La terza età del capitalismo

In un libro recente, Luc Boltanski e Eve Chiapello hanno esaminato il modo in cui il capitalismo ha continuato a mobilitare milioni di individui intorno a una causa che pure non ha alcun’altra finalità all’infuori di se stessa: l’accumulazione del capitale. Cercando di identificare le “credenze che contribuiscono a giustificare l’ordine capitalista e a sostenere, legittimandole, le modalità di azione e le disposizioni che con esso sono coerenti”, essi constatano che in ogni epoca il capitalismo comporta una figura basilare, un elemento di eccitazione individuale e un discorso di giustificazione in termini di bene generale. Il che li porta a distinguere tre diversi periodi.

Il primo capitalismo, che domina l’intero XIX secolo, è incarnato dal “borghese” così ben descritto da Werner Sombart e dall’imprenditore o capitano d’industria, che manifesta prima d’ogni altra cosa il gusto del rischio e dell’innovazione. È un capitalismo patrimoniale e familiare, largamente legato alle classi borghesi che esercitano il potere. L’elemento di eccitazione è rappresentato dalla volontà di scoprire e di intraprendere. Il discorso di legittimazione si confonde con il culto del progresso.

L’avvento del turbocapitalismo
Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo Il secondo capitalismo si sviluppa a partire dagli anni Trenta. È quello della grande impresa e del compromesso fordista, in cui il proletariato rinuncia progressivamente alla critica sociale in cambio della garanzia di avere accesso alla classe media. L’innalzamento dei salari favorisce il consumo, che attenua i conflitti. La figura emblematica di questo secondo capitalismo è quella del presidente di consiglio di amministrazione o del direttore di società, assieme a quella del dirigente superiore. L’eccitazione risiede nella volontà dell’impresa di svilupparsi quanto più possibile. Il discorso di legittimazione fa cadere l’accento sull’aumento del potere d’acquisto, nonché sulla valorizzazione del “merito” e della competenza. Questo periodo, che corrisponde all’era della redistribuzione da parte dello Stato assistenziale, del keynesismo e della regolare espansione della classe media, si conclude in contemporanea con i trent’anni d’oro del dopoguerra, a seguito della crisi petrolifera del 1973.

Da allora in poi siamo entrati nella “terza età” del capitalismo, momento che corrisponde al passaggio da un capitalismo ancora inquadrato al capitalismo sfrenato del mondo attuale, il “turbocapitalismo” del quale parla Edward N. Luttwak. La sua figura essenziale è quella del capo progettazione (coach) o del creatore di reti (networker), che si limita a coordinare l’attività di unità dalla durata limitata. I suoi valori-chiave sono l’autonomia, la creatività, la mobilità, l’iniziativa, la convivialità, lo sviluppo. Il nuovo capitalismo contorna il principio di gerarchia con un nuovo dispositivo di gestione del personale. Ci sono sempre meno “capi” e sempre più responsabili che lavorano in squadre. Il manager attento alle risorse umane, adattabile, flessibile, “comunicativo”, sostituisce il dirigente rigido e pianificatore. L’impiegato è mobile, con assai scarsa fedeltà alla ditta che gli dà lavoro. A causa dell’intensificazione della concorrenza, l’impresa funziona sempre meno “in interni”. Trasferisce all’esterno i servizi, che vengono alimentati dal trattamento nell’indotto e dalla precarietà. L’impresa tayloriana o fordiana lascia progressivamente il posto alla ditta-rete, fenomeno che va di pari passo con l’emersione di un mondo, postmoderno, essenzialmente “connessionista”. L’elemento di eccitazione è rappresentato dallo sviluppo delle nuove tecnologie. Il discorso di legittimazione è quello di una “nuova economia” che farebbe entrare l’umanità in una nuova era di crescita durevole.

La grande caratteristica di questo nuovo capitalismo risiede in una straordinaria crescita di peso dei mercati finanziari. Il volo dei tassi borsistici è iniziato a metà degli anni Ottanta a Wall Street, per poi propagarsi in Europa. Nel 1998 e nel 1999, l’indice azionario è progredito di qualcosa come il 30%. Negli Stati Uniti, i valori di Borsa, che da oltre un secolo rappresentavano in media l’equivalente di quindici anni di profitti, oggi ne rappresentano trentacinque. La conseguenza è l’ossessione della creazione di valore per l’azionista e un’esigenza esorbitante di redditività del capitale. Ormai si esige correntemente un tasso di remunerazione del capitale nell’ordine del 15%, quando la crescita del Pnl non supera il 4-5%. Nel contempo, mentre qualche tempo fa, per misurare la redditività dell’attivo economico delle imprese, si guardava esclusivamente ai rientri su fondi d’investimento, oggi, per compensare la mancanza d’informazione sulla redditività futura, si valorizzano l’imprese basandosi su percentuali presunte, fondate sulle quote di mercato ottenute o conquistate. Il corso azionario, che fluttua in maniera aleatoria, non è più, quindi, il riflesso della situazione delle imprese o delle economie: il valore dei titoli quotati non ha più niente a che vedere con il loro valore reale. La fiammata delle Borse occidentali spezza il rapporto di eguaglianza fra il tasso di crescita dell’economia reale e il tasso di rendimento dei titoli finanziari. Il valore economico è sempre meno connesso a un valore che può essere reso in termini oggettivi e sempre più a una ricchezza virtuale che si suppone corrisponda al desiderio illimitato degli individui. La dinamica d’impresa, che puntava sulla durata, è soppiantata da una dinamica finanziaria immateriale, priva di un fondamento oggettivo.

Questa distorsione tra economia reale ed economia finanziaria, valore borsistico e valore aggiunto, ma anche tra consumatore e azionista, alimenta l’illusione che l’accumulo di titoli equivalga alla produzione di beni. Dal momento che la fuga in avanti avviene sempre a credito, le azioni borsistiche assomigliano sempre più ai potenziali assignats della Francia prerivoluzionaria. La “bolla” speculativa, che continua a gonfiarsi, rischia di scoppiare in qualunque momento, provocando un nuovo crac.

