Il ricordo della decadenza

Introduzione: identificazioni storiche e ricordi ancestrali

Esiste un processo psicologico collettivo per cui certi processi storici si mitologizzano per trasformarsi in ‘fantasmi psichici’ che si affermano in un determinato inconscio collettivo. Molto spesso si tratta del fatto che popolazioni, che un tempo erano state dominate da un’aristocrazia razzialmente o etnicamente allogena ormai estinta, o che sono discendenti di classi schiave o servili, tendano a immaginare sé stessi come discendenti di quella casta signorile, della quale qualche volta avranno acquisito la lingua, alcune abitudini religiose, un po’ di tecnologia (1). A seconda dei casi, questo procedimento psicologico può acquistare coloriture particolarmente grottesche.

Processi del genere sono documentati anche sul piano completamente storico; e anche in Europa. Nabide, re della Sparta della decadenza e sciovinista spartano, era in realtà discendente di iloti; Federico I Hohenstaufen seppe mettere al loro posto certi ‘romani’ che, rifacendosi ai meriti acquisiti dai loro ipotetici antenati, gli si erano messi davanti con ogni sorta di assurde pretese; il Barbarossa, che certa cultura storica non poteva averla, aveva però intuito perfettamente quale fosse il nocciolo del problema.

Fenomenologie di questo tipo, sono rintracciabili sul piano storico anche fuori dall’Europa. Nell’India settentrionale, per esempio, tutti sono ‘ariani’ – anche quelli che hanno la pelle nero carbone – e di conseguenza sono obiettivo dell’astio delle popolazioni dravidofone e tamil del Sud che tale (immaginario) privilegio non condividono. Nell’Africa meridionale (territorio della ex-Rhodesia) esistevano ancora recentemente delle scarse popolazioni – i lemba, imparentati con i venda del Transvaal settentrionale – discendenti ormai totalmente negrizzate di immigrati semitico-levantini arrivati dallo Jemen all’inizio del Medioevo (2). Essi chiamavano sé stessi mulunga, che significa ‘uomini bianchi’, e fra le tribù vicine essi avevano la reputazione di essere buoni tecnologi e temibili stregoni. Avevano ancora un ricordo storico perfetto del fatto che i loro antenati arabi si accoppiarono con donne nere locali fino alla totale bantuizzazione della stirpe, ma questo problema lo aggiravano classificando i maschi della tribù come ‘bianchi’ e le donne come ‘negre’, escluse quindi, in quanto tali, dalla maggior parte dei riti religiosi. I venda del Transvaal facevano (e continuano a fare, più o meno sottobanco) sacrifici umani ai coccodrilli albini (e quindi bianchi) del lago Fundudzi, nei quali percepiscono la ‘presenza’ degli antenati bianchi (3).

Sono quindi percepibili due tendenze psicologiche diverse: una è la soppressione del fatto storico per immaginarsi al posto di quelli che una volta erano stati i signori e i dominatori; l’altra, l’ammissione del fatto catastrofico e irreversibile e il tentativo di esorcizzarlo per mezzo di ogni tipo di strani sotterfugi. La propria triste situazione è poi proiettata su forme biologiche ancora più involute, tipo le scimmie, alle quali si attribuisce una condizione involutiva più spinta ma non qualitativamente diversa dalla propria.

1. Origine umana del subumano e dell’animale

Fra gli umani dell'”ecumene artico” veniva naturale, in altri tempi, non fare distinzioni importanti fra gli animali e gli umani della fascia tropicale – non a caso gli indù vedici avevano messo gli aborigeni indostani dalla pelle scura sotto la protezione dello stesso dio – il secondario e ctonio Pušan – la cui funzione era quella di proteggere le bestie (4).

