La fragilità e la grandezza dell’uomo nella visione filosofica di Seneca

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Seneca. Incisione di Pieter Paul Rubens.

Grande è stata la fortuna di Seneca, come filosofo, per la suggestione del suo discorso sull’uomo, sulla sua miseria e sulla sua grandezza; sui temi del suo rapporto con gli altri e davanti alla morte, trattati con una sensibilità così intensa, così “moderna” (cercheremo poi di precisare meglio questo concetto), da colpire fortemente il lettore medievale e, ancor più, quello moderno.

Il suo incessante richiamo all’interiorità, la sua ostentata indifferenza per le cose esteriori, il suo senso di solidarietà e di fratellanza verso tutti gli esseri umani, anche i più poveri e disprezzati, per gli schiavi, per gli stessi malvagi, anch’essi infelici; la sua pietà per i sofferenti, gli infelici, suonano così nuovi rispetto alla mentalità antica, da aver dato adito alla leggenda, avvalorata da Sant’Agostino, di un suo rapporto diretto con il nascente cristianesimo e, in particolare, di un carteggio con l’apostolo San Paolo.

In realtà, non si tratta di temi veramente nuovi: anche se non ci sentiremmo di escludere, in via assoluta, che Seneca sia venuto a conoscenza, in un modo o nell’altro, della predicazione cristiana (cosa, anzi, tutt’altro che improbabile), gli elementi del suo pensiero tratti dal neopitagorismo, dal neoplatonismo e soprattutto dallo stoicismo, sono più che sufficienti a spiegare gli sviluppi della sua antropologia, della sua psicologia e della sua concezione etica.

Seneca non è un pensatore originale: è stato detto e giova ripeterlo; di suo, non aggiunge quasi nulla a ciò che si può trovare nei grandi filosofi greci, specialmente in Socrate, Platone ed Epitteto; nuovi, è vero, sono gli accenti del suo discorso, e non solo sul piano stilistico, con una sintassi nervosa e spezzata, impaziente di procedere da un pensiero a un altro, ricca di lampi, di intuizioni, di improvvise illuminazioni: non oseremmo dire, però, che anche la sua sensibilità e la sua visione morale siano realmente così innovative, come talvolta si è creduto di ravvisare.

Nella sua etica non c’è praticamente nulla che non fosse già stato detto, nello stoicismo ed anche in altre correnti filosofiche; certo, egli è stato coerente e deciso – ahimè, solo a parole, non nella sua vita – nel trarre le rigorose conseguenze dalle premesse e, quindi, nel riaffermare l’assoluta uguaglianza morale degli uomini davanti a Dio, senza distinzione di censo, di stirpe o di cultura.

Senza arrivare al giudizio severissimo di Mario Manlio Rossi, che gira impietoso il coltello nella piaga aperta della sua debolezza umana e, forse, della sua ipocrisia, smontandolo del tutto come pensatore (autore di «quattro filosofemi» per un pubblico di bocca buona), ci sembra che la sua originalità e soprattutto la sua convergenza con il cristianesimo siano state esagerate dai suoi estimatori, molto al di là del giusto e del ragionevole.

Per quello che riguarda il primo aspetto, l’originalità, abbiamo già detto come spesso si sia scambiata la sua originalità di scrittura con quella dei contenuti; ma il fatto che Seneca abbia detto con parole nuove cose già assai note non accresce di un pollice, evidentemente, la sua originalità di pensatore.

Certo, colpisce il fatto che egli sia stato l’unico, tra i filosofi pagani, a pronunciarsi apertamente contro gl’inumani spettacoli del circo, ossia contro l’aspetto più vistosamente barbarico e crudele della mentalità romana; ma bisogna tener conto del fatto che la civiltà di Roma non aveva il genio della speculazione: i suoi massimi rappresentanti, Lucrezio, Cicerone, Marco Aurelio (che però scriveva in greco), Apuleio e lo stesso Seneca, sono più dei letterati che dei veri filosofi e, comunque, non fanno che imitare i loro grandi modelli greci; Sant’Agostino è l’esponente di una nuova civiltà, romana di lingua, ma ormai cristiana di sentimento e di pensiero; e Giuliano l’Apostata appartiene di diritto al mondo greco, così come vi appartengono Plotino, Proclo, Porfirio e gli ultimi esponenti del neoplatonismo.

Seneca, insomma, è grande e parzialmente originale, se si limita lo sguardo alla cultura latina; se lo si allarga a quella greca, come è doveroso dal punto di vista storico, l’una e l’altra caratteristica si ridimensionano alquanto.

Si spiega in tal modo l’entusiastica ammirazione con cui, da sempre, guardano a Seneca i latinisti e specialmente gli storici della letteratura.

