La stampa quotidiana nella Repubblica di Salò

La Seconda guerra mondiale fu combattuta anche sui giornali. Pur nella sua condizione disperata, la Repubblica Sociale è la dimostrazione di come in quei duri frangenti la stampa – più ancora dei cinegiornali o della radio – fosse la punta di lancia della guerra ideologica. Lo storico Vittorio Paolucci riportava anni fa che, durante la RSI, la stampa quotidiana raggiunse la «notevole cifra di quarantasette testate». Senza contare il profluvio di pubblicazioni periodiche, locali o combattentistiche, durevoli o effimere, che contrassegnarono l’anno e mezzo di Salò. E forniva alcuni interessanti dati sulla diffusione: dal settembre 1943 all’aprile 1945 il “Corriere della Sera”, che da tempo era il più venduto in Italia, tirò in media 743.975 copie quotidiane (oltre due milioni nei giorni intorno all’8 settembre), contro le 349.778 della “Stampa”, le 160.000 del “Resto del Carlino” e le 130.000 del “Messaggero”, rimasti soli tra i fogli maggiori, dopo che Mussolini decise di non riaprire il “Popolo d’Italia”. Quello studioso proponeva anche l’interessante raffronto con le copie che il “Corriere” (divenuto nel frattempo “Corriere d’informazione”) pubblicò nell’immediato dopoguerra, dal maggio al dicembre 1945: in media 447.445 esemplari, dunque quasi la metà del periodo repubblicano, quando molto pesava il razionamento della carta e gli utenti raggiungibili erano distribuiti solo su una metà circa del territorio nazionale.

Proprio il “Corriere”, per la diffusione e l’incidenza che aveva sull’opinione pubblica, rappresenta uno specchio eloquente sia degli storici vizi del trasformismo italiano, sia della conformazione ideologica della RSI. Alcune tra le maggiori firme del Ventennio, allo scoccare del 25 luglio, sparirono d’incanto. Mussolini in persona, in una delle sue prime “Corrispondenze repubblicane”, del novembre ‘43, regolò i conti con questi ennesimi opportunisti, scrivendo che erano anch’essi marionette del gioco reazionario: «Così i Giordana, gli Alvaro, i Giovannini e gli Janni, i Burzio e i Montanelli dimenticarono e vollero far dimenticare il loro passato di scrittori e soprattutto di profittatori del fascismo…». Dopo la lunga direzione di Aldo Borelli durante il Ventennio, alla data del 25 luglio scattò il cambio della guardia. Ripescato il vecchio fascista-antifascista Ettore Janni, ritornato allo scoperto il liberale Luigi Einaudi – unica firma nota nella nuova (si fa per dire) redazione antifascista – il “Corriere” affrontò la tempesta dei giorni badogliani e poi dell’armistizio con la consueta ricetta dell’attendismo e dell’opportunismo. Che già nel 1922 aveva contraddistinto il “fiore all’occhiello” della borghesia milanese.

Ne sono esempio gli equilibrismi dialettici e le penose divagazioni cui il “prestigioso” quotidiano si adattò per sbarcare il lunario, evitando di schierarsi e facendo finta di niente, per tutto il mese di settembre e anche oltre. Con episodi decisamente ridicoli, che dovrebbero essere fatti studiare ai giovani laureandi in storia del giornalismo. Per dire, con quel bel capolavoro di armistizio appena concluso, coi tedeschi in casa, gli americani alle porte, i bombardamenti quotidiani e la tragedia mondiale in corso, il “Corriere”, questo molto “autorevole” quotidiano dell’imprenditoria illuminata, dava corso ad articoli di prima pagina sui seguenti argomenti: L’avvenire della trattrice agricola (articolo di fondo, 20 settembre), Riparliamo di Carducci (il giorno 25), oppure Che cosa possiamo aspettarci dalla frutticoltura moderna (altro fondo, 1° ottobre). Paolucci, nello sciorinare questi esemplari di elevata coscienza politica, si chiedeva se si trattasse di attendismo o di pavidità. Probabilmente, le due cose insieme. Fino al giorno in cui – il 6 ottobre 1943 – Ermanno Amicucci viene nominato direttore, Janni scappa in Svizzera, Einaudi si inabissa di nuovo e il proprietario Mario Crespi, già arrestato dai fascisti, viene liberato e rimesso in sella per magnanimo intervento personale di Mussolini…