Questa supremazia della Borsa ha comportato, come conseguenza logica, quella degli “investitori istituzionali”, che gestiscono oggi qualcosa come 10.000 miliardi di dollari e stanno imponendo a tutto il mondo la versione anglosassone del capitalismo. Fra questi investitori istituzionali che dominano il pianeta borsistico, i più noti sono i gestori di fondi pensione, di compagnie di assicurazione o di fondi comuni di investimento (mutual funds). Questi “fondi pensione” – espressione che è solo un cattivo anglicismo – sono in realtà casse pensionistiche private, fondi di risparmio collettivo creati dalle professioni o dalle imprese per offrire pensioni sotto forma di rendita. I più famosi sono Calpers, in California, e poi Vanguard e Fidelity. La loro attività consiste nell’investire sui mercati finanziari andando alla ricerca dei migliori profitti. In dollari correnti, i loro attivi sono passati fra il 1950 e il 1997 da 17 a quasi 5.000 miliardi. Nel 1997 da soli possedevano quasi il 50% di tutte le azioni quotate negli Stati Uniti, contro il 10% del 1960. Questa moda dei fondi pensione, di cui vengono incessantemente vantate le virtù miracolose, comporta in realtà un rischio enorme per coloro che, per loro tramite, non temono di giocarsi la pensione in Borsa. Si tratta infatti di trasferire ai salariati, che vengono esposti al rischio di un crac, i rischi finanziari che un tempo erano sostenuti dalle imprese e dagli Stati. I fondi pensione sono inoltre uno dei maggiori fattori dell’instabilità finanziaria mondiale, dato che i loro massicci apporti di capitali causano una sopravvalutazione artificiale che alimenta la “bolla” speculativa, mentre il loro impatto positivo sull’economia reale è praticamente nullo. Il loro ruolo potenzialmente destabilizzante, in particolare sui mercati emergenti, è stato del resto perfettamente messo in luce dalle più recenti crisi finanziarie.

Con le minacce o con le effettive decisioni, gli investitori istituzionali hanno cambiato il volto del capitalismo. Il loro notevole peso e i mezzi di pressione dei quali dispongono hanno portato alla luce nuove norme di gestione e nel contempo hanno causato persistenti limitazioni al margine di manovra degli Stati. Hanno imposto ovunque il proprio stile, i propri obiettivi, le proprie esigenze. Attraverso il capitale di rischio, le stock-options e l’azionariato salariato, hanno assegnato la priorità al “governo d’impresa” (corporate governance) stimolando il desiderio di un rientro su investimento immediato. Con le fusioni, le partecipazioni incrociate, le prese di controllo in Borsa, hanno fatto nascere una nuova classe di imprenditori che traggono il proprio potere dalla pura potenza dei mercati. Esigendo per il capitale investito tassi di redditività quasi usurai del 15%, hanno costretto gli imprenditori a sottomettersi alle loro condizioni.

Capitale delle grandi imprese e fondi esteri
Alain de Benoist, La nuova evangelizzazione dell'Europa. La strategia di Giovanni Paolo II A questo riguardo è rivelatrice la penetrazione della capitalizzazione borsistica francese da parte degli investitori stranieri, fra i quali figurano, in prima fila, proprio i grandi fondi pensione anglosassoni. La Francia detiene in questo campo un record mondiale. La quota dei grandi investitori internazionali nel capitale delle società francesi raggiunge oggi infatti quasi il 40%, contro il 16% dell’Inghilterra, il 10% della Germania e il 7% degli Stati Uniti. Nel 1998, gli investimenti netti in azioni francesi dei non residenti sono salite a 70 miliardi di franchi, contro i soli 6 miliardi dei residenti. Inoltre, dopo una decisione presa nel 1993 da Nicolas Sarkozy, all’epoca ministro del Bilancio, questi fondi non residenti sono esonerati da ogni imposta sui dividendi francesi che incassano. Ne risulta un differenziale di contrainte, e quindi di rendimento, la cui conseguenza logica, tenuto conto dei mezzi dei quali dispongono gli investitori istituzionali, potrebbe essere il rastrellamento progressivo della maggiioranza dei titoli delle società francesi da parte di investitori stranieri. Il recente capitombolo di Alcatel, a seguito della decisione di un fondo americano di vendere la metà delle azioni che deteneva nel suo capitale, illustra i pericoli di una simile dipendenza, che cresce di continuo.

“Per questa via”, fa notare Laurent Joffrin, “il modello liberale si espande senza suoni di trombe e tamburi, attraverso il semplice gioco della pressione finanziaria. Costrette ad assicurare a questi azionisti senza pietà una “creazione di valore” (un profitto, in linguaggio corrente) leonina, i gruppi nazionali scaricano i sacrifici sui dipendenti: la stagnazione dei salari francesi riempirà le tasche dei pensionati di oltre Atlantico”.

Il “capitalismo renano” descritto a suo tempo da Michel Albert perde perciò costantemente terreno nei confronti del capitalismo finanziario, che ne fa vacillare le fondamenta. Quel capitalismo “renano”, fondato sul sistema bancario e sui conglomerati industriali, pretendeva ancora di preoccuparsi di un minimo di coesione sociale, ma le difficoltà economiche attraversate da dieci anni a questa parte dalla Germania (e dal Giappone) hanno rafforzato l’idea che il modello anglosassone sia votato ad imporsi dappertutto.

La convergenza dei modelli economici è d’altronde uno dei grandi postulati della “nuova economia”. Il metodo utilizzato consiste nell’applicare agli Stati nazionali la stessa griglia di lettura applicata alle imprese per valutarne la competitività. In realtà, dato che l’esempio americano costituisce il riferimento di base della “nuova economia”, questa presunta convergenza dei sistemi economici – che non tiene in conto le particolarità culturali, sociali o istituzionali di ciascun paese e interpreta come “ritardo” ogni problema derivante da una situazione locale – è semplicemente il risultato del fatto che tutti i paesi sono classificati in funzione del divario che presentano rispetto agli Stati Uniti, “paese giovane che ha sradicato tutte le precedenti forme di socializzazione e che è dunque la terra del soggetto mercantile per eccellenza”, come nota Robert Boyer, il quale aggiunge: “Si comparano con questa società, figura emblematica del capitalismo, tutte le altre, per scoprirle “arcaiche” o “emergenti”. In altri termini, la maggior parte degli analisti americani applicano alle altre economie gli strumenti concettuali utilizzati per analizzare la società americana, supponenendo che essi siano necessari e sufficienti”. In tal modo, si perde di vista il fatto che è semmai il sistema americano a costituire un’eccezione rispetto alla diversità delle situazioni esistenti.