Scrive, ad esempio, il filologo Umberto Boella circa la concezione antropologica e morale del Nostro (in: Seneca, La condizione umana, Paravia, Torino, 1985, pp. VIII-XII):

«Come appare la vita a Seneca? Come il moralista, il politico, espertissimo del mondo, giudica gli uomini? Costante è in lui (come sarà poi anche in Marco Aurelio, per il quale noi tutti non siamo che “foglioline” in balia del vento) il senso della fugacità del tempo, che va accentuandosi sempre più col trascorrere degli anni, della precarietà dell’esistenza individuale: tutto è travolto, come in una corsa vertiginosa, noi siamo impegnati in una fuga incessante: “Rapina omnium rerum est: miseri, esciti in fuga vivere” (Ad Marc., X, 4); ma noi non ce ne accorgiamo: “inscii rapimur” (Ep. CVIII, 24); e siamo trascinati, volenti o nolenti, con le nostre illusioni, verso la morte, che, in tanta incertezza, è l’unica cosa certa. La sorte umana è mutevole: “iactantur cuncta et in contrarium transeunt iubente fortuna” (Ep. XCIX, 9); nulla ci è promesso, su cui possiamo fare sicuro assegnamento; intorno alla nostra vita strepitano infinite minacce, d’ogni specie (cfr. De Vit. Beat., XI, 1); e se l’uomo la confronta con l’eterno, quanto essa risulta breve! “Hoc quod aetatem vocamus humanam compara immenso: vide bis quam exiguum sit quod optamus, quod extendimus” (Ep. XCIX, 10). Ora, l’uomo, come si comporta in tale situazione? Vive, come se dovesse vivere eternamente, sempre proteso verso il futuro: “in spem toti prominent” (De tranq. an., II, 7); e perciò propriamente no vive, ma, come dirà Pascal, spera di vivere (Pensées, XXIV), e tra la speranza e il timore sempre ondeggia; una sventura lo coglie e si accascia perché non aveva mai pensato che gli potesse capitare una simile cosa; gli tocca morire: ma non sa, come dovrebbe, “uscire” dalla vita, “ne è strappato” (De brev. Vit., XI, 1), è aggredito dalla morte. Bisognerebbe che egli si preoccupasse di conoscere più a fondo se stesso, il significato della sua presenza nel mondo, la via vera che conduce alla felicità cui anela; ed invece si agita continuamente, spinto dalla brama di potere o di ricchezza o di prestigio, dall’ambizione e dalla cupidigia, senza trovare mai pace; e, insaziato ed insaziabile, è assalito dal disgusto di sé, “displicentia sui “ (De tranq. an., II, 7) dal “taedium”, se gli succede di trovarsi solo con se stesso; e si mete a viaggiare per stordirsi, cerca le contrade più diverse per paesaggio, passa da un luogo all’altro, dalla molle Campania all’aspra Lucania; ma invano: non riesce in alcun modo a placare l’affanno che lo rode; e non s’avvede che il male che lo travaglia è dentro di lui, anzi è lui stesso il suo vero nemico, con le passioni sempre deste che lo dilaniano. È incostante, non è capace di dare alla sua vita unità d’indirizzo, “unum hominem agere” (Ep. CXX, 22), ma muta continuamente proposito; si lascia condurre dalla massa, senza badare dove essa lo porta; non si cura di ciò che si deve fare, ma di ciò che i più fanno; giudica gli altri felici od infelici secondo le apparenze più illusorie; cede all’adulazione, non curandosi di “essere”, ma di “sembrare”; è servo del denaro, e facilmente cade in colpe d’ogni specie, froda, tuba; è onesto, disonesto, secondo l’opportunità e la convenienza, e sul momento è contento di essere riuscito a frodare, a rubare sfuggendo alle pene inflitte dalla legge; ma tosto la “conscientia” lo tormenta, perché la punizione di un delitto sta nell’averlo commesso, “quoniam sceleris in scelere supplicium est” (Ep., XCVII, 14).

Questa è la condizione degli uomini non ammaestrati dalla filosofia, in cui non è penetrata la saggezza; ed i grandi, i conquistatori, che sono oggetto di particolare ammirazione da parte degli uomini comuni, come si devono giudicare? Alessandro, Pompeo, Cesare? Essi obbedivano ciecamente all’impulso irrefrenabile della loro sete di potenza; e perciò non sono da considerare dei vincitori, ma dei vinti: tunc cum agere visi sunt alios, agebantur” (Ep. XCIV, 61); e, pur affannandosi notte e giorno nello sconfiggere un esercito dopo l’altro, nel conquistare un paese dopo l’altro, non sono riusciti che a disseminare la terra di rovine e di stragi, sempre inquieti, sempre infelici: “non est quod credas quemquam fieri aliena infelicitate felicem”.