Viceversa, per le popolazione infime dell’Australia e dell’Amazzonia, per esempio, la distinzione fra umano e non-umano era oltremodo difficile e la linea di divisione labile e cangiante e comunque non legata all’aspetto somatico dei soggetti (5). I boscimani dell’Africa meridionale avevano una particolare riverenza per la mantide (fra quelli del Drakensberg sembra ci sia stato un vero e proprio culto di questo insetto), nella quale si vedeva un “uomo arcaico” che aveva preso la via dell’animalità sotto circostanze poco chiare (6) – ma c’era anche il ricordo mitologico di un essere gigantesco, intermedio fra l’umano e la mantide. In modo meno elaborato, c’era la venerazione della cicala nelle isole Andamane (7).

oranghiAllo scrivente (8), fu riferito da una vecchia meticcia sudamericana che le scimmie erano la gente del mondo che c’era stato prima di questo; e gli aborigeni amazzonici attribuivano alle scimmie proprio uno dei vizi che essi hanno in comune con tutti i selvaggi, che è quello di mentire sistematicamente (la profonda falsità è connaturata al selvaggio, che mente non solo per fare della ‘disinformazione’ ma per sistema). Ai primi esploratori spagnoli che si avventurarono in Amazzonia, nel Cinquecento, fu proprio riferito come le scimmie, capaci di conversare fra di loro nella loro lingua specifica, non dicessero mai una parola di verità (9). E in Africa quelle (poche) stirpi negroidi che rifiutavano il cannibalismo si astenevano invariabilmente anche dal mangiare la scimmia, in quanto vista, in certo e qual modo, come un ‘umano’ (10). Nelle mitologie antartiche (singolarmente ricche, quando si consideri il grado di decadenza di quelle sfortunate popolazioni) ricorre ripetitivamente il tema di un’umanità arcaica poi discesa nell’animalità (11).

Che poi la discesa fino all’animalità – attraverso, qualche volta, del subumano ‘uomo scimmia’ – sia avvenuta come conseguenza di qualche ‘colpa’ (in senso lato: mutilazione psichica destinata a riflettersi nel soma), come aveva suggerito Joseph de Maistre, è pure testimoniato da diverse nozioni intrattenute dalle popolazioni delle quali gli ‘uomini scimmia’ condividevano il territorio. La tradizione tibetana indica nello yeti un uomo decaduto in seguito a una non meglio specificata prevaricazione (12); e gli indiani dell’America del Nord vedevano nel sasquatch un trait-d’union
fra l’uomo e l’animale – ma esso era stato anch’esso umano, decaduto in ragione di avere acquisito abitudini cannibalesche (13). Qualcosa di analogo è suggerito riguardo all’uomo scimmia’ della Siberia (14).

2. Il selvaggio vede sé stesso come un decaduto: ‘neritudine’ del male

Il selvaggio, sia pure a livello semiconscio, vede sé stesso come un decaduto e nel colore della sua pelle il marchio di una maledizione – non a caso, nell’Africa nera, nonostante tutta la propaganda in senso contrario negli ultimi tempi, i negri vedono sé stessi non come una popolazione ‘giovane’, ma crepuscolare e in via di scomparsa (15). Nell’America del Sud, invece, gli indigeni svilupparono subito un odio particolare per il negro, nel quale essi vedevano la loro immagine contraffatta. In Guyana, gli indigeni di ceppo caraibico perseguitavano ferocemente gli schiavi negri
fuggiaschi e li uccidevano o li restituivano ai proprietari: non a caso, nella loro lingua, la parola usata per indicare il negro significava letteralmente ‘meno che umano’ (16). Gli indigeni yupa della frontiera fra Venezuela e Colombia equiparavano i negri ai pipistrelli (17); mentre i maquiritare del massiccio guayanese chiamavano sé stessi e gli europei ‘persone, gente’, ma non i negri o i meticci che invece erano criollo [‘creoli’] e quindi qualcosa d’altro (18).

structures-antropologiques-de-limaginaireSecondo l’importante etnologo Gilbert Durand (19) i selvaggi, in generale, hanno la tendenza a rendere, nel loro immaginario, le influenze psichiche negative (gli ‘spiriti maligni’, il ‘diavolo’) come una figura dalla pelle scura (“il est remarquable de constater que cette ‘noirceur’ du mal est admise par les peuplades à peau noire [è interessante constatare come questa ‘neritudine’ del male è ammessa dalle popolazioni dalla pelle nera]”). Un caso estremo parrebbe essere quello dei negri bambara (20); e l’etnologa Lorna Marshall (21) ci informa di come i boscimani si rappresentino ‘lo spirito della sfortuna e della malattia’ come una figura nera.