La prima esigenza degli investitori istituzionali è ovviamente la deregolamentazione. È noto che al centro del credo liberale si trova la fede nell’esistenza di un processo di aggiustamento naturale (autoregolatore) che consentirebbe al mercato di raggiungere una situazione ottimale a condizione di non essere ostacolato da alcunché -–il che peraltro non impedisce ai sostenitori del mercato di convertirsi discretamente all’interventismo ogni volta che possono riscontrarvi un vantaggio. La deregolamentazione consiste dunque nel sopprimere tutto ciò che è suscettibile di turbare gli aggiustamenti tipici del “meccanismo di mercato” e, secondariamente, nell’attribuire tutti gli effetti negativi che è possibile constatare alla malignità degli uomini (“rigidità dei salari”, debito delle amministrazioni pubbliche, “ostacoli” culturali e via dicendo) piuttosto che al mercato in sé.

Componente essenziale della concezione liberale dell’economia, la deregolamentazione non ha mai smesso di estendersi dagli anni Ottanta in poi, a partire dalle esperienze inglese e americana. Una svolta capitale è stata effettuata nel 1986, quando Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno convinto i loro partners nel G7 ad accettare il principio di una deregolamentazione finanziaria. Gli Stati hanno accettato perché questa deregolamentazione consentiva loro di finanziare il debito pubblico attraverso la “titolizzazione”; il che significa che il debito degli Stati poteva essere trasformato in titoli negoziabili venduti in Borsa. Si è a quel punto messo in moto un ampio movimento di “disintermediazione” finanziaria, che ha consentito soprattutto alle grandi imprese di trovare direttamente le risorse di cui avevano bisogno sui mercati finanziari, il che ha avuto come conseguenza un ridimensionamento del ruolo delle banche. Sta di fatto che le banche svolgono tradizionalmente un ruolo di schermo fra le imprese e i risparmiatori, consentendo una certa “mutualizzazione” dei rischi e assorbendo una parte degli choc congiunturali, che generano uno squilibrio tra il risparmio e l’investimento. La scomparsa di tale schermo fa sì che il risparmiatore individuale debba ormai sopportare da solo la qualità del rischio dei suoi investimenti sui mercati finanziari, cosa che ne aumenta la vulnerabilità. Nel contempo sono stati creati nuovi strumenti finanziari, come i mercati a termine e delle valute.

Questa liberalizzazione dei mercati finanziari è stata uno dei motori essenziali della globalizzazione. Come la deregolamentazione e le privatizzazioni, essa fa parte di una stessa tendenza: il passaggio da una liquidità bancaria a una liquidità puramente finanziaria; in altri termini, gli strumenti finanziari continuano a guadagnare liquidità, a tal punto da poter essere utilizzati come strumenti monetari. Con il pretesto della deregolamentazione e di una maggiore efficacia, il nuovo capitalismo reclama dunque in maniera statutaria una libertà di manovra totale, sostenendo che qualunque restrizione a tale libertà si tradurrebbe in una diminuzione di efficacia. In tal modo esso si affranca da ogni regola, al di fuori di quella del profitto immediato. Risultato: in Europa, dove un tempo le grandi incursioni borsistiche erano rarissime, dal 1998-99 esse si moltiplicano ad un ritmo mai visto prima. Certo, fra il 1885 e il 1913 si era già registrato un processo di concentrazione delle imprese, ma le dimensioni non erano le stesse. Inoltre, più di un secolo fa, le fusioni erano offensive e servivano a conquistare nuove quote di mercato, mentre le fusioni attuali sono, per due terzi, principalmente difensive. Un’altra caratteristica di queste operazioni è che, nella maggioranza dei casi, si fanno “in carta”, vale a dire attraverso offerte pubblico di scambio che profittano agli azionisti delle società che ne sono oggetto ma aumentano ulteriormente il volume della “bolla” speculativa.

Questi avvicinamenti mettono in gioco somme colossali. L’acquisizione del gruppo tedesco Mannesmann da parte del britannico Vodaphone ha rappresentato, da sola, un’operazione da 148 miliardi di dollari (equivalenti a poco meno del bilancio annuo della Francia!). Nel 1998, Exxon ha assorbito Mobil per 86 miliardi di dollari, Travelers Group la Citycorp per 73,6, Bell Atlantic GTE per 71,3, AT&T Media One per 63,1, TotalFina Elf Aquitaine per 58,8. Nel gennaio 2000, l’acquisizione di Time Warner, numero uno mondiale della comunicazione, da parte di AOL, primo fornitore mondiale di accessi a Internet, ha creato un gruppo che pesa qualcosa come 300 miliardi di dollari.

Su scala mondiale, queste operazioni di concentrazione o di fusione-acquisizione hanno rappresentato nel 1999 una somma complessiva di 3.160 miliardi di dollari. Le somme smosse nell’arco dello scorso decennio hanno raggiunto la cifra di 20.000 miliardi di dollari, due volte e mezzo il prodotto interno lordo degli Stati Uniti d’America.

Il principio di concorrenza, che si dice favorisca la diversità e la qualità, sfocia così nella costituzione di immensi cartelli o monopoli che dispongono di un potere maggiore di quello di molti Stati. Attualmente, le 200 più importanti società multinazionali (91 delle quali hanno sede negli Stati Uniti) realizzano ogni anno un volume d’affari di 7.000 miliardi di dollari, superiore all’importo del prodotto interno lordo dei 150 paesi che non appartengono all’Ocde. Nella maggior parte dei settori, in particolare nel campo della cultura e della comunicazione, questa evoluzione provoca l’omogeneizzazione dell’offerta (ogni azienda cerca di fare meglio, ma di fare meglio la stessa cosa) e la “selezione inversa”, vale a dire situazioni nelle quali le soluzioni selezionate si rivelano svantaggiose per gli attori.

Si capisce pertanto che il vero ruolo dei fondi è quello di ristrutturare il capitalismo mondiale. Come scrive Dominique Plihon, “acquistando e vendendo le loro partecipazioni, i fondi pensione fanno circolare il capitale e accelerano l’evoluzione verso una nuova configurazione caratterizzata dalla presa di controllo del capitale produttivo da parte degli investitori e, simultaneamente, dalla creazione di una classe di redditieri fra gli stessi salariati”. Si è infatti passati dal commercio delle materie prime a quello dei prodotti industriali, poi dal commercio dei prodotti industriali a quello dei prodotti finanziari. Questa evoluzione è oggi sostenuta dalla fede in un nuovo tipo di crescita duratura legata allo sviluppo delle “nuove tecnologie”: media, Internet, telefonia mobile, ecc. Così come lo sviluppo del primo capitalismo era stato favorito dalla macchina a vapore e dalle ferrovie, il nuovo capitalismo deve essenzialmente la propria fortuna all’esplosione delle tecnologie della comunicazione, dato che il calcolatore, primo strumento con vocazione a sostituire il cervello umano creato dall’uomo, si caratterizza per il trasporto istantaneo di dati immateriali e consente la proliferazione all’infinito delle reti. Un simbolo ci è offerto da Canal Plus, la cui capitalizzazione è oggi superiore a quella di Peugeot, Renault e Michelin messe insieme.