Ecco come Seneca vede gli uomini del suo tempo, gli uomini, potremmo dire, di ogni tempo; toglie loro ogni velo: essi sono creature deboli, ignare, vittime di continue, tenaci, invincibili illusioni, dovute agli impulsi irrazionali, da cui si lasciano dominare. Quale sarà la via della salvezza? Come l’uomo potrà dimostrarsi veramente uomo, raggiungere la felicità cui tende per natura? Esiste una sola via, ed è quella che si percorre raffrenando le passioni sconvolgenti, portando ordine nel proprio animo mediante la ragione, la quale è il principio divino che ci caratterizza: “rationale animal es. Quod ergo in te bonum est? Perfecta ratio” (Ep. CXXIV, 23). Questo è il motivo fondamentale cui s’ispira il pensiero morale di Seneca, questa è la sua convinzione più profonda e salda, radicata in una viva, sofferta esperienza: la “perfecta ratio”, però, costituisce un ideale, cui l’uomo deve sempre mirare, pur sapendo di non poterlo mai attuare appieno; e Seneca stesso è consapevole, dolorosamente consapevole, della distanza che separa la sua condotta dalla dottrina insegnata: “non perveni ad sanitatem, ne perveniam quidem” (De vit. Beat., XVII, 4).

Non sono le cose esterne che rendono l’uomo felice od infelice; la felicità dipende dall’animo, dal modo con cui uno sa comportarsi di fronte alle varie situazioni. L’uomo cerca di prolungare al massimo a vita, la quale di per sé non è né un bene né un male, ma un rischio, “boni ac mali locus est” (Ep. XCIX, 12); e vale non già per la maggiore o minore durata, ma per l’impegno con cui uno sa viverla, attuando appieno se stesso: non bisogna curarsi di vivere a lungo, ma di vivere bene; il vivere a lungo è opera del destino, il vivere bene dell’animo: “non ut diu vivamus curandum est sed ut satis: nam ut diu vivas, fato opus est, ut satis, animo” (Ep. XCIII, 2, 7); non importa il luogo in cui uno abita, ma l’animo con cui uno in qualsiasi luogo si trova: “magis quis veneris quam quo interest” (Ep. XXVIII, 4); non importa quel che sopporti, ma come sai sopportarlo: “non quid, sed quemadmodum feras interest” (De prov. II, 4); non importa, di per sé, la causa più o meno grave, che determina una passione, ma l’animo che la accoglie: “nec interest ex quam magna causa nascatur [adfectus], sed in qualem perveniat animum” (Ep. XVIII, 15); non importa la ricchezza, il potere, che non sono mai bastevoli: sotto le più squallide spoglie può trovarsi la grandezza, la vera grandezza, bellezza morale (Ep., CXV, 7); da un misero cantuccio uno può innalzarsi al cielo, “subsilire in caelum ex angulo licet” (Ep. XXXI, 11), anche se non è cavaliere romano, ma umile liberto o servo, il quale riesca a trarre il suo bene dall’intimo, ad essere veramente padrone di se stesso. […]

Ma non basta che l’uomo riesca a vincere le passioni, a sottrarsi alla loro servitù, non basta che sia temperante, imperturbabile, questo è solo il primo passo: la meta cui egli deve tendere è la conoscenza del divino, del quale la sua ragione è partecipe; e la divinità si manifesta particolarmente nell’ordine meraviglioso dell’universo infinito, nell’armonia degli astri; Seneca, esule in Corsica, si sente, almeno in alcuni momenti, sereno e felice, vince il suo abbattimento, in quanto s’immerge nella contemplazione estatica del cielo stellato, s’immedesima in esso […] Perciò lo studio della natura, l’“inspectio rerum naturae” che per il filosofo ha un carattere sacro, non è oggetto di pura curiosità intellettuale, non è considerato sotto l’aspetto dell’utile, ma è del tutto disinteressato: “nec mercede sed miraculo rei colitur”(Nat. quaest. VI, 4, 2), non lo si coltiva per il vantaggio che se ne può ricavare, ma per il senso di stupefatta meraviglia che la natura suscita in noi (Einstein dirà che chi non è in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti (Einstein, Come io vedo il mondo, trad. it. di R. Valori, pp. 39-40)».

Il quadro delineato da Boella ci aiuta ad entrare nel merito della seconda questione che ci eravamo posta, ossia quella di una convergenza, esplicita o implicita, del pensiero morale di Seneca con quello cristiano.

Il tema del prepararsi ad uscire dignitosamente dalla vita è tipicamente stoico; Seneca afferma che è giusto e nobile privarsene, quando non sia più possibile condurla decorosamente (cita con ammirazione un gladiatore che si suicida prima dello spettacolo, lasciando il pubblico deluso): tesi che piace, è ovvio, alla moderna cultura liberal-radicale, ma che, evidentemente, fa a pugni con l’etica cristiana, perché, nella concezione cristiana, la vita è un dono di Dio e non sta all’uomo rifiutarla.

