La sapienza dei faraoni

La conoscenza pitagorica mai non si estinse, troppi vantaggi infatti prodiga a chi ci si impegni. Basta calcolare le proporzioni e commentarle come hanno insegnato i tanti maestri. In Italia poi era la sapienza italica, che dettò al Vico il giovanile Antiquissima Italorum sapientia, prezioso esame etimologico della parola chiave per intendere la realtà alla maniera tradizionale. Meno ci seduce nel romanzetto del Cuoco dove sfilano i maestri della Magna Grecia. In Germania spicca il trattato di von Thimus, ammirevole, dove erano riunite al sistema pitagorico le filosofie dei geroglifici egizi; ma in Italia non poteva fiorire qualcosa del genere, dopo che un avo del Croce aveva raccomandato di cacciare dall’attenzione il ricordo del pitagorismo, raccomandando di sostituirlo con Hegel. Ci sarebbero voluti alcuni decenni perché rinascesse l’impegno pitagorico, col Reghini, che negava Euclide, ricostruendo con perizia mirabile tutto l’antico sistema, calcolando e disegnando con perizia sovrana. Ebbe una sua parte notevole nel fornire simboli antichi a Mussolini, finché costui cominciò a lavorare per stabilire un’intesa col Vaticano: sdegnato, tradito, Reghini si ritirò a fare il professore di matematica in una scuola media emiliana. Morì dimenticato attorno alla fine della Seconda guerra mondiale. C’era stato in precedenza soltanto un fedele del pitagorismo antico, il Rossetti, emigrato dal Regno delle sue Sicilie a Londra, autore dello stupendo e lunghissimo Il mistero dell’amor platonico nel Medioevo. Suo figlio, Dante Gabriele, doveva imporre le sue idee, con un’opera poetica e pittorica che sconvolse l’Inghilterra; ma ormai apparteneva alla letteratura inglese! C’era stata altresì, una letteratura pitagorica francese, che arricchì un giovane alsaziano nato nel 1880, René Adolphe, adottato quindi dal nobile lituano Schwaller de Lubicz. Sposò una donna devotissima e fertile scrittrice di romanzi d’ambiente egizio, Isha. Ebbero una bambina, Lucie Lamy, e vissero a spese del governo egiziano a Luxor, misurando accuratamente il tempio sulle rive del Nilo, a partire dal 1936 fino al 1952, quando la rivoluzione dei colonnelli repubblicani e socialisti fece crollare l’ambiente politico, loro ospite generoso. Di ritorno in Francia, morì nel 1961. La sua opera principale, l’esame pitagorico del tempio di Luxor, è stata ora tradotta da Paolo Lucarelli presso le Edizioni Mediterranee.

Schwaller de Lubicz tentò di riesumare la sapienza faraonica, alla quale avevano attinto Pitagora e Platone. Commenta Lucarelli: mancano informazioni precise su conoscenze scientifiche egizie “anche se piramidi, tempi, gestione del territorio, oggetti d’uso, calendari e altro ancora stanno a testimoniare l’esistenza certa di tale valore da stupire i contemporanei e ancora le civiltà più tarde”.

Esistette un’egittologia anteriore a Champollion, che interpretava i geroglifici filosoficamente e aveva avuto un maestro nella Roma secentesca col gesuita Athanasius Kircher; purtroppo dopo le dimostrazioni ineccepibili di Champollion, ci si illude di saper leggere documenti che non presentano un senso chiaro. Ci si ostina a tradurre neter con “divinità”, mentre denota il “fuoco segreto”, che agevola la corporificazione particolare dello spirito. Così ba si traduce per lo più con “anima” mentre è il secondo elemento accanto al ka, di natura più mobile. Schwaller de Lubicz rifiuta quasi tutto il ciarpame vario intorno all’antico Egitto. Capitò anche a me negli anni settanta di andare a Luxor e di accanirmi sulle rovine del tempio, ma la conclusione fu che al suo interno c’era una cappellina islamica, sede di un gruppo sufico. Ebbi preziosi contatti con il capo del gruppetto, che allora già stava la massima parte del tempo in Svezia. Ma all’anniversario della morte del capo della setta, si ripresentava in città e, avvolto in un velo candido, a cavallo guidava la processione festosa. Bastava ascoltare la confessione sua delle idee che l’ispiravano per disporre di una traduzione fedele delle strutture ideali che avevano dettato l’erezione dell’antico tempio.