Lo start-up di Internet, eldorado della nuova economia?
Franco Cardini, Astrea e i titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo La rete Internet, lanciata sul mercato privato dal Pentagono alla fine degli anni Ottanta, si è in effetti rivelata uno strumento formidabile. Da qui a meno di tre anni, il numero degli utenti dovrebbe aver superato il mezzo miliardo di connessi. Il commercio elettronico (trading on line, pubblicità, borsa in diretta) dovrebbe raggiungere a quell’epoca gli 80 miliardi di dollari all’anno. Ai primi di marzo del 2000, la semplice ipotesi dell’introduzione in Borsa di una filiale Internet di France Tèlécom ha permesso a questo operatore telefonico di guadagnare 295 miliardi di franchi [quasi 45 miliardi di euro] in un solo giorno, fenomeno che non si era ancora registrato sulla piazza di Parigi. France Télécom raggiungeva in tal modo una capitalizzazione borsistica di 1.470 miliardi di franchi, ovverosia, ancora una volta, l’equivalente del bilancio francese. La stessa sera della sua introduzione nella Borsa di New York, il fabbricante di calcolatori tascabili americamo Palm Pilot vedeva il proprio valore superare i 53 miliardi di dollari, più di quello della General Motors, primo costruttore automobilistico mondiale!

Ignacio Ramonet ricorda che “un risparmiatore che avesse semplicemente investito il giorno del loro ingressoin Borsa 1.000 dollari in azioni di ciascuno dei cinque grandi di Internet (AOL, Yahoo!, Amazon, AtHome, eBay) avrebbe guadagnato, alla data del 9 aprile 1999, un milione di dollari”! La valorizzazione borsistica dei titoli Internet h suscitato una sorta di follia, testimoniato dalla moltiplicazione dei cosiddetti start up. Anche in questo caso, il modello adottato è quello dell’economia virtuale e della fuga in avanti. “Società che non hanno mai realizzato profitti e non sono affatto sul punto di riuscirci vengono valutate cifre che rappresentano vari secoli di volumi d’affari”. Le delusioni sono, beninteso, dietro l’angolo. Alla fine di marzo del 2000, alla Borsa di New York, 700 miliardi di dollari (due volte l’importo del debito estero dei paesi africani) se ne sono andati in fumo nello spazio di 24 ore. Alcuni giorni dopo, il crollo del Nasdaq, il mercato elettronico in cui vengono quotati i valori dell’alta tecnologia) si traduceva in una nuova perdita di 800 miliardi di dollari.

Consentendo ad ogni attività di diventare immediatamente transnazionale, in qualunque luogo del pianeta si trovi, Internet ha comunque il valore di un simbolo. Uno dei tratti caratteristici del nuovo capitalismo è infatti l’abolizione della distanza e del tempo. Il denaro circola in tempo zero da un capo all’altro del pianeta, e questa mobilità, che contrasta con la pesantezza delle burocrazie statali di cui accentua l’impotenza e accelera l’obsolescenza, la si ritrova ad ogni livello: fra chi fa ordini e i subappaltatori, le multinazionali e i paesi, i mercati finanziari e le imprese. La mobilità (il “differenziale di spostamento”) tende ad essere eretta a norma assoluta, giacché gli imperativi della redditività comandano gli spostamenti degli uomini e le dislocazioni di imprese. “Si è messa una tecnologia del XXI secolo al servizio di un’ideologia del XIX secolo”, ha scritto Jack Dion. Il capitalismo è più che mai nomade.

Il primo capitalismo era già un capitalismo “selvaggio”, ma comprendeva anche un elemento di sicurezza legato alla diffusione della morale borghese e dei suoi valori-chiave (famiglia, patrimonio, risparmio, carità da patronato). Quell’elemento si è rafforzato nel secondo capitalismo, con il compromesso fordista e l’avvento dello Stato assistenziale: l’attività padronale lì era inquadrata da dispositivi regolamentari, da legislazioni fiscali, da una legislazione sul lavoro conquistata spesso attraverso la lotta, da strutture sociali, da tradizioni culturali, ecc. Quei due capitalismi erano inoltre fondati su rapporti gerarchici di dominio all’interno dei quali era ancora possibile una certa contestazione. A tale proposito, Bernard Perret osserva che “l’organizzazione gerarchizzata paradossalmente dà ulteriormente adito all’elaborazione democratica e al consolidarsi delle regole non mercantili. In una parola: se l’impresa fordista ha potuto costituire la scena centrale delle lotte per la democrazia sociale, è proprio perché il dominio del denaro vi si manifestava in modo esplicito come un rapporto di dominio fra persone”.

Tutto questo è andato in briciole con il capitalismo della terza età. Ritrovando l’appetito delle origini ma con mezzi largamente moltiplicati, esso tende a far scomparire ogni sistema di sicurezza, giacché la sua idea di base è che, in un’economia in cui la concorrenza sopravanza le organizzazioni e le istituzioni, il dato sociale non deve assolutamente venire a disturbare il gioco del mercato.

A causa della deregolamentazione, i salariati vedono scomparire uno dopo l’altro, sia sotto i governi di sinistra che sotto quelli di destra, i vantaggi e i diritti acquisiti grazie a decenni di lotta sindacale. Nel contempo, il carattere informatico del neocapitalismo (si producono sempre più beni e servizi con sempre meno uomini) fa sì che la crescita diventi “ricca di disoccupazione”, come ha scritto Alain Lebaude, mentre la flessibilità si traduce soprattutto nella svalutazione del concetto di statuto e si sviluppano la precarietà e l’esclusione.

La disoccupazione tende a trasformarsi da congiunturale a strutturale. Da un lato si assiste alla diminuzione tendenziale dei posti di lavoro agricoli e industriali, alla quale si aggiungono i vincoli di bilancio che pesano sulla creazione di impieghi pubblici e i limiti inerenti allo sviluppo di posti di lavoro nel terziario commerciale. Dall’altro, la ricerca di manodopera si sposta sempre più al di fuori dei territori nazionali. Infine, e soprattutto, le grandi imprese industriali non solo non creano più posti di lavoro ma cercano, viceversa, di aumentare la produttività sopprimendone.

