La coda di paglia della storiografia inglese e la guerra d’inverno finno-sovietica del 1939-40

Perché Hitler era “cattivo” quando invadeva la Polonia il 1° settembre 1939, mentre Stalin non lo era quando faceva la stessa cosa, pugnalando alle spalle i Polacchi già in rotta, il 17 dello stesso mese?

Perché Hitler era malvagio e in malafede quando invadeva la Danimarca e la Norvegia, nell’aprile del 1939, mentre prima Churchill e poi Roosevelt non lo erano, allorché facevano occupare l’Islanda da un esercito di 40.000 uomini, vale a dire più numeroso della popolazione maschile adulta di tutta l’isola?

E perché Hitler era perfido e brutale quando occupava la Boemia e la Moravia, nel marzo del 1939, senza sparare un colpo di fucile e su richiesta formale del presidente cecoslovacco Hacha; mentre Stalin, di nuovo, era animato da motivazioni strategiche puramente difensive, allorché lanciava la campagna d’inverno contro la Finlandia, che sarebbe costata 24.934 morti e 43.557 feriti ai finlandesi e 48.745 morti e 158.863 feriti ai sovietici, e avrebbe costretto la Finlandia a cedere il 10% del proprio territorio e il 20% delle proprie risorse industriali?

Soffermiamoci su quest’ultimo episodio, invero scarsamente studiato (e per ragioni non del tutto limpide) dalla storiografia dei “vincitori”.

Un buon esempio della parzialità e della scarsa onestà intellettuale degli storici anglosassoni, e specialmente britannici, a proposito della guerra d’inverno finno-sovietica del 1939-40, è offerto dal saggio di Douglas Clark, apparso più di quattro decenni or sono, Tre giorni alla catastrofe (titolo originale: Three Days to Catastrophe, 1966; traduzione italiana di Anna Piva e Girolamo Negri, Milano, Mondadori, 1967, pp. 33-37):

«Quando scoppiò il conflitto finlandese, il mondo occidentale sostenne che, in quanto a cinismo politico e appetito territoriale, c’era poco da scegliere tra la Russia comunista e la Germania nazista. Viceversa, sia i negoziati, sia il modo in cui venne condotta la guerra, provano il contrario. A differenza di Hitler, la cui tecnica di negoziazione consisteva nel domandare sempre di più, Stalin e Molotov avevano cercato seriamente di giungere a un compromesso. Per due volte avevano modificato le loro richieste, dando prova di pazienza e comprensione, e si erano dimostrati pronti a spendere tempo ed energia nel tentativo di arrivare a una soluzione pacifica. Tra il loro primo approccio diplomatico a Helsinki e l’incidente di Mainila [il 26 novembre 1939, che fece da esca al divampare del conflitto] erano trascorsi cinquantadue giorni. Né, come gli eventi avrebbero dimostrato, i sovietici volevano più di quanto avevano richiesto. Certo Molotov fu esageratamente rassicurante nel dichiarare per radio il 29 novembre, alla vigilia dell’invasione: “Noi guardiamo alla Finlandia, qualunque regime sia destinato a prevalervi [allusione molto discreta al fatto che i Sovietici stavano mettendo in piedi un governo finlandese fantoccio e filocomunista guidato da Kuusinen], come a uno Stato sovrano e indipendente nel quadro per quanto riguarda sia la sua politica interna che quella estera”; i più gravi timori dei paesi scandinavi si dimostrarono però ingiustificati. La Guerra d’Inverno non sarebbe stata un punto di partenza per altre conquiste, ma, come Mosca insistette sempre, un’operazione con scopi limitati.

Contro chi erano diretti, in realtà, i negoziati di ottobre-novembre [fra Helsinki e Mosca, su invito di quest’ultima]: questo è il vero punto della questione.

La posizione geografica della Finlandia era considerata un fattore chiave in tutti i calcoli politico-militari sovietici. I russi prevedevano, giustamente, che la guerra europea non avrebbe avuto un raggio ristretto e che, comunque si fosse sviluppata, la Finlandia vi sarebbe stata coinvolta. Mosca, quindi, riteneva che prevenire i potenziali nemici creando delle solide basi militari nel territorio finlandese fosse un’essenziale misura di precauzione e una mossa difensiva più che necessaria.