Se debbo giudicare questa opera immensa di Schwaller de Lubicz, debbo partire da una censura preliminare: è uno schema gnostico arbitrario che egli tira in campo. È un abuso partire dall’idea d’una trinità incorporata all’Uno, idea cristiana che Israele o l’Islam respingono. Ancor di più accettare di esaminare come modello fondamentale il corpo dell’uomo immaginato, come detta l’evoluzione darwiniana, come suprema meta dei corpi di tutti gli animali, di mare, cielo e terra. Le civiltà sciamaniche credono che l’uomo debba imparare dagli animali, le scienze più recenti ritengono che molti pesci e uccelli siano dominati da una sensibilità minuziosa, che percepisce le correnti magnetiche di terra e mare. Per il resto l’occhio di Schwaller de Lubicz è pronto e raffinato: sa che tra passato e futuro c’è un momento presente che evidenzia l’essenza del tempo sia pure sul piano esoterico o subconscio. È anche veridico che l’annullamento di più e meno, lo zero, designa un carattere esoterico positivo: esiste. Il fondamento che Schwaller accetta è l’antropocosmo, definendolo con la dichiarazione che non abbiamo nulla da conoscere che si situi fuori di noi. Ma indagare sulle operazioni matematiche complesse di Schwaller sarebbe esasperante e superfluo, molto più prezioso è attenersi all’idea che il sonno è il modo di affondare nella realtà ignorandone i sistemi percettibili di ordinamento generale, restaurando così l’energia per aver eliminato la conoscenza cerebrale sì da conoscere i misteri della vita, sapendo ormai guardare a ciò che “a forza di vedere non si constata più”. Ogni istante di ogni giorno si applicano conoscenze segrete che, se le riconoscessimo, mostrerebbero senza velo tutte le potenze che racchiude l’uomo dell’antropocosmo. Le fronde degli alberi ne spiegano le radici.

L’assenza di mobilità e creatività simboleggia la preghiera come vittoria della personalità mortale, Nicodemo è colui che si dipartì dal Sinedrio per interrogare Gesù sulla rinascita e perciò secondo Schwaller è raffigurato nelle cattedrali con nelle mani la calotta cranica, come nell’arte bizantina i santi sono effigiati, rimossa la calotta, a testa piatta. Questa amputazione indica la pura intuizione che fa parlare la conoscenza innata del neter ossia della funzione cosmica. Fuor del Tempio l’uomo è simboleggiato da quello specchio d’inganni che inverte alto e basso, sinistra e destra: San Paolo, in partenza per combattere la cristianità, fu gettato faccia a terra e si sollevò nella visione della verità. Nell’Egitto faraonico la calotta cranica è sempre denotata da una corona o benda o fessura, essendo la chiave del pensiero faraonico. In genere presso i popoli antichi il sempliciotto, al quale fa difetto la calotta cranica, era venerato sempre. Il sempliciotto è privo della cima cranica, somigliante allo scarabeo stercorario.

Ciò che consente di discernere è in primo luogo l’odorato: polarizza il fuoco che separa (Seth), contiene il fuoco che unifica (Horo): come Satana e Lucifero. L’essere umano è l’atlante sul quale si leggono le zone del cosmo e le loro influenze dettate dal cielo astronomico, laboratorio di tutti i miracoli del mondo.

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René Adolphe Schwaller de Lubicz, Il tempio dell’uomo, introduzione e note di Paolo Lucarelli (2 volumi), Edizioni Mediterranee, Roma 2000, pagg. 1.022 (complessive), s.i.p.

Tratto da Il Sole 24 Ore del 26 novembre 2000.

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