Ovviamente, la crescente influenza che i fondi pensione esercitano sui criteri di gestione delle imprese fa la sua parte. “Gli unici imperativi che contano per loro sono l’aumento della redditività dei fondi propri e la massimizzazione del valore azionario. L’obiettivo prioritario non è più, come nel precedente periodo fordista, assicurare la crescita dell’industria, bensì realizzare incrementi di produttività. Se necessario, chiudendo unità di produzione ritenute non abbastanza redditizie o, più esattamente, non in grado di soddisfare le norme di redditività molto elevate imposte dagli investitori. In questo nuovo regime, le dimensioni dell’impresa e il posto di lavoro diventano variabili di aggiustamento del sistema”.

Un tempo, un’impresa tendeva ad assumere quando realizzava profitti. Era così, anzi, che si giustificavano quei profitti: più le imprese andavano bene, meno disoccupazione ci sarebbe stata. Oggi accade il contrario. La decisione della Michelin, che ha annunciato simultaneamente la soppressione di 7.500 posti di lavoro e un aumento del 22% dei guadagni, è rivelatrice: la notizia viene accolta con un favore immediato dai mercati. Analogamente, quando il governo francese di Lionel Jospin avalla, nel giugno 1997, la chiusura delle officine Renault di Vilvorde, i fondi di investimento americani presenti nella proporzione del 5% nel capitale della ditta, applaudono di tutto cuore. La disoccupazione diventa così fattore di profitto, perlomeno a breve termine (perché non si tiene conto delle conseguenze sui consumi). In un contesto del genere, la crescita di posti di lavoro si spiega essenzialmente con lo sviluppo del tempo parziale e degli impieghi a breve periodo o precari. In altri termini: più la società va male, più aumentano i profitti.

Dallo sfruttamento all’esclusione

Alain de Benoist, L'impero interiorePoiché gli economisti liberali sono convinti che la società di mercato è il miglior sistema concepibile, il loro obiettivo consiste nel privilegiare le riforme strutturali che accrescono gli stimoli al lavoro e, contemporaneamente, nel ridurre i redditi della non-attività, vale a dire quelli che sono distribuiti dal sistema di protezione sociale. Da un lato si crea una disoccupazione strutturale, dall’altro si fa sempre di meno per i disoccupati. L’esclusione che ne risulta differisce fondamentalmente dalla sorte dei lavoratori dei quali, in altri tempi, il capitalismo si limitava a sfruttare la forza-lavoro. L’emergere del mondo delle reti si accompagna a nuove forme di alienazione basate sui differenziali di attitudini, ma anche di mobilità e di capacità di adattamento. Tenuto conto dei profili richiesti nei settori in via di espansione (intelligenza astratta e competenza tecnica), i sottoqualificati diventano sempre meno impiegabili, e dunque inutili. “Nella topica della rete”, scrivono Boltanski e Chiapello, “lo stesso concetto di bene comune è problematico perché, dato che l’appartenenza o la non-appartenenza alla rete restano in larga misura indeterminate, si ignora fra chi un “bene” potrebbe essere messo in “comune” ed anche, di conseguenza, fra chi potrebbe essere stabilita una bilancia di giustizia”.

Nel mondo delle reti, la giustizia sociale in effetti non ha praticamente più alcun senso. Chi passa fra le maglie è definitivamente escluso. Bernard Perret parla, del tutto a ragione, di una società elettiva e volatile, “fondata sulla capacità di evitare quel che disturba e, per questo motivo, generatrice di esclusione”. Per mascherare questo andazzo, i sostenitori della “nuova economia” fanno valere l’importanza ormai decisiva della creazione di profitto per l’azionista (share holder value). “Per molto tempo”, fa notare Jacques Julliard, “l’identificazione della direzione dell’impresa con il suo capitale è stata totale. Così, nel sistema francese classico, la figura del PDG, nel contempo presidente del consiglio di amministrazione e direttore dell’impresa, assicurava perfettamente l’identificazione fra azionariato e padronato. Oggi, la tendenza del capitale a rendersi autonomo, incoraggiata dal peso crescente dei fondi pensioni, lo colloca nella posizione di controllore esigente della redditività dell’impresa”.

Di fatto, gli azionisti hanno sempre più importanza nel sistema. Ormai sono loro, e non più il capo dell’impresa o il padronato, a reclamare fusioni e licenziamenti per far salire i propri dividendi. Lo si è visto chiaramente in Francia, dove alla fine sono stati gli azionisti ad arbitrare la battaglia borsistica fra la Bnp, la Société générale e Paribas, mentre il ministero delle Finanze era ridotto al ruolo di spettatore. L’azionariato viene dunque presentato come se fosse la ricetta miracolosa sia dai sostenitori del “capitalismo popolare” che dai liberali, i quali arrivano al punto di spiegare molto seriamente che esso consente di realizzare il vecchio sogno socialista di appropriazione delle imprese da parte dei lavoratori.

Il risultato è in realtà quello di mettere i salariati-azionisti in una situazione di “duplice legame” quasi schizofrenica. Da una parte, in quanto azionisti, essi hanno paradossalmente interesse ad affrancarsi dalla “dura disciplina del capitalismo”, nella fattispecie dal carattere eminentemente rischioso di tutte le attività che mirano a raccogliere rapidamente un profitto, nel momento stesso in cui rafforzano tale disciplina svolgendo il ruolo di acquirenti di azioni. Dall’altra, i loro interessi di salariati si contrappongono direttamente ai loro interessi di possessori di azioni, dato che i loro guadagni, in quanto azionisti, dipendono strettamente dal successo di politiche sociali che sono loro ostili in quanto salariati. “Questi salariati-redditieri sono così doppiamente perdenti”, constata Dominique Plihon: “come salariati, sopportano le conseguenze della “flessibilità” che la ricerca sfrenata del massimo profitto immediato esige; in quanto risparmiatori, sopportano in prima fila i rischi legati all’instabilità dei mercati finanziari”. Poiché il capitale resta essenzialmente concentrato in un numero di mani molto limitato, l’azionariato dei salariati, in assenza di qualunque ridefinizione dei loro poteri reali all’interno delle imprese, in definitiva rappresenta semplicemente un sovrappiù per il capitalismo patrimoniale individuale.

