Il modo d’essere dell’Arbeiter

operaioIn questo brevissimo articolo tenterò di far luce sulla struttura ontologica, sul modo d’essere, dell’Arbeiter, dell’Operaio, di Ernst Jünger.

Se il Milite Ignoto e il Ribelle condividono il modo d’essere ‘senza paura’, l’Operaio, al pari dell’uomo comune, sarebbe caratterizzato dalla ‘paura della morte’: ciò che lo differenzia da quest’ultimo è, da un lato, la maggiore istintualità (nel senso di impulsività), dall’altro la libertà, la quale manca completamente all’uomo medio.

Quest’ultimo bada massimamente al dolore fisico: la sua avveduta e intelligente condotta, lo induce ad evitarlo, ad eluderlo, al costo di provocare distruzioni morali, spirituali. E così, ad esempio, per evitare l’indigenza, darà molta importanza al guadagno. Pur di guadagnare distruggerà la bellezza. Oppure, per poter vivere nel modo più comodo, mitigherà il luogo incontaminato in cui abita, rendendolo però esteticamente poco attrattivo.

L’Operaio, dunque, è più incosciente del ‘borghese’, e quindi, da un lato, è più autodistruttivo rispetto a quest’ultimo, dall’altro sarà anche più distruttivo, in quanto non giunge a concepire un utilitarismo etico. Tale sua incoscienza potrebbe indurlo a partire per un qualche fronte (dove, essendo libero, combatterebbe comunque onorevolmente).

Ma costui è portato a distruggere anche l’arte? Forse no (i suoi interpreti sono in ciò discordi). La sua vita è pericolosa, proprio perché, oltre ad assecondare degli impulsi aggressivi, asseconderebbe anche degli impulsi estetici (tendendo, dunque, a preservare, ad esempio, la natura nella sua incontaminatezza e originarietà).

La ripetitività, la povertà, l’omologazione, caratterizzanti – sia dal punto di vista della produzione, che della fruizione del prodotto – l’attività del moderno operaio, rendono tale attività qualcosa di antiestetico, di non-artistico. Nell’Operaio, la sua autentica libertà, lo indurrebbe anche ad una certa continenza sessuale (dunque fine a se stessa), producente un accumulo di energia libidinale che rende tutto più attraente: ciò consente di trasformare il lavoro presso la catena di montaggio, da attività alienante, ad attività artistica. L’Operaio sarà anche – per così dire – ‘a se stesso’ più attraente (si amerà, si piacerà maggiormente, rispetto al livello di autostima caratterizzante il comune operaio). Per produrre il componente di un qualche prodotto di mercato (che verrà fruito esteticamente dall’Operaio), non servono grande abilità, erudizione e intelligenza. Ma l’intelligenza non è nobile. Un uomo, secondo la prospettiva jüngeriana, và valutato soprattutto per la sua levatura morale, e non tanto per le sue capacità mentali. L’esercizio della libertà produce, quindi, anche dignità. L’Operaio, è un ‘uomo’, è persona matura e senza complessi, ‘non si sente da meno’ rispetto a chiunque.

Vi è da ritenere che per Jünger l’arte non abbia, nel senso più proprio, carattere ludico. Il ‘gioco’, richiede che tra l’antecedente di un comportamento e quest’ultimo, il legame sia contingente (ovvero, ad esempio, l’appetito non necessita lo sfamarsi, non spinge a ciò). L’uomo che gioca agisce comunque in base a delle cause (a delle ragioni, a dei motivi): se avere appetito è piacevole, all’appetito farà seguire necessariamente il mangiare, per evitare l’intensificazione del senso di fame (dolorosa, non più piacevole).

Ho portato l’esempio del cibo. Se per ‘gioco’ si intende l’ ‘arte’, anche il mangiare può assumere – e interamente – carattere di godimento estetico (con riferimento alla sensazione del gusto). Avrei potuto portare come esempi – interscambiabilmente – il sesso, il dipingere, il praticare uno sport, ecc.

Presso Jünger, dunque, probabilmente l’arte (in senso lato), procura grande sollievo, ma non pieno appagamento. Il pensatore tedesco ritiene che la vera libertà non possa prescindere dall’affermazione del dolore (contraddittorio di ciò che si vuole).

Ma dal momento che la suddetta continenza sessuale implica l’auto-contraddittoria non-soddisfazione di un impulso, allora autentica libertà (così come la concepisce Jünger), ovvero autentica moralità, e ‘gioco’, potrebbero anche sussistere assieme.

Ritengo tuttavia che la filosofia jüngeriana in generale (andando assai sinteticamente al sodo), implichi necessariamente che si possa fare solo esperienza del dolore. Il quale, infatti, in quanto struttura metafisica imprescindibile, non può venire asceticamente meno (non ci si può liberare del senso d’appetito, così come ci si può liberare della ‘voglia di fumare’. Condivido, fra l’altro, tale veduta jüngeriana).

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Umberto Petrongari è nato a Rieti nel 1978. Laureatosi in filosofia presso l’Università degli Studi dell'Aquila, ha pubblicato per la casa editrice Aracne due saggi dal titolo: Il pensiero negativo di Julius Evola e il suo oltrepassamento (2013); Excalibur e la tradizione ermetico-alchemica (2014).

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