3. Ricordi e proiezioni biologiche ed etologiche

Ma il ricordo di un passato migliore si trascina anche nella parte puramente somatica (biologica) delle popolazioni decadute; e nel contempo l’impronta etologica della futura totale animalità affiora occasionalmente in quegli esseri in bilico fra umanità e bestialità.

Già Julius Evola (22) osservava acutamente che individui “…di alta e slanciata figura si trovano anche fra le razze negridi e colorito bianco e occhi quasi azzurri si trovano … fra le razze malesidi … né qui si deve pensare a scherzi della natura … in qualche caso potendosi trattare di sopravivenze somatiche di tipi precedenti, di razze che nel loro antichissimo periodo zenitale potevano avere caratteri simili a quelli (dopo) concentrati nell’elemento iperboreo …”. Qui vale aggiungere che gli strani casi di biondismo, indipendente da qualsiasi meticciato, sono documentati per certe popolazioni selvagge (addirittura antartiche) dell’Oceano Pacifico: australiani (23), papuasi (24), polinesiani (25); e che fra gli indigeni yupa del Sud America (26) esisteva un’antica nozione secondo la quale fra di loro, occasionalmente nei tempi anteriori al missionarismo, erano insorti individui prestanti, forti, intelligenti (i cosiddetti papachi) che arrivarono spesso alla dignità di capi.

Ma invece il presagio dell’animalità non si presenta su di una base occasionale, ma permanente. Le caratteristiche di tipo pongide di moltissime stirpi selvagge – in particolare, degli australiani – sono messe in evidenza in grande dettaglio da John Baker (27), mentre più sopra è già stato menzionato che, fin dalla nascita, il boscimano ha l’aspetto di un vecchio (a riflettere la triste condizione metafisica ed esistenziale della sua stirpe). Giuseppe Sermonti (28) espone in dettaglio il fatto che le forme fetali e neonate delle scimmie hanno un aspetto molto più ‘umano’ degli adulti; e l’appena citato John Baker fa il medesimo riguardo alla circostanza che le forme giovanili di certi tipi umani selvaggi dimostrano una vivacità di intelletto e una capacità di apprendistato che poi si spegne con la crescita.

Caratteristiche animali (di animali africani) sono dimostrate da certe popolazioni fueghine. I maschi alakaluf hanno i genitali di colore azzurro sgargiante (29), il che li rende simili alla scimmia azzurra dell’Africa meridionale e orientale (pene rosso cremisi, testicoli azzurro cielo); e i patagoni (30) dimostrano uno scarsissimo dimorfismo sessuale, il che li avvicina alla iena. Anche il comportamento del selvaggio si rivela spesso pongide. Irenäus Eibl-Eibesfeldt (31) ci informa di come i babbuini salutino schioccando la lingua – e la fonetica ‘a schiocchi’ è tipica delle ormai quasi estinte popolazioni capoidi dell’Africa meridionale (32). E le donne della tribù africana dei fulbe, per salutare, volgono le terga a colui a cui il saluto è diretto e nel contempo si inclinano profondamente, procedimento identico alla ‘presentazione acquietante’ dei babbuini (33).

Note

(1) Questo fatto fu notato anche da una scrittrice italiana che meriterebbe di essere conosciuta meglio, Roberta Rambelli (Profilo lineare B, Libra, Bologna, 1980).

(2) Cfr. Robert Gayre, Origins, cit.

(3) Notizia appresa dallo scrivente durante il suo soggiorno nell’Africa meridionale, verso la fine degli anni Ottanta.

(4) Cfr. Georges Dumézil, Jupiter Mars Quirinus, Einaudi, Torino, 1955.

(5) Degli interessanti esmpi sono dati da Hans Findaeisen, Das Tier als Gott, Dämon und Ahne, Franckische Verlagshandlung, Stuttgart, 1956.