Dal capitalismo salariale al capitalismo patrimoniale
La sostituzione di questo capitalismo patrimoniale, nel quale i dividendi attribuiti agli azionisti svolgono un ruolo di primaria importanza, al vecchio capitalismo salariale accentua ovviamente le ineguaglianze, poiché la ripartizione dei patrimoni è sempre più dispersa di quella dei redditi. Il sistema delle stock-options, usato dalle società a rapida crescita per remunerare i propri dirigenti, consente nel contempo a taluni di questi ultimi di crearsi fortune colossali. Il capitale rimane sempre remunerato meglio del lavoro, poiché il fatto che le collocazioni borsistiche diano molti più guadagni della crescita reale significa semplicemente che la parte del prodotto annuale che non proviene da tali collocazioni (essenzialmente i salari) diminuisce.

È pertanto l’intero volto della società a modificarsi un po’ alla volta. Un tempo, i guadagni fatti registrare dai vincitori giovavano ancora un po’ ai perdenti, situati in fondo alla piramide sociale. Adesso non è più così. L’estendersi della disoccupazione segna la fine dell’epoca in cui chi entrava nella classe media (e i suoi discendenti) aveva la certezza di non ricadere in ambito proletario. Mentre i liberali ripetono imperturbabilmente che il libero scambio è un gioco “al quale vincono tutti” (Alain Madelin), ad imporsi progressivamente è il modello della “società a clessidra”: dei ricchi sempre più ricchi, dei poveri sempre più privi di mezzi e tenuti in disparte, e in mezzo una classe media che si restringe.

Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragion mercantile dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell'economia globaleMentre il mondo diventa globalmente sempre più ricco e masse finanziarie sempre più enormi circolano da un posto all’altro, gli scarti fra redditi e patrimoni continuano ad accrescersi, sia tra i paesi che all’interno di ciascun paese. Nelle imprese statunitensi, il fattore moltiplicativo fra il salario medio e quello più elevato è passato da 20 a 419 nell’arco di trent’anni! La fortuna delle tre persone più ricche del mondo supera oggi da sola l’importo della produzione annuale dei 48 paesi più poveri, dove vivono 700 milioni di abitanti. Dappertutto, si allarga il fossato che separa i “connessi” e i “non connessi”, le élites finanziarie e la massa dei lavoratori precari, dei piccoli salariati, dei disoccupati di lungo corso, dei giovani inattivi e sottoqualificati. Anche questa nuova frattura sociale su scala planetaria è un fatto nuovo.

Nel contempo si sta costituendo un’élite “all’avanguardia”, una “iperclasse”, come la definisce Jacques Attali, egoista e volatile, di cui non fanno parte né gli imprenditori né i capitalisti vecchio stile, bensì degli individui la cui ricchezza è composta da un attivo nomade, che detengono il sapere, controllano le grandi reti di comunicazioni, cioè l’insieme degli strumenti di produzione e diffusione dei beni culturali, e non hanno il benché minimo desiderio di dirigere gli affari pubblici, dei quali conoscono meglio di ogni altro il ruolo sempre più limitato.

“Non si può negare”, scrive Laurent Joffrin, “che una “neo-borghesia” domina ormai la società francese, come molte altre società democratiche. Oltre che per la ricchezza o per l’occupazione di posti di rilievo, questa nuova classe si distingue per la sua mobilità. Mobilità professionale, intellettuale, geografica. Concentrata nelle professioni “che si muovono”, la comunicazione, la finanza o la tecnologia di punta, essa detiene il potere sia simbolico che materiale, e con ciò i mezzi per influenzare la pubblica opinione. Fa parte di un mondo della rapidità, dell’adattamento, della concorrenza; forma un’umanità rilassata, internazionale, tollerante, un pochino cinica, dalla cultura cosmopolita e dal potere di acquisto variabile ed elevato […] Niente le è più estraneo, in fondo, delle frontiere, degli statuti, delle garanzie, dei regolamenti, delle proibizioni, insomma delle protezioni che appaiono al comune mortale come barriere indispensabili di fronte alle alee dell’esistenza […] Al riparo dalle vicissitudini di una società soggetta all’apertura e all’anomia, protetta dalle sue società di vigilanza e dalle sue stock-options, la nuova classe abbandona alla
sua triste sorte il popolo comune e ne bolla come “populismo” la volontà di mantenere le protezioni di un tempo”.

Di contro ai liberali che sostengono il mercato “autoregolatore”, i dirigenti socialdemocratici avanzano la pretesa di regolare o inquadrare il neocapitalismo. Ma possono ancora farlo? I socialisti hanno abbandonato da un pezzo l’idea dell’appropriazione collettiva dei mezzi di produzione. Il governo francese di Lionel Jospin si è opposto all’acquisto di Orangina da parte della Coca-Cola, ma non ha impedito né i licenziamenti alla Michelin né la chiusura dell’officina Renault di Vilvorde. Quando il Primo ministro dichiara di volere che lo Stato si impegni in una “vigorosa politica industriale”, si può pensare davvero che esso ne abbia i mezzi?

A vocazione redistributiva o correttiva che siano, i tentativi socialdemocratici o “liberali di sinistra” di trovare un accettabile compromesso fra gli imperativi della vita sociale e democratica da un lato e l’egemonia del mercato e le esigenze della globalizzazione dall’altro non producono alcun effetto concreto. Anzi, nella misura in cui rapportano il livello di benessere esclusivamente alla ricchezza monetaria, non rimettendo assolutamente in discussione il modello sociale dominante, rafforzano la centralità del lavoro remunerato, continuando in tal modo a collocarsi nell’alveo del processo di individualizzazione e di monetarizzazione della vita sociale. La verità è che lo stato assistenziale fa oggigiorno sempre più fatica ad intervenire nel campo economico, cosa della quale si felicitano i liberali, che da tempo aspirano all’”impotenza pubblica”.