Ogni grande nazione occidentale era potenzialmente un nemico della Russia, e di nessuna l’Unione Sovietica poteva fidarsi. Il più grave pericolo da scongiurare era che Inghilterra e Francia si accordassero improvvisamente con Hitler, dandogli libertà di premere verso est o unendosi addirittura a lui in una nuova alleanza anti-sovietica. Mosca non escludeva, infatti, neanche quest’ultima possibilità. Stalin ricordava bene l’atteggiamento di Chamberlain e Daladier nella crisi cecoslovacca del ’38, e li aveva ricambiati di uguale moneta durante le manovre diplomatiche di quell’estate. Su queste basi di diffidenza reciproca, niente poteva essere esclusivo. Questo spiega perché l’Unione Sovietica intendesse assicurarsi a ogni costo il controllo di Petsamo, un bottino veramente magro, ma che poteva interessare potenzialmente la Gran Bretagna. Gli inglesi avrebbero potuto sfruttare questo porto artico per mandare aiuti militari in Finlandia anche se l’accesso al Baltico fosse stato chiuso. Ma, naturalmente, la prospettiva più probabile non era solo quella di un accordo anglo-francese con Hitler: questo era solo il peggio che potesse capitare. Con o senza accordo, la prima minaccia era la Germania. Nonostante l’accordo di agosto, questa Potenza rimaneva un pericolo stabile per l’Unione Sovietica. Esaltato dall’immediato successo sulla Polonia, Hitler, dopo un momento di respiro, avrebbe potuto riprendere la sua spinta verso est, rompendo i patti con l’URSS, con la stessa disinvoltura dimostrata in tante altre occasioni. Soltanto questo timore poteva spiegare le apprensioni della Russia circa Leningrado. Nessuna potenza, eccetto la Germania, rappresentava una seria minaccia per la città; ma per i tedeschi, se fossero avanzati a tenaglia lungo i due lati del Baltico e del Golfo di Finlandia, Leningrado sarebbe stata una facile conquista. Poiché lungo le coste meridionali gli unici Paesi sul percorso dell’avanzata erano la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, nei mesi di settembre e ottobre Mosca si affrettò a installare delle basi territoriali in ognuno di questi territori. Ma sull’altro lato della tenaglia, quale resistenza avrebbero potuto opporre i finlandesi, con le loro esili risorse, se Hitler avesse domandato il permesso di transito per le sue truppe? Lasciare la Finlandia neutrale e senza appoggi non era certo una mossa strategica sicura per l’U.R.S.S.»

Potremmo continuare, ma crediamo che basti.

La tortuosità e la dubbia onestà di giudizio storico spingono il Clark a sostenere addirittura, senza batter ciglio, che la Russia lanciò la sua guerra di aggressione contro la Finlandia… per non lasciarla priva di appoggio contro Hitler, il quale – però – non pensava affatto di minacciarne l’indipendenza e anzi, sollecitato dai finlandesi a promettere un qualche appoggio in caso di attacco sovietico, si rifiutò in modo categorico, per non irritare il suo alleato Stalin.

Quanto al fatto che Stalin avrebbe ripagato – secondo Clark – Chamberlain e Daladier con la loro stessa moneta, dopo la Conferenza di Monaco, mediante il patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, ci vuole veramente molta faccia tosta per mettere sullo stesso piano i due avvenimenti diplomatici. L’uno, la Conferenza di Monaco del settembre 1938, era stato pensato per giungere a una mediazione internazionale sulla questione dei Sudeti (abitati, non lo si dimentichi, da tre milioni e mezzo di Tedeschi posti sotto la sovranità cecoslovacca) e per salvare la pace mondiale; l’altro, il patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939, fu un accordo di non aggressione tra le due Potenze, accompagnato da un protocollo segreto che stabiliva la spartizione della Polonia e dei Paesi Baltici fra esse. E questo, quando Londra e Parigi avevano già dato a Varsavia assicurazioni di sostegno incondizionato in caso di guerra, ma soltanto contro Berlino.

L’elenco delle politica dei due pesi e delle due misure in questo breve brano di prosa potrebbe proseguire a lungo. Ad esempio, si potrebbe osservare che Stalin viene perfettamente giustificato se diffidava della parola di Hitler, dato che quest’ultimo «aveva già tante volte mostrato la sua disinvoltura rompendo i patti» sottoscritti con altri Stati; mentre nulla si dice, pudicamente, del modo in cui l’Unione Sovietica ruppe disinvoltamente i patti con vari Paesi, prima e durante la seconda guerra mondiale, ad esempio quando dichiarò guerra a tradimento contro il Giappone, già messo in ginocchio dalle sconfitte militari e dalle due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto del 1945.

