Il peggiore dei mondi possibili

Massimo Fini, Il vizio oscuro dell'Occidente Nel maggio del 1973 feci il viaggio di nozze con la mia prima moglie in Marocco, che era, allora, un Paese stupendo, non solo per le bellezze del paesaggio e delle sue città (Marrakesh, Meknes, Fes), per la sua storia e la sua cultura, ma perché coniugava il medioevo arabo con alcune conquiste della modernità, soprattutto nei settori della medicina e dell’educazione. Mia moglie ebbe un incidente vaginale piuttosto serio che i medici magrebini risolsero rapidamente e in modo perfetto consentendoci di proseguire il viaggio.

A mezzogiorno si vedevano spuntare bambini e ragazzini con la cartella anche in pieno deserto e i giornali erano pieni di dibattiti sulla scuola, sui programmi, su quale fosse la migliore scansione degli orari per tenere alto il livello di attenzione dei giovani. Il Paese era ordinato e tranquillo. Era stato un capolavoro, a mio avviso, del re Hassan II, che era riuscito a guidare il Marocco verso una moderata modernizzazione senza che perdesse le proprie radici le proprie tradizioni, il proprio modo di vivere, la propria specificità. La gente era molto ospitale, dal re all’ultimo marocchino.

Noi potemmo visitare la reggia estiva di Hassan II, poco fuori Marrakesh, senza alcuna formalità, semplicemente presentandoci ai cancelli e chiedendo di entrare negli splendidi giardini di aranceti e limoneti, ingentiliti da dei laghetti. Sullo sfondo di questo paesaggio araldico sentivamo il rumore del galoppo della cavalleria berbera che si allenava. Sulla piazza Djma el Fnà di Marrakesh la gente stendeva i suoi tappeti, grandi o minuscoli e, sullo sfondo della Koutoubia illuminata la sera dalla mezzaluna, vendeva quel poco che aveva.

Massimo Fini, Sudditi Erano poveri, ma poco contava su quella piazza dove tutti facevano la stessa vita comunitaria e si divertivano agli spettacoli di saltimbanchi, fachiri e mangiafuoco che non erano per i turisti (che non c’erano, tranne una piccola enclave hippy).

Grazie all’estenuante capacità di mia moglie di portare in lungo i patteggiamenti finché non ottiene il prezzo che vuole (agli arabi, si sa, piace molto trattare) facemmo amicizia con M’Berek, il figlio di un commerciante che aveva bottega nel mercato al coperto, più ricco di quello che si teneva sulla piazza. M’Berek ci invitò a pranzo a casa sua perché conoscessimo la sua famiglia. Abitavano una casa spazio e luminosa, oltre ai genitori e a M’Berek, che, con i suoi 22 anni, era il più grande, c’erano due fratelli più giovani e il piccolo di tre anni, un bambino graziosissimo con un casco di riccioloni neri, (noi di bambini come Alì ne abbiamo uccisi 32.195, in Iraq, nella prima guerra del Golfo). Era una famiglia molto unita e affettuosa.

Ma M’Berek si era messo in testa di venire a lavorare in Europa, in Francia per fare l’operaio alla Renault. Invano gli dissi che a me sembrava che la sua felicità fosse lì, con la sua famiglia, con i suoi fratelli, nel suo mondo. Un anno dopo me lo vidi capitare a casa, di passaggio per la Francia. Lo ospitai qualche giorno, poi partì per Parigi. I ragazzi che si rivoltano oggi nelle banlieu parigine, sono i figli di M’Berek, diventati francesi a tutti gli effetti, che hanno capito di che pasta sia fatto il “sogno occidentale”.

È una rivolta apolitica, aideologica, areligiosa che non ha radici nemmeno nell’emarginazione e nella miseria, perché le banlieu non sono affatto miserabili, ma, al contrario, ben ordinate, fornite di tutti i servizi e collegate col centro da una rete invidiabile di metro. È una rivolta e basta. Contro un modello di sviluppo che chiede prezzi sempre più alti, dal punto di vista esistenziale e nervoso, senza dare in cambio nulla, tantomeno quell’armonia e quell’equilibrio che M’Berek aveva nel pur povero Marocco di trent’anni fa. Ecco perché la furia dei ragazzi magrebini si scatena nelle scuole, sugli autobus, sui servizi delle banlieu, cioè proprio sui simboli del loro relativo benessere che, evidentemente, benessere non è.

La rivolta dei giovani magrebini – che Renzo Foa sul Giornale ha definito “nichilista” – è preoccupante e, insieme, significativa e molto interessante. Perché potrebbe estendersi, prima o poi, anche ai giovani europei, delle periferie e non, che, a differenza dei primi, non hanno il ricordo, attraverso il racconto dei genitori, di una vita più povera, ma più semplice, più equilibrata, più armonica, più serena, più sensata, più umana, ma intuiscono anch’essi che deve pur essere esistito un mondo meno stressante e insensato di quello che, dalla Rivoluzione industriale e dall’Illuminismo in poi, ci viene presentato come “il migliore dei mondi possibili’.

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Tratto da Linea del 15 novembre 2005.

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