Il vecchio capitalismo era ancora legato alla nazione, nella misura in cui i profitti delle imprese erano essenzialmente realizzati in quel contesto, contribuendo pertanto, almeno indirettamente, alla potenza nazionale. Oggi, quei guadagni vengono cercati al di fuori del contesto degli Stati nazionali, e la conseguenza è che il regime normativo del neocapitalismo vale indifferentemente per tutti i paesi. La globalizzazione finanziaria ha spostato la realtà del potere economico dal livello delle nazioni a quello del pianeta, dalle imprese classiche alle ditte transnazionali, dalla sfera pubblica agli interessi privati. Gli Stati, vittime della crescente potenza dei mercati e della loro internazionalizzazione, non hanno più i mezzi necessari a una politica economica a lungo termine. La mobilità degli investimenti internazionali, che continuano a spostarsi per cercare maggiori profitti, limita direttamente la loro capacità di azione, in particolare in campo sociale e fiscale: ogni volontà di regolazione che non va in direzione degli interessi del capitale viene immediatamente sanzionata dalle delocalizzazioni di imprese, dall’espatrio dei quadri d’azienda e dalla fuga dei capitali. In Europa, più della metà delle decisioni che hanno un effetto diretto sul prodotto interno lordo sono ormai di natura non governativa. In Francia, la crescita delle spese obbligatorie (debito, occupazione, funzione pubblica) ha per giunta ridotto dal 43% del 1990 al 12% del 1998 i margini reali per manovre di bilancio.

Marco Saba, Bankentein. Tutto quello che non avreste mai voluto sapere sulle banche Wolfgang H. Reinicke ha ben analizzato questo squilibrio fra gli Stati nazionali, che continuano a ricavare la propria legittimità dal mantenimento di frontiere che non fermano più niente, e i mercati, che un tempo dipendevano sia dal potere politico che dalle socialità locali e oggi si ritrovano emancipati da qualunque vincolo territoriale. La creazione di ricchezza, e persino di moneta, oggi avviene al di sopra delle banche e degli Stati, mentre gli scambi si organizzano per sfuggire a qualunque fiscalità.

Sarebbe dunque un errore credere che l’espansione del neocapitalismo possa essere arginata da uno Stato nazionale che pratichi una sorta di keynesismo rinnovato. Non solo lo Stato oggi è sempre più impotente, ma inoltre, contrariamente a quanto ancora diffusamente si pensa, da molto tempo non rappresenta più l’interesse generale in opposizione agli interessi particolari. Da molti punti di vista, si è anzi deliberatamente posto al servizio del mercato. “Il successo del capitalismo è dovuto tanto al ruolo dello Stato quanto a quello del mercato”, ci ricorda l’economista Amartya Sen, premio Nobel 1998. Stupisce vedere una certa sinistra dimenticare il ruolo svolto dallo Stato borghese nella promozione del mercato e, contemporaneamente, la “natura di classe” che un tempo essa gli attribuiva.

Il sistema fagocita i vecchi valori della contestazione
Nel loro libro, Boltanski e Chiapello si interrogano anche sui motivi dell’indebolimento delle critiche un tempo rivolte al capitalismo. Distinguono la “critica artista” e la “critica sociale”. La prima, tipica sia dell’anticapitalismo romantico che della contestazione libertaria del maggio 68, metteva l’accento soprattutto sul carattere inautentico del capitalismo, criticando la generalizzazione dei valori mercantili provocata dal suo dominio. Si esprimeva attraverso una forte rivendicazione di autonomia e di creatività. La seconda se la prendeva piuttosto con l’egoismo del capitale e con lo sfruttamento della miseria. Strumento classico della sinistra e dell’estrema sinistra sin dal XIX secolo, si limitava a denunciare l’ingiustizia e a reclamare salari migliori e maggiore sicurezza.

Queste due critiche, che si completavano l’un l’altra senza confondersi, dal momento che prendevano di mira forme di alienazione diverse, oggi sono visibilmente in declino. L’incorporazione dei valori in voga nel maggio 68 (creatività, convivialità, derisione, ecc.) nella dinamica del neocapitalismo, non tanto per effetto di una strategia deliberata (contrariamente a ciò che sostengono Boltanski e Chiapello) quanto piuttosto come risultato di un effetto di simbiosi, ha in larga misura disarmato la “critica artista”. La “critica sociale”, invece, ha patito non solo il crollo delle teorie o dei sistemi alternativi, ma anche la crescita dell’individualismo e della deistituzionalizzazione, che hanno liquefatto gli effettivi dei sindacati e dei partiti. Non c’è dubbio, infine, che una delle chiavi della longevità del capitalismo risiede nella sua capacità di nutrirsi delle critiche di cui viene fatto oggetto, ridispiegandosi in forme nuove senza per questo abbandonare la logica di perpetuo accumulo del capitale.

L’errore commesso dalla tradizionale critica sociale, tale quale ancora oggi la troviamo in un Pierre Bourdieu, consiste nell’essere rimasta ancorata a una concezione arcaica delle forme di “dominio”. Tale critica non ha saputo misurare appieno gli “spostamenti” operati dalla logica capitalistica attraverso le delocalizzazioni, la sostituzione della manodopera con le macchine, la relativa scomparsa della vecchia classe operaia e la crescita dell’azionariato. Non ha saputo scoprire le forme di alienazione caratteristiche del nuovo mondo delle reti. Le contraddizioni tra il capitale e il lavoro non sono scomparse, ma ormai svolgono solo un ruolo specifico nei confronti della razionalità d’insieme del sistema. L’espansione del potere dei mercati non comporta più semplicemente lo sfruttamento della forza-lavoro; induce anche una serie di fondamentali rotture di equilibrio, nei confronti sia della politica, sia della diversità delle forme dello scambio sociale. La monetarizzazione dei rapporti sociali, in particolare, trasforma e impoverisce il legame sociale in maniera inedita, mentre le istituzioni pubbliche vengono progressivamente colpite dall’obsolescenza.

Mauro Pasquinelli, Il libro nero degli Stati Uniti d'America. Storia criminale degli Usa (genocidi, invasioni, torture e terrorismo di stato...)Il fatto nuovo è che il mondo del lavoro ha rinunciato a rovesciare il capitalismo, limitandosi ad adattarlo o riformarlo. Ci si continua a scontrare sulla ripartizione del plusvalore, ma non si discute più sulla maniera migliore per accumularlo. È quella che Jacques Julliard, molto adeguatamente, ha definito “l’interiorizzazione da parte dei lavoratori della logica capitalistica”. Ciò che sembra in tal modo scomparire è un orizzonte di senso che giustifichi il progetto di cambiare in profondità l’attuale situazione. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa. Il capitalismo viene vissuto come un sistema imperfetto ma che, in ultima analisi, rimane l’unico possibile. La sensazione si diffonde a tal punto che non è più possibile sottrarsene. La vita sociale ormai viene vissuta esclusivamente nella prospettiva della fatalità. Il trionfo del capitalismo risiede innanzitutto in questo fatto di apparire come qualcosa di fatale.