E c’è bisogno di ricordare la strage di Katyn, dove circa 22.000 Polacchi, tra i quali 8.000 ufficiali già fatti prigionieri con la “pugnalata alla schiena” del 17 agosto 1939, venero giustiziati con un colpo alla nuca e gettati in grandi fosse comuni, allo scopo di decapitare una volta per tutte la classe dirigente di quella nazione?

Perfino l’invasione dell’Estonia, della Lettonia e della Lituania, avvenuta in due fasi, tra il 1939 e il 1940, viene presentata come una giusta e necessaria mossa difensiva da parte dell’Unione Sovietica, sulla base della legittima “azione preventiva”: come dire che, quando si ha a che fare con un tipo come Hitler (quasi che Stalin fosse stato moralmente migliore di lui), qualunque violazione delle norme internazionali diventa lecita e perfino inevitabile: perché il fine giustifica i mezzi, come insegna Machiavelli.

Soldati finlandesi in trincea durante la Guerra d'inverno.
Soldati finlandesi in trincea durante la Guerra d’inverno.

Non sostiene forse, il Clark, che i Sovietici, durante i colloqui di Mosca con i rappresentanti finlandesi, «avevano dato prova di pazienza e comprensione», quasi che fossero stati i Finlandesi ad avanzare esose richieste, e non i Sovietici, invece, a pretendere la cessione di posizioni strategiche, senza le quali la Finlandia si sarebbe trovata alla mercé del suo potente vicino, proprio come stava avvenendo all’Estonia, alla Lettonia e alla Lituania?

È proprio il caso di dire, con Fedro, che, quando il lupo ha deciso di aggredire l’agnello e accusa quest’ultimo di sporcargli l’acqua in cui si vuole dissetare, a nulla giova fargli notare che ciò è impossibile, dal momento che lui, il lupo, si trova a monte del corso d’acqua, mentre l’agnello si trova a valle; o fargli notare, quando accusa l’agnello di aver parlato male di lui sei mesi prima, che il povero agnello, a quell’epoca, non era neppure nato…

Eh, sì, questi benedetti Finlandesi: che arroganza, volersi opporre a una serie di mutilazioni territoriali e strategiche, quando erano in gioco i “sacri” diritti di una grande Potenza; una Potenza che, di lì a poco, si sarebbe messa alla testa della crociata mondiale contro la piovra nazista, e quindi in difesa della libertà di tutti i popoli oppressi o minacciati dall’Asse.

In effetti, tutto il libro di Douglas Clark è finalizzato a dimostrare l’indimostrabile, e cioè che l’alleanza realizzatasi nel 1941 fra Gran Bretagna (e Stati Uniti) da una parte, e Unione Sovietica dall’altra, era inevitabile, perché si trattava di Potenze sostanzialmente pacifiche, costrette a difendersi dalla irragionevole aggressività tedesca e, perciò, destinate a ritrovarsi dalla stessa parte: la parte “giusta” della barricata, la parte “giusta” della storia, contro il nazifascismo e in difesa della libertà di tutti i popoli del mondo.

Peccato che da questo idilliaco quadretto non risulti né la posizione di dominio mondiale dell’Impero britannico, che, con gli Stati Uniti, si era accaparrato la maggior parte delle risorse del pianeta, e teneva in soggezione centinaia di milioni di persone in Asia e in Africa; né le palesi assurdità e ingiustizie della Pace di Versailles del 1919; né il tenace rancore della Francia verso la Germania; né la subdola strategia di Stalin, totalitaria all’interno (vedi la collettivizzazione forzata delle campagne e le “grandi purghe”, fino all’assassinio di Trotzkij nel Messico); né l’insaziabile voracità mostrata dal dittatore sovietico che, mentre il suo collega tedesco invadeva la Polonia, si assicurava la metà orientale di quel Paese, e che poi, mentre era in corso la campagna di Francia, inghiottiva in un solo boccone l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, per non parlare della Bessarabia della Bucovina settentrionale, sottratte poco dopo, con un ultimatum brigantesco di 24 ore, alla Romania.