Solo allora il “Corriere” torna ad assumere una sua fisionomia. A petto del deserto di nomi dell’epoca badogliana e post-badogliana, appaiono firme di assoluto valore. Da Soffici, che pesta sul pedale della “guerra proletaria”, a Virgilio Lilli, Ojetti, Manacorda, Coppola, Rolandi Ricci, al pétainista svizzero Paul Gentizon, a Giovanni Comisso, che verga articoli di denuncia contro i bombardamenti terroristici, fino all’inviato Luigi Cucco, che firma scoop formidabili, come l’intervista alla famosa aviatrice Hanna Reitsch, collaudatrice delle V1, o quella al generale russo Vlassov, capo dell’esercito antibolscevico che si batte a fianco dei tedeschi. E fino a quell’altro inviato famoso, Luigi Romersa, che nel 1944 visitò le basi missilistiche di Peenemünde, dove si incontrò parecchie volte con von Braun. Ma è lo stesso direttore Amicucci a portare una nota di oltranzismo fascista “di sinistra”, che suona quanto meno strana nelle pagine di un quotidiano tradizionalmente d’ordine come il “Corriere”. Qualcuno mise il silenziatore a Crespi? Ad esempio, già il 30 ottobre del ‘43, esce un articolo di Amicucci in cui si sostiene senza tante perifrasi che «il fascismo non ha mai aspirato ad altro che a porre in atto i postulati del socialismo. L’ordine nuovo è basato sul più ampio riconoscimento dei diritti del lavoro e su una ripartizione dei redditi…».

Qui si ha il fulcro di quel dibattito ideologico interno alla RSI di cui dicevamo, e che ne rivela il dinamismo politico e la varietà delle posizioni. Gli schieramenti sono noti: i “duri” (Pavolini, Farinacci e Mezzasoma i più in vista), e i “moderati” (le “tre B” di Biggini, Ballisti e Borsani, più molti giornalisti come Spampanato, Pini, Pettinato, Manunta). Il “Corriere” si rivela un buon terreno per aperturismi clamorosi, nel bel mezzo della guerra civile. Questo aspetto – che stride non poco con l’opinione comune circa un Fascismo repubblicano brutalmente intollerante – viene ora rimarcato da un piccolo libro, La Repubblica Sociale Italiana attraverso le pagine del “Corriere della Sera”, di Alberto Mazzi (Prospettiva Editrice). La polemica politica e il confronto dialettico tra posizioni differenziate, più che la monolitica compattezza totalitaria: questo sembra essere il Fascismo di Salò, quale traspare non solo dalle testimonianze documentali o dai fogli della militanza, ma ora anche dalle rivisitate pagine del sussiegoso e prudente “Corriere”.

Ad esempio, è proprio Amicucci, sin dai primi giorni della sua direzione, ad aprire al dialogo con i lettori, accettando senza complessi la critica e il dissenso: rispondendo, nel novembre ‘43, a lettere di lettori che criticavano senza mezzi termini Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia; facendo uscire, il 7 dicembre, il noto articolo di Giuseppe Morelli Meno Costituente e più combattenti; o quello del 17 marzo ‘44 dello stesso giornalista, Dei doveri verso lo Stato, in cui i metodi del Ventennio venivano sottoposti a impietosa critica: «Ma è possibile che tutto andasse sempre bene?… Tutto questo male è dipeso dalla mancanza di una seria coscienza dei doveri del cittadino verso lo Stato».