(6) Cfr. Isaac Schapera, Khoisan, cit.; Sigrid Schmidt, Die Vorstellungen von der mythischen Urzeit und der Jetztzeit bei der Khoisan-Völkern, in Reiner Vossen (a cura di), New perspectives on the study of Khoisan, Helmut Buske, Hamburg, 1988.

(7) Cfr. Lydia Icke-Schwalbe und Michael Günther, Andamanen, cit.

(8) In occasione di un viaggio da lui intrapreso nel 1981 nel Venezuela centrale.

(9) Cfr. Ramón Sende, La aventura equinoccial de Lope de Aguirre, Bruguera, Barcelona, 1982 (originale 1962).

(10) Notizia appresa dallo scrivente durante il suo primo soggiorno nell’Africa meridionale, primi anni Settanta. Ma cfr. anche Ester Panetta, Pigmei, cit.

(11) Cfr., per i boscimani, Sigrid Schmidt, Vorstellungen, cit.; per gli australiani, Mircea Eliade, Réligions, cit.; per i fueghini, Mireille Guyot, Mythes, cit.; ecc.

(12) Cfr. Attilio Mordini, Yeti, cit.

(13) Cfr. Christian Filagrossi, Creature, cit.

(14) Cfr. Peter Kolosimo, Fiori, cit.

(15) Questo fu appreso dallo scrivente durante la sua permanenza in Africa alla fine degli anni Ottanta. Ma cfr. anche Silvano Lorenzoni, I continenti perduti, la Luna e le cesure epocali, Carpe Librum, Nove, 2001.

(16) Cfr. Andrés Serbín, Nacionalismo, etnicidad y política en la República cooperativa de Guyana, Bruguera Venezolana, Caracas (Venezuela), 1981.

(17) Notizia appresa dallo scrivente durante il suo soggiorno in Sud America nei primi anni Ottanta; ma cfr. anche Félix María de Vegamián, Los Angeles, cit.

(18) Notizia appresa dallo scrivente durante il suo soggiorno in Sud America, fine anni Settanta.

(19) Gilbert Durand, Les structures anthropogiques de l’imaginaire, Bordas, Paris, 1984 (originale 1969).

(20) Cfr. Gilbert Durand, Structures, cit.; Georges Dieterlen, Essai sur la réligion des bambara, Presses Universitaires de France, Paris, 1951.

(21) Citata da Martin Gusinde, Von gelben …, cit.

(22) Julius Evola, Sintesi, cit.

(23) Cfr. Carleton Coon, Razas, cit.

(24) Cfr. Alfred Vogel, Papuasi, cit.

(25) Cfr. Thor Heyerdahl, Aku-aku, Gyldendal Norsk Vorlag, Oslo, 1957.

(26) Cfr. Félix María de Vegamián, Los Angeles, cit.

(27) John Baker, Race, cit.

(28) Giuseppe Sermonti, Luna, cit.; ma molto prima anche Piero Leonardi, Evoluzione, cit.

(29) Giuseppe Sermonti, Luna, cit.; ma molto prima anche Piero Leonardi, Evoluzione, cit.

(30) Cfr. Vittorio Marcozzi, Uomo, cit.

(31) Ireanäus Eibl-Eibesfeldt, Amore e odio, Euroclub, Bergamo, 1981 (originale 1970).

(32) Una trovata degli evoluzionisti, che tutto devono incastrare nel paradigma darwiniano, è sufficientemente peregrina perché valga la pena di citarla (cfr. il quotidiano “Libero” [MIlano] del 6 settembre 2003). Siccome la lingua ‘a schiocchi’ è la ‘più vicina alla lingua umana primordiale’ (l’Homo sapiens, si sa, proviene dall’Africa orientale), bisogna che obbligatoriamente anche le lingue australiane (anch’esse molto ‘primitive’) siano state a schiocchi in un imprecisato passato.

(33) Cfr. Eugène Marais, Burgers, cit.

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Il presente brano costituisce il cap. 6 del libro Il selvaggio. Saggio sulla degenerazione umana (Ed. Ghenos, Ferrara 2005).

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