Il fatto è che Douglas deve sforzarsi di giustificare la tesi centrale del suo libro: che cioè, come suggerisce il titolo, per uno scarto soli di tre giorni gli Alleati evitarono di commettere l’errore irreparabile di entrare in guerra contro l’Unione Sovietica, in difesa della Finlandia. L’armistizio finno-sovietico del marzo 1940, infatti, mandò a vuoto, all’ultimo momento, il piano strategico messo a punto dagli Stati Maggiori francese e britannico per impadronirsi di Narvik, sulla costa norvegese, e di lì, per marciare con truppe scelte sulle miniere di ferro svedesi di Kiruna e Gallivare, così necessarie all’economia bellica tedesca; per collegarsi infine, attraverso il porto di Lulea, sul Golfo di Botnia, con l’esercito finlandese in lotta sull’Istmo di Carelia, sulla cosiddetta “Linea Mannerheim”.

Lo sbarco a Narvik e in altri porti norvegesi, comunque, ebbe realmente luogo nell’aprile 1940 e provocò, per reazione, l’invasione tedesca del Paese scandinavo (assieme alla Danimarca); altra circostanza che i volonterosi storici liberaldemocratici cercano in tutti i modi di occultare o, quanto meno, di minimizzare.

La tesi centrale del libro è che, se l’armistizio tra Finlandia e Unione Sovietica avesse tardato ancora di soli tre giorni, l’irreparabile (dal punto di vista britannico) sarebbe accaduto; e l’Inghilterra e la Francia, cedendo all’«isterismo» della stampa e dell’opinione pubblica occidentali – così egli chiama l’ondata di simpatia per la causa finlandese – si sarebbe trovata in guerra, oltre che contro Hitler, anche contro Stalin. Mentre il vero nemico da distruggere, si sa, era Hitler, non Stalin, che era un uomo politico ragionevole e dalle pretese internazionali addirittura modeste, come aveva mostrato nel corso dei colloqui di Mosca con i finlandesi e poi, di nuovo, con le “limitate” richieste a conclusione della guerra d’inverno (che costrinsero il 12% della popolazione finlandese ad abbandonare le proprie case, per non dover divenire cittadini sovietici).

Quando si vuol dimostrare una tesi preconcetta, per giunta dettata dalla volontà di giustificare “a posteriori” le scelte di politica estera della propria nazione, avviene che si scartino sistematicamente tutti i fatti che discordano da essa, mentre si accolgono e si gonfiano a dovere, se necessario, tutti quelli che la possono suffragare. Ma questa non è storia, è solamente la propaganda dei vincitori, decisi ad imporre la propria interpretazione dei fatti alle generazioni future; ed è, in effetti, il modo in cui essa viene tuttora insegnata sui banchi di scuola di tutto il mondo e sostenuta, attraverso migliaia e migliaia di pubblicazioni, dai volonterosi rappresentanti della cultura accademica, così nei Paesi ex vincitori come in quelli che furono sconfitti.

Come sarebbe possibile, stante questo massiccio e sistematico condizionamento culturale, presentare sotto una luce diversa, e meno lusinghiera, le “nobili” e “pacifiche” intenzioni di Chamberlain, Daladier, Curchill, Roosevelt e Stalin?

Come giustificare, altrimenti, la pace punitiva che essi imposero alle nazioni del Tripartito alla fine della seconda guerra mondiale e specialmente alla Germania, che solo nel 1989 ha visto cadere il Muro di Berlino e ritrovare la propria unità nazionale?

E come ammettere che le piccole nazioni, come la Finlandia, non furono in complesso trattate meglio dalle Potenze alleate, rispetto a quanto fecero quelle dell’Asse; tanto è vero che tutti i piccoli Stati dell’Europa centro-orientale vennero abbandonati, a guerra finita, all’ingordigia di Stalin, Polonia compresa, dopo aver proclamato per oltre cinque anni che la guerra era stata fatta per difendere il diritto all’indipendenza di tutti gli Stati, e specialmente della Polonia, contro la prepotenza hitleriana?

È veramente lunga, la coda di paglia degli storici inglesi, americani e russi e, in genere, di quasi tutti gli storici contemporanei, i quali hanno propagato la leggenda di una superiorità morale delle Potenze vincitrici su quelle sconfitte, in modo da accreditare la loro interessata interpretazione della storia recente: secondo la quale, finalmente, la forza e il diritto avrebbero finito per coincidere – come nei migliori western hollywoodiani -, con incalcolabile beneficio per il mondo intero…

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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