Ma la vita, per Seneca, non è un dono divino: egli dice esplicitamente che essa non è né un bene né un male, ma che può rivelarsi l’una o l’altra cosa, a seconda di come venga vissuta: il che equivale a negare che essa sia un valore in se stessa e ad affermare che possieda – piuttosto – un valore, in ragione della sua qualità morale.

Siamo lontanissimi, come si vede, dalla concezione cristiana, che considera sacra la vita umana in virtù dell’anima immortale che Dio vi ha infuso, indipendentemente dall’uso che, poi, ciascun uomo farà del proprio libero arbitrio.

Un’altra differenza sostanziale è che, per Seneca, l’uomo deve sforzarsi di vivere una vita degna alla luce della ragione: è mediante la ragione che egli può dominare le passioni; e lo deve fare per una esigenza interiore che ricorda più l’imperativo categorico kantiano, il famoso «tu devi», che non per un bisogno dell’anima di tornare alla sua fonte, cioè a Dio, amandolo sempre e uniformandosi in tutto alla sua volontà.

La simpatia, la benevolenza, la solidarietà e la compassione verso gli altri uomini hanno questa origine, per così dire, razionalista, che è tipicamente greca; anche quando predica il bene, la virtù, lo slancio dell’anima verso una vita realmente degna, lo fa perché ritiene, con Aristotele, che il tratto specifico della condizione umana sia la ragione, non per un bisogno autonomo del cuore e meno ancora per assecondare un comandamento divino basato sull’amore.

Certo, Seneca afferma che la ricerca e la pratica della virtù, della vita affrancata dalla schiavitù delle passioni, culmina nella contemplazione dell’armonia cosmica, ammirevole riflesso dell’infinita sapienza divina; la divinità che egli venera, tuttavia, non si mette affatto in una relazione personale con l’uomo, ciò che è il nucleo essenziale ed originale del cristianesimo: presiede al movimento degli astri e vigila sul grandioso spettacolo della natura.

Come il Grande Architetto dell’universo dei deisti nel XVIII secolo, il Dio degli stoici non sembra curarsi un gran che del destino delle sue creature: ispira gli uomini, ma non si manifesta loro; li sostiene mediante la Provvidenza, ma si tratta di una Provvidenza alquanto distaccata, che vigila affinché il mondo si regga in perfetto equilibrio e, in definitiva, coincide con la necessità: non ha assolutamente niente a che vedere con il concetto cristiano della provvidenza, ossia con l’idea di una presenza amorevole, costante, personale di Dio nella vita delle sue creature.

La divinità, nella concezione di Seneca, ha un carattere di sovrano distacco, di sovrana lontananza: non si capisce bene che ci stia a fare e se sia realmente un principio distinto dalla natura medesima; certo è che gli uomini, nella loro vita, se la devono sbrigare da soli, non devono aspettarsi nulla, devono assumersi tutta intera la responsabilità di come condurre la loro vita e anche eventualmente, di decidere se non sia giunto il momento di por fine ad essa.

Sì, è vero: l’estatica contemplazione dell’armonia cosmica, in Seneca, ha un carattere totalmente disinteressato, che la differenzia nettamente e irrevocabilmente da tutte le visioni utilitaristiche, proprie della modernità; in particolare, da quella visione scientifica del mondo, che fu teorizzata da Francis Bacon con il celebre motto: «sapere è potere»; ma questo non basta a farne realmente uno spirito moderno e neppure uno spirito religioso nel senso cristiano del termine: perché la fraternità umana che egli invoca si inscrive entro un orizzonte che é tutto terreno ed immanente.

Ed eccoci al punto relativo alla pretesa “modernità” di Seneca.

Seneca è moderno nel senso in cui si può dire che lo sia anche Petrarca: è un uomo inquieto, lacerato fra spinte contrastanti, conscio della sua debolezza, fiacco nella volontà, e tuttavia sinceramente proteso verso l’affermazione della sua parte spirituale; è anche un uomo profondamente introspettivo, incurante delle mode (almeno in teoria), tutto concentrato sul proprio mondo interiore, anche se non alieno da una certa tendenza all’esibizionismo o, almeno, a posare con gli altri e con se stesso. Se “moderna” è l’inquietudine; se lo sono l’acuta sensibilità, lo slancio verso l’assoluto, ma anche la tendenza ad immanentizzarlo, a risolverlo nella dialettica interiore; se lo è la contraddittorietà della coscienza, presa fra opposti richiami: allora Seneca è moderno.

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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