Il suicidio dell’Occidente

Roger Scruton è un filosofo inglese considerato dal New Yorker «il più influente filosofo del mondo». Il fatto curioso è che non si tratta del solito pensatore progressista, impegnato a ripetere a ogni occasione la filastrocca dei diritti umani, dell’uguaglianza e dell’accoglienza indiscriminata. Roger Scruton è un filosofo conservatore, fieramente amante della civiltà occidentale, difensore della religiosità cristiana e delle piccole comunità.

In Italia il nome dell’autore britannico è poco noto, nonostante di suo sia già stato tradotto il Manifesto dei conservatori. È da poco tempo arrivato nelle librerie del nostro Paese un rapido libretto che raccoglie una sua recente intervista curata da Luigi Iannone dal titolo Il suicidio dell’Occidente (Le lettere, 68 p., 9,50 euro). Nelle rapide pagine di questo dialogo ci si trova finalmente davanti a un pensatore che non ha paura di dire ciò che pensa, ma che anzi esprime con chiarezza e decisione il proprio pensiero, sapendo essere però incisivo e ironico, evitando sempre con destrezza la pessima abitudine di alcuni di diventare seriosi e logorroici.

L’intervista si divide in sei parti e affronta i tratti salienti del pensiero di Scruton, il quale si mostra sempre molto diretto e preciso nelle proprie argomentazioni. Nonostante il titolo della pubblicazione, la visione del filosofo conservatore è tutt’altro che arrendevole e negativa. Certo, l’Occidente è entrato in una fase di crisi e di sfide epocali, ma a questo momento decisivo è possibile reagire con fermezza e sicurezza, appellandosi a quei valori e punti saldi che, secondo Scruton, ne costituiscono l’eredità vitale e portante: «Sostengo la sfida di vivere qui ed ora e di raggiungere la tranquillità e l’ordine tra la gente e le cose che amo».

La discussione si apre con una critica serrata allo Stato nazionale e alla globalizzazione. Proprio le strutture statali europee, secondo il filosofo inglese, sono le istituzioni più attive nel realizzare gli scopi dell’universalismo e del multiculturalismo. Lo Stato non come argine, ma come farraginoso gigante burocratico capace solo di limitare le libertà individuali. A ciò si aggiunge una continua ricerca del benessere che perde però di vista la religiosità e le tradizioni culturali, aprendo quindi la strada a una religione molto più vitale quale quella islamica. La più forte e attuale ancora di salvezza sta nelle piccole comunità, le quali costituiscono il vero fulcro dello stare insieme e del perdurare della cultura: «è solo attraverso le piccole comunità e a quella sorta di “responsabilità” tra vicini, tipica dello Stato-nazione, che le persone acquisiranno le motivazioni per migliorare questo stato di cose. Io voglio una risoluzione locale per vivere liberamente, ma a passo lento».

Ma chi si aspettasse di trovarsi di fronte un neoluddista decrescista sbaglierebbe. Roger Scruton è brillante e diretto anche per quanto riguarda la questione sempre aperta della tecnologia e della bioetica. Partendo dal presupposto che non esiste una bioetica, ma un’etica e basta, che coinvolge cioè tutti gli ambiti del comportamento, l’autore specifica che dal suo punto di vista la tecnica non è per nulla un evento auto-referenziale, come sostiene Emanuele Severino, ma piuttosto un mezzo. E per arrivare ad affermare ciò, risalendo in modo forse un po’ sbrigativo al concetto di Techné, il filosofo britannico porta come esempio l’utilizzo che delle tecnologie fanno gli agricoltori: il trattore è uno strumento, un mezzo nelle mani dell’uomo. All’interno della corrente del tempo e nel mare dei problemi legati alle nuove tecnologie e prospettive per l’essere umano, la condotta da tenere non è di rinuncia: «C’è una tendenza nel pensare che ci si debba lasciare trasportare dal corso degli eventi e che non si possa fare niente per cambiarli. Questo non è vero. La tecnologia aumenta il nostro controllo sugli eventi, l’importante è sapere come usare tale controllo». Il vero problema, alla fin fine, non è la tecnologia, ma la capacità dell’uomo di comprenderla e controllarla. Forse inconsapevolmente Scruton in questo passaggio conferma le problematiche heideggeriane.

In una costruzione filosofica semplice, fortemente radicata nel senso comune e nel buonsenso – che sono altra cosa dal conformismo -, il pensatore arriva ad affermare la bontà di un percorso dell’umanità lento ma rivolto al futuro. È un conservatore anomalo, che elogia la lentezza ma non disprezza né condanna le tecnologie: «Io sono un OGM, e per questo ne sono a favore, a patto che siano attentamente costruiti per generazioni, proprio come me».

Ma il grande problema che sembra porsi nella conclusione della discussione riguarda ovviamente l’Occidente in quanto blocco di civiltà. La messa in discussione di capisaldi quali la religione, la libertà, l’umanità e l’identità sono fortemente sentiti da Scruton, il quale conferma che «le persone hanno bisogno di radici senza le quali invecchiano e poi muoiono». E allora la soluzione è tutta politica, in un momento che richiede coraggio e autorità, appellandosi alla capacità di dare la precedenza al localismo, all’autoctonia e alla riscoperta di ciò che siamo.

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Tratto da Linea del 30 settembre 2010.

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Segui Francesco Boco:
Nato nel 1984 a Belluno. Specializzando in Filosofia con una tesi su Oswald Spengler e Martin Heidegger. Collabora con il Secolo d'Italia, Letteratura-Tradizione e Divenire, rivista dell'Associazione Italiana Transumanisti. Ha tradotto e curato il saggio di Guillaume Faye su Heidegger, Per farla finita col nichilismo.

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