Ma, soprattutto, il “Corriere” divenne il luogo di partenza di un progetto trasversale di conciliazione tra opposte fazioni di Italiani, che doveva essere in grado di allacciare fascisti moderati e antifascisti anticomunisti in un sognante disegno di “resistenza” comune. Che ebbe, comunque lo si giudichi, una sua rilevanza storica.

Alle origini del progetto ci furono certi articoli di “Giramondo” (in realtà, il vecchio socialista antifascista Carlo Silvestri, ex-redattore del “Corriere” sin dal 1910, riavvicinatosi a Mussolini nei mesi di Salò), apparsi sul giornale milanese dal marzo al maggio ‘44. In essi, l’anonimo articolista, col tacito avallo del Duce, partendo da un giudizio sul fallito sciopero del 1° marzo, ventilava la possibilità che si potesse fare una politica comune tra fascisti e socialisti. Detto tra le righe, ma neanche troppo. In questo senso, “Giramondo”, ad esempio in un articolo del 7 aprile, fece l’elogio di alcuni socialisti di Molinella, graziati dal Duce e considerati membri di un “autentico socialismo” rivoluzionario, ma alla maniera di quello patriottico del vecchio Massarenti. Effettivamente, la storia registra numerosi abboccamenti.

L’obiettivo era garantire l’indipendenza dell’Italia dopo una vittoria anglo-americana e, contestualmente, preparare lo scheletro di uno Stato in grado di raccogliere l’eredità sociale della RSI. Evitare, cioè, un futuro dominio tanto dei liberali quanto dei comunisti. È un fatto che vi furono riunioni in casa niente meno che di Gastone Gorrieri, capo ufficio-stampa della “Legione Autonoma Ettore Muti”, presenti l’ex-sindacalista rivoluzionario Pulvio Zocchi, Ugo Manunta, il questore di Milano Bettini e noti antifascisti come Germinale Concordia e Gabriele Vigorelli, collaboratore di Corrado Bonfantini, a sua volta antico amico di Silvestri dai tempi del confino.

Non solo, il progetto di una costituenda “Lega dei Consigli Rivoluzionari” venne portato a conoscenza di personaggi di primo piano come Franco Colombo, comandante della “Muti”, il capitano Riccio della “X Mas” e il generale Diamanti. Evidentemente, c’era disponibilità a trattare da una parte e dall’altra, al fine di raggiungere, quanto meno, un’alleanza militare tra reparti repubblicani e “patrioti” a difesa soprattutto dei confini orientali. La storica Gloria Gabrielli, anni fa, nel suo documentatissimo studio su Silvestri, ha riportato l’elenco dei sicuri informati sul progetto, che non è da poco: Pisenti, Pini, Tarchi, Biggini, Pellegrini, fino al generale Renzo Montagna, il capo della Polizia… tanto che a fine novembre ‘44 «l’obiettivo sembra quasi raggiunto». È quando l’antifascista Bonfantini si incontra con Nicchiarelli, capo di S.M. della Guardia Nazionale, e gli propone la costituzione dei “Battaglioni del Popolo”, da formare con militi della Guardia ed elementi designati dal CLN… Tutto questo, a seguito del “via” dato da Silvestri con i suoi articoli sul “Corriere”. Il fatto che il progetto sia infine abortito – interferenze tedesche da una parte e comuniste dall’altra, poi repentina crisi militare – non pregiudica il significato storico di queste iniziative. A tali risvolti appartiene anche l’episodio di Edmondo Cione, il filosofo che si fece interprete di un inaudito differenzialismo politico, esposto con varie collaborazioni al “Corriere” e che vide premiati i suoi sforzi di superare l’antitesi Fascismo-antifascismo. Ottenne infatti il riconoscimento legale da parte del Duce di un partito politico autonomo, il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista. Circa i cui propositi di creare una situazione rivoluzionaria alla resa dei conti, lo stesso Cione poté scrivere liberamente ancora sul “Corriere” del 16 febbraio 1945.

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Tratto da Linea del 3 ottobre 2008.

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