Ne risulta una lenta conquista delle menti da parte dei valori mercantili, inseparabile dalla colonizzazione da parte del mercato di tutte le sfere della vita sociale; i due processi si appoggiano l’uno all’altro e si rafforzano a vicenda. Questa mercantilizzazione generalizzata della vita umana sta a significare che ormai si trovano ad essere assoggettati alla logica del mercato ambiti che sinora le sfuggivano, almeno in parte. L’informazione, la cultura, l’arte, lo sport, le cure alle persone, i rapporti sociali in generale, ormai sono connessi al mercato. L’instaurazione di un mercato dei “diritti ad inquinare” discende dalla medesima logica. “Da quando una parte delle attività di un settore è servita dal mercato, tutto il settore tende alla privatizzazione. Così si vedono precipitarsi verso il mercato tutte le attività che hanno a che vedere con l’educazione, la sanità, gli sport, le arti, le tecnoscienze, le relazioni umani”, osserva Jacques Robin.

Le conseguenze sono note. La privatizzazione dei trasporti provoca l’aumento dell’insicurezza e quindi degli incidenti. La commercializzazione delle sementi geneticamente modificate viene accettata prima che se ne siano potuti veramente conoscere gli effetti sull’ambiente naturale e sulla salute. L’alimentazione si deteriora, perché la concorrenza dei prezzi spinge a sacrificare la qualità dei prodotti. La ricerca della prestazione porta a sopprimere, con il pretesto di una redditività insufficiente, una quantità di esercizi commerciali, di ritrovi o di servizi sociali che in precedenza offrivano un certo conforto alla vita quotidiana. La stessa redditività viene valutata in modo puramente mercantile, senza tenere in conto gli effetti a lungo termine, le esternalità e le ricadute non finanziariamente calcolabili. Siamo arrivati al punto in cui lo statunitense Francis Fukuyama, ex teorico della “fine della storia”, può felicitarsi del fatto che “l’Organizzazione mondiale del commercio [sia] l’unica istituzione internazionale che abbia una qualche probabilità di diventare un organo di governo a livello mondiale”!

“Cadono le ultime maschere”, ne deduce René Passet, “e vediamo disegnarsi l’immagine del mondo che l’universo degli affari intende imporci: un mondo sistematicamente depredato, completamente finalizzato alla fruttificazione del capitale finanziario, un pianeta rinserrato nella rete tentacolare di un’idra di interessi che ha soltanto diritti, impone la propria legge agli Stati e chiede loro conto, esigendo il rimborso dei mancati guadagnati legati alla protezione sociale, alla difesa dell’ambiente, della cultura e di tutto ciò che costituisce l’identità di una nazione. Il denaro valore supremo e gli uomini per servirlo”.

Dopo la parentesi del XX secolo e il fallimento dei fascismi e dei comunismi, il capitalismo sembra così ritrovare le smisurate ambizioni che gli erano proprie quando fece la sua comparsa. Per certi versi, il capitalismo della terza età ha del resto molte più affinità con l’economia mercantile preindustriale del XVIII secolo che con l’economia manifatturiera del XIX. Sono rivelatrici le dichiarazioni dell’ultraliberale David Boaz, vicepresidente del Cato Institute di Washington, secondo il quale il XX secolo non è stato altro che una parentesi statalista nella storia del libro scambio. Secondo lui, “il liberalismo ha dapprima condotto alla rivoluzione industriale e, in un’evoluzione naturale [sic], alla nuova economia. Piuttosto che qualcosa di interamente nuovo, io credo che la globalizzazione sia il prolungamento della rivoluzione industriale […] In un certo senso, adesso siamo ritornati sulla strada tracciata proprio agli inizi del XVIII secolo, alla nascita del liberalismo e della rivoluzione industriale”. Aggiunge poi Boaz: “L’ideale dei liberali non è più cambiato da due secoli a questa parte. Vogliamo un mondo nel quale gli uomini e le donne possano agire nel proprio interesse […] perché facendo ciò contribuiranno al benessere del resto della società”. Per essere più chiari: più regnerà l’egoismo individuale, più il mondo sarà migliore! Il capitalismo ha conservato la disumanità delle origini, ma assume ormai forme nuove. Se ne deve dedurre che il suo regno è irreversibile? La storia, in realtà, resta sempre aperta. Il capitalismo, si è detto spesso, si nutre delle proprie crisi. Non è però sicuro che potrà sempre superare le proprie contraddizioni. Anche se crea di continuo nuovi bisogni, programma l’obsolescenza dei suoi prodotti e fa apparire sempre nuovi gadgets, non si può escludere l’ipotesi che la stessa abbondanza finisca per nuocere al mercato, nella misura in cui questo può funzionare soltanto in una situazione di relativa scarsità dei beni prodotti.

Un altro paradosso sta nel fatto che, nel sistema capitalista, il vantaggio competitivo si nutre delle differenze tra i paesi, mentre la sua generalizzazione finisce nel contempo con farle scomparire. La “bolla” speculativa non potrà gonfiarsi indefinitamente. Il sistema del denaro perirà a causa del denaro. Per il momento, tutto il mondo vive a credito. Il debito mondiale cumulato (dei nuclei familiari, delle imprese e degli Stati) è passato dal 1997 ad oggi da 33.100 a 37.200 miliardi di dollari, cioè al triplo del prodotto interno lordo mondiale. “In un certo senso”, fa notare Henri Guaino, “lo scivolamento del capitalismo industriale verso il capitalismo finanziario dà ragione a Marx: il capitalismo sega il ramo sul quale sta seduto”. Serge Latouche parla, con piena ragione, di un “sistema che marcia a piena velocità, non ha marcia indietro, non ha freni e non ha pilota”. Stiamo danzando su un vulcano.

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Tratto da “Diorama Letterario” Numero 238 (Settembre 2000).

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Da oltre trent'anni, Alain de Benoist conduce metodicamente un lavoro di analisi e riflessione nel campo delle idee. Scrittore, giornalista, saggista, conferenziere, filosofo, ha pubblicato oltre 50 libri e più di 3000 articoli, oggi tradotti in una quindicina di lingue diverse. I suoi argomenti d'elezione sono la filosofia politica e la storia delle idee, ma è anche autore di numerose opere in materia di archeologia, tradizioni popolari, storia delle religioni e scienze umane.

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