalmente come donne-uccello incantatrici col loro canto diverranno nel medioevo donne-pesce. “La nuova Sirena marina, apparirà nel gesto di separare con le mani gli estremi della coda, divenendo figura seducente ed invitante all’amore: incarnazione diabolica per la religione ufficiale. (…) spogliata delle sue ali di uccello, che solo gli angeli possono avere… Inoltre, avrà come unica valenza, quella di essere una bellissima creatura che seduce con gorgoglii di richiamo sessuale, mero corpo per compiacere gli uomini, ma resterà per sempre ‘muta’ come un pesce, perché le sarà tolto ‘il canto’ profetico e sapienziale” (p. 114-115)[3].

In un denso capitolo la Poli affronta la documentazione inerente la Sibilla Cumana, dai versi virgiliani e le altre fonti classiche per giungere ad affrontare la probabile identificazione fra la Sibilla Cumana e la Sibilla Appenninica. Le Sibille erano profetesse ispirate dalla divinità alla quale erano consacrate e della quale erano la parola vivente e magica. Costituivano l’espressione di antiche culture sciamaniche grazie alle quali l’uomo entrava in comunione con la natura e le sue intelligenze spirituali, i suoi spiriti e le sue fate e, tramite quest’apertura, entrava in contatto con la divinità.

Come ha correttamente evidenziato Stefano Arcella nel suo saggio introduttivo “rispetto a tale valorizzazione spirituale della Donna nel mondo pagano, la demonizzazione che essa ha subito nella storia del cattolicesimo, giustamente criticata dall’Autrice, appare come un processo involutivo, limitativo, che ne svaluta le potenzialità profonde, complementari e non antagoniste a quelle dell’uomo” (p. 16).

Bisogna riconoscere a Giuliana Poli, autrice anche della bella e significativa copertina, il merito di aver realizzato un’opera rigorosa, documentata e nello stesso tempo non tediosa ma di scorrevole e brillante lettura.

* * *

GIULIANA POLI, L’Antro della Sibilla e le sue sette sorelle, Controcorrente, Napoli 2008, pp. 208 + 40 di tavole a colori, € 16,00.

Note

[1] Cfr. M. Pittau, Dizionario comparativo Latino-Etrusco, s. v. Ancaria, Edes, Sassari 2009, p. 30.

[2] Che probabilmente andrebbero ridimensionati essendo stati, in zona, tardi e limitati. L’Appennino aveva già questo nome quando vi giunsero le tribù galliche; occorrerebbe attribuirlo al sostrato ligure (cfr. R. Del Ponte, I Liguri. Etnogenesi di un popolo, II ed., Ecig, Genova 1999, pp. 23 e 121-123; e L. Marcuccetti, La lingua dimenticata, alla scoperta delle parole degli antichi Liguri attraverso i nomi dei luoghi, Luna, La Spezia 2008, pp. 278-285).

[3] Sempre sul tema Sirene cfr.: S. Bernardini, Il Serpente e la Sirena, Il sacro e l’enigma nelle pievi toscane, II ed., DonChisciotte, San Quirico d’Orcia 2005.

[Pubblicato in: “Arthos”, XII, n.s., 18, 2009, pp. 87-89].

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Segui Mario Enzo Migliori:
Nato a Prato nel 1953. Collabora alle seguenti riviste di studi storici e tradizionali: Arthos; La Cittadella; Vie della Tradizione; ha collaborato a Convivium ed a Mos Maiorum. Socio della Società Pratese di Storia Patria; dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri e del Centro Camuno di Studi Preistorici. E' stato tra i Fondatori del Gruppo Archeologico Carmignanese.

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